- 28 -
[pag.28 F1]
della prima al concetto di essere primo - dati a A, B, A1,
B1 B2 B3..., Bn, An, o
si ammette impossibile dedurre (A è An) da (B è Bn)
perché B1 B2 B3...(→Bn) sono
fenomenici e pongono la fenomenicità di Bn, mentre B di A è B è un
metafisico sicché Bn (→ B → An →A)
≠ Bn (→ B1 B2 B3...), sicché
(B è Bn) ≠ (Bn è An), oppure si ha che
(B1 B2 B3...) → Bn → (Bn
è An)→(An è Bn) → (A è Bn)
perché A→ (B1 B2 B3...) e,
contemporaneamente e sotto lo stesso punto di vista si ha che A →(B1
B2 B3...) → (A è Bn) perchè (An
è Bn)-.
C’è un’unica strada per ovviare al circolo vizioso in cui s’incappa
per restar fuori dalla visibilissima rete del paralogismo. Ma prima di parlarne,
è il caso di vedere se abbia fondamento un’obiezione che un razionalismo di
tipo hegeliano potrebbe muoverci: una metafisica determinata che affermi essere
complanari nel primato discorsivo i due giudizi “il reale è razionale” e “il
razionale è reale”, sentendosi chiamato in causa dalla nostra accusa di circolo
vizioso - è vero che in apparenza esso si sottrae a questa citazione perché
esso può pretendere di non muovere per nulla dal principio “il reale è
razionale”, bensì di partire dalla perfetta identità dei due giudizi che non dà
a nessuno dei due il privilegio di essere un assolutamente primo, ma è
altrettanto vero che esso ha trovato la sua posizione di partenza non come dato
assiomatico, ma come conclusione di una ricerca la quale fra tante possibili
razionalità o strutture ad universali e necessari assumibili come modelli di
intelligibilità del fenomenico e quindi inducibili dal fenomenico, ne ha
assunta una a categoria denotante il suo concetto di reale che è poi il nostro
concetto metafisico primo e con ciò ha creduto di acquistare il diritto di
asserire la presenza di ontità e di valore metafisico dovunque si ritrovi come
nota connotante siffatta razionalità, allo stesso modo che l’umanità racchiude in sé vita, ragione e azione
morale, ad esempio, e il pensiero, proiettandosi nel realizzabile futuro,
prevede la facoltà di dichiarare umani essere vitali razionali eticamente
agenti anche se la restante connotazione del loro concetto divaricherà dal
residuo di connotazione del concetto di noi uomini, in virtù dell’automatico
scattare del primo canone della legge di equivalenza, di fronte all’identità
essenziale dei due equivalenti; ma se esaminiamo un hegelismo, non tutto
[pag. 28 F2]
pare così pacifico; in definitiva, la sua categoria di razionale è la
denotazione di certe classi di razionale fenomenico entro cui ad esempio non
vedo come si riesca a far entrare anche la classe del geometrico euclideo, e
con ciò presuppone un privilegio tra le altre categorie di razionale,
privilegio che non può non provenirle se non dalla sua portata metafisica,
ossia dalla sua inferenza dalla connotazione del concetto metafisico primo, il
quale a sua volta si vede denotato dalla categoria privilegiata del razionale
dal fatto che tale categoria è stata assunta come privilegiata tra le altre; il
privilegio che è poi primato è ragion sufficiente della denotazione metafisica
e questa a sua volta lo è per il privilegio-primato -; ora all’accusa si può
rispondere con un’accusa e precisamente che noi stessi siam preda del circolo
vizioso che imputiamo ad altri, in quanto utilizzeremmo per decidere in
generale della metafisica e in particolare delle condizioni delle metafisiche
determinate a conoscibilità parziale del principio metafisico e a predicabilità
parziale del fenomenico il principio di contraddizione e quindi una certa
categoria di razionale cui diamo il privilegio del primato, se non altro perché
la erigiamo a canone di qualsivoglia critica, il che mai potremmo fare se non
fossimo partiti noi stessi da un’affermazione del tipo “il reale è razionale”
per giungere alla conclusione che “il reale è non-contraddittorio” pel tramite
dei tre giudizi “il razionale è reale”, “ il razionale fenomenico è non
contraddittorio”, “il razionale è non-contraddittorio “. Ora, il principio di
contraddizioni pare che abbia varie portate che non sono tutte né
equifunzionali né equipollenti né equiconnotabili. Si sa che Kant si era reso
già conto di ciò quando aveva ben differenziato la funzione del principio di
contraddizione come principio discorsivo dalla funzione del medesimo principio
come norma canonica del discorso: se il principio di contraddizione è una
proposizione che si assume come enunciatrice di verità, di una verità sia pure
meramente formale, si pone come ragion sufficiente della necessità di certe
conclusioni ad esempio che si debba assumere come in sé vero tutto ciò che non
ha in sé contraddizione e che questo stesso ente in quanto non affetto da
contraddizione nell’intimo della propria connotazione debba essere assunto come
apodittico, cioè tale da non poter essere in altro
