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ad orecchie
ripiene della musica della trascendenza o suona soave ad orecchie ripiene della
musica della cosiddetta immanenza: in qualunque modo si determini il vincolo di
ciò che è da pensarsi per altro con ciò che è da pensarsi per sé, non è mai
lecito alla mente umana darsi i rispettivi concetti in assoluta indipendenza, e
non già perché entro la nostra ragione i concetti si connettono sempre con
maggiore o minore mediatezza o con mediatezza zero - il che, del resto, è di
fatto e di diritto solo per una razionalità matematica che pretenda di
matematizzare tutto, mentre è destinata a restare puro ideale di diritto per
altra razionalità -, ma propro perché una volta portatisi sul piano metafisico,
e nessuna indagine razionale e per intelligibilità può rifiutarsi di farlo se
non con una affermazione assolutamente surrettizia, il concetto di natura mai
ha ragioni per porsi come il concetto di un reale per sé, e ha solo ragioni per
porsi come il concetto di un reale per altro; se si pensa che il “per” ha qui
una portata cognitiva che non necessariamente investe l’ontità e per la quale
nessuna ragione si dà per una sua necessaria traduzione in sé - dunque, le
equivalenze per sé= in sé, per altro = in altro, sono dei possibili non degli
apodittici -, si dovrà riconoscere che le condizioni formali del conoscere
pongono l’unità relazionale dei due concetti, e quindi l’unità dell’unico
concetto di reale in genere la cui connotazione è costituita dal concetto di
principio in genere e dal concetto di natura in genere, l’uno all’altro relati
dal concetto di derivazione gnoseologica in genere - e questo appare evidente
quando si pensi che il concetto di
principio, nell’atto in cui lo si afferma necessariamente e legittimamente
connotato dalla nota dell’esistenza del suo oggetto, è predicabile
esclusivamente dall’attributo di reale determinato da quel “per sé” che
null’altro significa se non che il pensiero di tipo umano, se gliene fosse data
l’intuizione immediata, potrebbe passare dall’intuizione che ha ad altra
intuizione in una simultaneità di intuizioni la cui intelligibilità la ragione
ragionante offrirebbe con la categoria del rapporto da ragion sufficiente a
razionalmente legittimo e non con la categoria del rapporto da razionalmente
legittimo a ragion sufficiente -; d’altro canto siffatta unità in nulla
determina
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l’unità in sé del reale primo in sé e del reale secondo in sé in
quanto connessi da una certa derivazione in sé di questo da quello - infatti,
se il concetto di nesso di derivazione, che poi altro non è che la categoria
del rapporto da ragion sufficiente a razionalmente legittimo, fosse genere
formale privo di alcuna specie formale, se cioè fosse una categoria che di
diritto fosse genere di più specie concrete aventi a loro essenza o genere
prossimo la categoria stessa e a differenza specifica i concreti di cui
l’essenza costituisce la struttura formale, il che è quanto pretende una
razionalità matematica e matematizzante, se, in altre parole ancora, il
rapporto di intelligibilità tra la categoria
e le specie fosse immediato per esclusione di alcun altro genere
mediante, allora la portata esclusivamente cognitiva dell’unità concettuale
delle due nozioni del principio o ((e??))della natura acquisterebbe
simultaneamente una portata anche ontica e l’unità concettuale sarebbe il mero
simmetrico dell’unità ontica; ma è sempre lecito assumere le specie concrete o
infime, aventi a loro genere sommo la categoria relazionale suddetta, e
ritrovare in esse non già una sola essenza uniforme, ma un’essenza che, al
tempo stesso che si pone come struttura formale di certi modi concreti che ne costituiscono
le molteplici differenze specifiche, si dà nella connotazione di ciascuna
specie eterogeneamente determinata secondo una quantità di determinazioni di
estensione differente e minore dall’estensione delle specie e quindi riducibili
a generi che possono collegarsi o immediatamente alla categoria o solo
mediatamente per un processo analogo a quello che ha portato dalle specie al
genere di primo livello; di conseguenza, delle due l’una: o si dimostra
l’uniforme coessenzialità delle specie infime e in questo caso la categoria del
rapporto da ragion sufficiente a legittimamente razionali ha validità e
funzione formali ed ontiche, o si dimostra un’eterogeneità essenziale delle
specie infime e in questo caso tale categoria ha una validità puramente formale
e quindi una funzione di intelligibilità cognitiva, non di descrizione ontica;
nel primo caso la logica del reale e la logica della ragione fan tutt’uno e
s’identificano per innalzamento ontico del legittimamente
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razionale al livello della ragion sufficiente; nel secondo caso la
logica del reale e la logica della ragione si eterogeneizzano e si distinguono
per un abbassamento della ragion sufficiente al livello del legittimamente
