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essendo tale legislazione la categoria suprema del reale in tutte le
sue forme; s’intende che, una volta assunto siffatto assioma, nulla si è fatto
di più che imporre al proprio pensiero di tipo umano una condizione di tipo
puramente formale che nulla incide sulle determinazioni che affetteranno((??))
in futuro i reali discorsi che si pretenderà inferire dall’assioma; questo, in
realtà, è un indeterminato perché la sua posizione di identità tra reale e
razionale in nessuna nota denota necessariamente o il concetto di reale o il
concetto di razionale che per esso giacciono in equivalenza; in altre parole
l’equivalenza che esso pone e che costituisce la sua unica nota a connotazione
determinata è fatto puramente formale che stabilisce la dipendenza funzionale
dell’un termine equivalente dall’altro, un fatto che supererebbe i limiti del
mero condizionamento formale solamente se uno dei due termini si desse entro il
fenomenico, che resta pur sempre l’unico tesoro cui dobbiamo attingere per le
connotazioni materiali, ossia qualitative e non meramente relazioni, in
determinazione apodittica e quindi uniformemente e costantemente, e se, di
conseguenza, la dipendenza funzionale potesse inserirsi tra fattori uno dei
quali almeno non sia una variabile - vorrei, a questo punto, rilevare che il
mio presente discorso non lascia fuor di sé Hegel, che è quello fra tutti i
pensatori ad orientamento esplicitamente metafisico, che con maggiore
autoconsapevolezza ha posto determinatamente il proprio assioma e ne ha visto
con maggior chiarezza la condizione di indeterminatezza formale e ha tratto da
questa tutte le possibili conseguenze e fra queste la conseguenza più utile
alle finalità metafisiche, in vista delle quali l’assioma stesso si pone, della
variabilità essenziale alla connotazione qualitativa dei concetti, relati da
equivalenza e da dipendenza funzionale, di reale o ((e??)) di razionale; con la
conseguenza che il suo merito e insieme il suo limite non stanno già nella
conversione dell’equivalenza pel medio del secondo giudizio, che si allinea
all’altro sulla complanare principialità di ragion sufficiente, di equivalenza
del razionale al reale, in quanto la conversione non è che l’esplicitazione di
quanto già tutti i razionalismi avevano operato, a cominciare dal razionalismo
parmenideo tra le cui incongruenze sta appunto quella di aver materializzato
l’essere nella sfera misconoscendo l’ontità che al discorso soggettivo deve provenire
dalla sua razionalità, e in quanto il valore di essa, come conversione, sta
tutto nella puntuale applicazione
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di canone onnideterminativo in quanto assiomatico, ma sta piuttosto
nell’assicurazione e affermazione di variabilità degli elementi dichiarati
equivalenti, le quali gli consentono di elaborare a suo piacimento l’unica
variabile, che di diritto può essere differentemente determinata dal pensiero,
il razionale; e qui sta appunto il centro di gravità della sua metafisica
determinata e, per ciò, il concetto primo la cui validità deve essere
argomentata -. La portata esclusivamente formale dell’equivalenza stabilita
dall’assioma e la conseguente situazione di variabilità, che è poi stato di
indeterminazione qualitativa nella fattispecie, delle connotazioni dei concetti
formalmente rapportati rimandano per la determinazione materiale e qualitativa
a qualcosa d’altro dall’assioma stesso, e precisamente alle connotazioni in sé,
irrelate, dei concetti stessi, connotazione che per uno solo dei concetti
considerati è di diritto assoluta e incondizionata entro la determinazione
fenomenica cui le due connotazioni necessariamente si appellano, sicché quel
rapporto puramente formale di condizionamento funzionale che entro il mero
vincolo d’equivalenza era ambiguo potendo dirigersi dal razionale al reale o
dal reale al razionale a piacere, una volta spostatisi sul piano della
connotazione qualitativa si fa univoco potendo orientarsi solo nel senso di un
condizionamento funzionale del razionale sul reale - è questa la portata
veramente valida dell’esplicitazione hegeliana operata con la conversione del
giudizio primo -; dunque, il giudizio primo che attende la determinazione è
quello che pone il condizionamento funzionale del razionale sul reale (=“il
razionale è reale “) e non l’altro che, eretto a primo nell’ordine delle
ragioni sufficienti, stabiliva il reciproco del condizionamento funzionale (=“
il reale è razionale “). Ora, è facile notare l’aporia in cui il pensiero di
tipo umano è venuto a chiudersi in seguito alla sostituzione, entro il grado
gerarchico supremo condizionatore assoluto di intelligibilità e di validità del
presunto intelletto, del giudizio, primo di diritto, enunciante l’equivalenza
del razionale al reale e la conseguente illazione apodittica del razionale dal
reale con il giudizio, secondo di diritto, enunciante l’equivalenza del reale
al razionale e la conseguente illazione apodittica del reale dal razionale: e
non è