[pag.28 F 3]
modo, secondo un apodissi in nome della quale tutti i razionalismi di
cui stiamo trattando in quanto metafisiche traducono dal piano formale e
cognitivo al piano esistenziale ed ontico; per questo, ad esempio, il concetto
di triangolo una volta denotato dalla supplementarità dei suoi tre angoli è
pensato come siffattamente denotato, ed è legittimo e doveroso pensarlo tale in
forza del principio di contraddizione che diviene premessa maggiore di un
sillogismo la cui conclusione è la legittimità e necessità della
rappresentazione del triangolo in quanto a supplementarità degli angoli; se si
è ben guardato, il nostro esempio si è premurato di determinare esattamente le
condizioni in forza delle quali il principio di contraddizione può essere
assunto come ragion sufficiente cognitiva: quando si è parlato di un concetto
di triangolo non già denotato, ma semplicemente conosciuto come denotato in un
certo modo, s’intendeva appunto precisare tali condizioni, il che è un discorso
che Kant non fa: Kant parla in generale di una “forza” del principio di
contraddizione ossia di una sua portata imperativa a contenuto gnoseologico la
quale interverrebbe nei giudizi analitici facendo di questi delle conseguenze
necessarie di sillogismi con il principio di contraddizione a premessa
maggiore, sicché dal suo discorso si dovrebbe trarre la seguente conclusione,
che il giudizio”A èB” nel caso che debba essere pensato tale, ossia nel caso
che il suo soggetto A non possa esser pensato predicabile, secondo lo stesso
punto di vista da cui si predica B ad esso, e nel preciso istante in cui gli si
predica B, se non da B stesso, non può non essere che analitico, appunto perché
la necessità di siffatta predicazione è la conclusione unica ed univoca di due
premesse immodificabili, la prima delle quali è l’enunciazione in generale
dell’essenza, canonica, modalità, determinazione, ecc. del principio di
contraddizione, e l’altra è la non contraddittorietà di B nei confronti di A il
che consuona con la denotazione necessaria di A da parte di B. Ma c’è nella
considerazione di Kant un parzialismo e((o??)) forse un apriorismo, di cui qui
non voglio discutere; e precisamente nel suo discorso si tralascia di stabilire
la natura e la genesi del giudizio analitico in genere, in nome appunto del
presupposto della sua innatezza e quindi
[pag.28 F4]
del presupposto della liceità assoluta della duplice classificazione
generale dei giudizi in analiti ((ci??)) e in sintetici. In virtù di siffatto
parzialismo aprioristico, si ha che una volta assunto il principio di
contraddizione a premessa maggiore di sillogismi possibili i quali attendono
però il resto della loro intera corporeità, ci sono nel pensiero umano dei
giudizi che automaticamente vanno ad assumere in tali sillogismi monchi il
ruolo di premesse minori, senza che nessuna intuizione e nessuna elaborazione
siano intervenute a costruirli. Ora, io non intendo qui discorrere della
veracità di questo quadro, e ho il diritto di non impegnarmi appunto perché non
sono ancora giunto alla definizione qualitativa del mio primo giudizio
metafisico, da cui soltanto potrebbe derivare la liceità o l’illiceità di
siffatto modo. Quello in cui però posso sin da ora concordare con Kant è che il
principio di contraddizione è premessa maggiore di tutte le proposizioni che si
siano poste come intelligibili, ossia come universali e necessarie e quindi
tali da dover essere assunte in costante identità di se stesse, qualunque sia
il loro modo di essere, per connaturazione o per genesi, per intuizione
atemporale o temporale, o per elaborazione razionale, con qualunque concetto si
pongano in rapporto o in qualsivoglia rapporto entrino con uno o più concetti,
e, infine, che è quel che più conta, qualunque sia il loro contenuto
gnoseologico, ossia qualsivogliano siano le note assunte a connotazione del
concetto del predicato e a denotazione del concetto del soggetto: il principio
di contraddizione è quindi una premessa maggiore che impone a siffatti giudizi,
una volta entrati in una connessione con esso per la quale esso li subordina a
sé e li determina col suo contenuto, quella che è la sua portata puramente
formale di essere connotati immutabilmente nel predicato secondo la
connotazione che definisce il loro predicato nella loro funzione di premesse
minori, e di essere denotati immutabilmente nel soggetto secondo la denotazione
che il loro soggetto patisce quand’essi hanno funzione di premessa minore. Si
può chiamare questa funzione del principio di contraddizione una funzione di
ragion sufficiente o di determinazione di analiticità del giudizio, o se si
vuole funzione di rivelazione operativa della denotazione apodittica di questo
ad opera del principio di identità: in parole più povere, il principio di
contraddizione
|