razionale; in entrambi i casi la dimostrazione dell’una o dell’altra tesi è
questione cognitiva e non formale, nel senso che è tenuto a darla il pensiero
di chi afferma o di chi esclude la simultaneità e identità della portata
cognitiva dell’unità concettuale dei due concetti di principio ontico e di
natura con la portata ontica della medesima, non già chi si arresta all’aspetto
puramente formale, ossia razionale, ossia soggettivo, ossia di condizione
umana, di siffatta unità, che resta formalmente inalterata sia per un pensiero
che ponga tra i due concetti di reale per sé e di reale per l’altro un nesso
relazionale di creazione o di emanazione o di esplicitazione o di
determinazione o di autorappresentazione o di autoattuazione ecc. - Affermiamo,
insomma che i due concetti di principio e di natura, per la loro stessa
definizione, non sono pensabili se non il secondo in funzione del primo, il che
equivale a dire che debbono essere pensati in unità e con ciò entro uno stesso
concetto, che nelle sue determinazioni potrà variare a piacere, ma che nella
sua struttura formale non potrà essere che uno: prova indiretta sia questa, che
se fosse possibile altrimenti, se fosse lecita l’assoluta indipendenza
reciproca dei due, mai avrebbe potuto darsi una metafisica se non a sorgente
rivelazionistica o mistica, non essendo apodittico e quindi razionalmente
lecito il discorso dal concetto di natura al concetto di principio, non essendo
inferibile il concetto di principio da nessuna intuizione “normale”
affiancantesi a quelle “anormali “ della rivelazione o dell’estasi, non essendo,
di conseguenza lecito né il concetto di principio con quell’unica nota di
esistenza del suo oggetto che formalmente lo rende pensabile né, per ciò, il
concetto di natura per sé in forza dell’identità di esso con il concetto di
principio: l’assoluta irriducibilità dei due concetti avrebbe chiuso il
pensiero umano non già in un qualsiasi naturalismo, ma nella più assoluta delle
meccanicità di esistenza e di conoscenza o nel più assoluto degli scetticismi
che sarebbe quello dell’impossibilità di diritto e di fatto di affermare
alcunché, compreso il giudizio primo di cui lo scetticismo in genere è
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conseguenza. D’altra parte, i due concetti che in tal modo restano,
quello di natura, articolato con quello del primo nell’essere, e quello di
fenomenico non necessariamente si identificano, perché questo ha sempre una
portata formale più ampia dell’altro e ha una portata cognitiva la cui
coestensione a quello dell’altro è variabile: il concetto di fenomenico è la
sintesi degli attributi del naturale in quanto però conosciuto, ossia entrato a
far parte integrante della coscienza soggettiva e con ciò divenuto oggetto di
tutte le possibili funzioni di cui una coscienza di tipo umano è capace, e
quindi il naturale in quanto sensorialmente intuito, ricordato e per ciò
spontaneamente attuale e insieme intuito non sensorialmente, immaginato e per
ciò volontariamente e strumentalmente attuale e insieme intuito non
sensorialmente, fantasticato e per ciò
spontaneamente o volontariamente attuale e insieme intuito fuor dei
sensi e fuor dell’ordine sensoriale, intelletto e perciò ridotto alla sua
essenza universale e necessaria, affettivizzato e per ciò connesso alle
reazioni soggettive, estetizzato e per ciò ricondotto alla predicazione delle
categorie del bello, eticizzato e per ciò ricondotto alle categorie dei valori,
storicizzato, pragmaticizzato, ecc. ecc.; il concetto del fenomenico, dunque,
ha a sua essenza l’intuito sensoriale in quanto però pensato conoscibile per
quell’altro che è l’intuente, ed esistente in questo; formalmente quindi è la
sintesi del naturale arricchito di tutti quei modi che gli provengono da
un’esistenza in altro e non in sé e che appartengono essenzialmente all’altro
in cui può inerire; per opposizione, allora, il concetto di natura non è che il
concetto di fenomeno ma spogliato dall’esistenza in altro e dai modi che
l’inerenza in questo gli donano per estensione da questo, e dalla conoscibilità
per l’altro cui inerisce. Sembrerebbe che a questo più formale dovesse
corrispondere un più cognitivo che assicurasse sul piano del conoscere al
concetto di fenomenico la stessa superiorità che gli è garantita nel piano
formale sul concetto di natura, se non altro perché alcuni dei modi soggettivi
non paiono potersi ritrovare entro la natura in sé. Ora, il rapporto fra le due
portate quella formale e quella cognitiva va riguardato da altro punto di
vista: si tratta in primo luogo di stabilire quali delle funzioni soggettive
sono da ritenersi gnoseologicamente valide, in secondo luogo di considerare in
che modo il fenomenico in quanto intuito si adatta a divenir oggetto di tali
funzioni ed entro quali limiti e quali delle esigenze proprie delle funzioni
stesse; è possibile allora fissare tre
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