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questo semplice giochetto di parole: infatti, una volta mantenutosi
ossequiente alla materiale successione dei canoni e una volta attribuito a se
stesso come unicamente valido il diritto di valersi del razionale, come
veridico ricco di valore cognitivo, che sia stato attribuito per determinazione
funzionale dal reale, il pensiero di tipo umano gode di tutte le legittimità
operative, giacché ha assunto a suo assioma primo quello che indubitabilmente è
un conosciuto primo irrefutabilmente vero che cioè, essendo la conoscenza umana
un reale e comparendo in siffatta conoscenza della normatività legale o
razionalità, la razionalità deve senz’altro attingere il reale in modo però che
i modi di siffatte razionalità sono da assumersi come canoni produttori di
verità solamente se e in quanto inferiti dal reale e ritrovati nella
connotazione stessa del reale, il che non significa altro che il razionale, che
produciamo facendoci ottemperante a una certa legislazione imperante nel nostro
intimo e secondo cui elaboriamo rappresentazioni che hanno il diritto di pretendere
di essere riflessioni inalteranti il riflesso, è una variabile da determinarsi
in funzione del reale stesso secondo le conseguenze poste dal principio formale
generico di un’equivalenza in genere fra due concetti in genere; ma se il
pensiero capovolge l’ordine degli assiomi, se cioè, dopo aver proclamato che la
connotazione qualitativa del razionale deve essere dedotta dalla connotazione
qualitativa del reale, e dopo aver inferito il diritto di attribuire realtà a
qualsiasi ente pervaso di quella certa razionalità dal fatto che questa
razionalità è stata connotata secondo i modi qualitativi del reale e quindi ha
tratto le sue ragioni di esistere in genere e la sua ragion di esistere come
distintivo di realtà e di validità in particolare dalla sua inerenza a ciò che
è in sé reale e in sé valido, rovescia il rapporto intercorrente tra i due
enunciati da stazione di partenza terminale a fermata intermedia, e con ciò si
assume il diritto di determinare la connotazione qualitativa del reale
deducendola dalle determinazioni del razionale e, di conseguenza, di
argomentare la realtà e la validità dai modi della razionalità, esso può
ritenere di poter far ciò in nome della legittimità della reciprocanza generica
ed universale che sempre immane in un rapporto di equivalenza, ma di fatto esso
cade in un
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circolo vizioso, perché la reciprocanza che esso assume a diritto ha
una portata puramente formale, e gode di portata formale e materiale,
strutturale e qualitativa solo nel caso che si abbia a che fare con delle
quantità entrambe determinate, mai nei casi in cui l’equivalenza sia posta o
tra due quantità delle quali l’una sia parzialmente indeterminata o, tanto
meno, tra due qualità - infatti, posta la relazione di equivalenza tra due
quantità determinate, ossia corrispondenti a uno dei possibili gradi di una
scala di valori quantitativi noti e insieme fissate in due differenti tra le
possibili strutture che tale grado può rivestire, ad esempio tra la
determinazione algebrica e la determinazione geometrica del quadrato di due
quantità date e denotate dal comune attributo di addendi, non si dà nulla che
stabilisca un primato dell’equivalenza tra l’una delle due strutture e l’altra,
il primato, per restare all’esempio dato, dell’equivalenza tra la determinazione
algebrica e quella geometrica, sull’equivalenza reciproca o il primato opposto
dell’equivalenza tra la seconda e la prima struttura, dell’equivalenza tra la
determinazione geometrica e quella algebrica, sull’equivalenza reciproca; il
pensiero può liberamente muovere dall’una all’altro a piacere perché
l’equivalenza è di fatto un’identità, e a decidere del primato dell’una
sull’altra può essere tutt’al più una condizione intervenente nel complesso
dell’intero discorso che utilizza l’equivalenza e di cui l’equivalenza è un
semplice medio; ma quando la relazione di equivalenza sia tra una quantità
parzialmente indeterminata e una quantità determinata, ad esempio tra la
nozione di quadrato di due quantità date che siano addendi in quanto mera
possibilità della operazione e la nozione del quadrato delle stesse quantità in
quanto però operazione attuata, l’identità delle due enunciazioni reciproche
non è più lecita se non come medi differenti di due differenti complessi
discorsivi, essendo le due reciproche in quanto principi un di discorso tali
che l’una solo di esse, e precisamente quella per cui la quantità determinata,
nel nostro esempio il quadrato operato, è predicata alla quantità parzialmente
indeterminata, nel nostro esempio il quadrato da operarsi, goda ((gode??))di
primato assoluto, come quella che decide della dipendenza funzionale effettiva
tra i due modi delle due quantità e che stabilisce l’effettivo rapporto di
inerenza secondo cui le due quantità debbono essere pensate, e, d’altra parte,
verificandosi che il primato attribuito alla reciproca, cioè all’enunciazione
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