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della connotazione del concetto di intuito, sicché si deve muovere da
questa connotazione non per stabilire la sua legittimità generica inferibile di
diritto dalla legittimità generica del pensamento di nozioni che siano
concetti-limiti ma non di fatto non essendo dimostrata legittima l’esistenza
dei concetti-limiti, bensì per rendersi conto se la negazione delle note che la
costituiscano sia un dato soggettivo o un dato oggettivo, sia cioè la
conseguenza di un processo straordinario del pensiero, o sia un modo ordinario
della grande classe delle negazioni.
Il fenomeno della negazione può essere riguardato da due punti di
vista differenti e quindi analizzati con due diverse finalità operative.
Muovendo da quella separazione del reale ontico, che nessun pensatore rifiuta e
tutti o esplicitamente o implicitamente accolgono, perché anche coloro che la
espungono di essa di fatto negano una certa connotazione dei due ontici
disgiunti e non una disgiunzione in genere di due ontici dall’eterogenea
connotazione, di fenomenico e di naturale e definendo il primo come l’esistente
per l’intuizione sensoriale e secondo i modi dell’intuizione sensoriale e il
secondo come l’esistente in sé i cui modi qualificativi, qualsivogliano siano o
equivalenti o non equivalenti alle modalità dell’intuizione sensoriale, sono
quel che sono indipendentemente da un condizionamento funzionale
dall’intuizione sensoriale, e insieme come l’esistente pensato come intuibile,
nella sfera del primo si dà il fatto della negazione che non necessariamente è
pensabile presente nella sfera del naturale. Il principio del discorso sulla
negazione è un giudizio che predica al concetto di negazione la qualità del
fenomenico, la qualità cioè dell’essere per altro e dell’essere conosciuto per
altro; da questo primo enunciato divaricano, come in un trivio, due processi
indagativi: il primo di essi si propone come oggetto il dato della negazione
per quel che è, un fenomenico che come tutti i fenomenici può essere analizzato
in sé senza timore che l’intuizione che di esso si dà, cioè l’intuizione di
esso in quanto intuito, introduca quella separazione tra condizionato
dall’intuizione e incondizionato perché in sé e per sé, che ci ha costretto
sopra a differenziare il fenomenico come un modificatore, secondo una o altra
modalità di deformazione, di quanto esso traduce nel proprio linguaggio; e a
liberarsi da questo timore interviene il canone primo, assioma o postulato che
sia, che l’intuizione dell’intuito fenomenico
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è libera da qualsivoglia deformazione fin che si limiti ad analizzare
l’intuito dell’intuito ossia la rappresentazione immediata delle
rappresentazioni immediate e sensoriali, patendo tuttavia quelle deformazioni
cui un qualunque lavoro condotto su dati immediati deve assoggettarsi quando
non attui in sé le condizioni e i canoni formali del lavoro che in genere è
lecito condurre su un dato immediato in genere, deformazioni che investono
quindi anche il lavoro di analisi non però in funzione dell’intuizione in sé
dell’intuito ma in funzione dei modi con cui il pensiero s’accinge ad
elaborarla; l’intuizione dell’intuizione è sempre pura in sé, nel senso che
stabilisce tra sé come rappresentazione e l’intuizione da essa intuita come
rappresentato o oggetto una connessione di puntuale e assolutamente simmetrica
corrispondenza quantitativa e qualitativa; il pensiero del pensiero, per dirla
con Aristotele, la riflessione per chiamarla come vuole Locke, il senso interno
kantiano, l’introspezione degli psicologici, che sono tutte descrizioni
dell’intuizione degli intuiti, sono tutte da assumersi come connotate da
quell’eterogeneità dall’intuizione fenomenica, che fa di questo un deformatore
sotto una qualsiasi visuale o qualitativa o quantitativa per eccesso o per difetto,
e l’assunzione è un canone primo tolto il quale qualsiasi discorso diviene
impossibile ed inutile; il secondo processo indagativo presuppone un panorama
ben più vasto in quanto esso, anche ammettendo una necessaria eterogeneità tra
il fenomenico e il naturale, pretende a giusto diritto che il fenomenico sia un
ontico al pari del naturale e con ciò si vede costretto a portarsi al di sopra
delle due classi di eterogenei per risalire a quell’unica classe di reale
ontico cui entrambi rimandano, indipendentemente dalla loro eterogeneità e
nonostante la loro eterogeneità, proprio per il fatto che l’eterogeneo che li
connota è una differenza specifica che modifica l’estensione e la
determinazione del generico che è in essi coessenziale identificandosi in entrambi
con la realtà ontica, o realtà in sé e per sé; siffatto angolo di visuale del
tutto legittimo sposta i termini del lavoro che si deve compiere in seguito
alla postazione del giudizio primo “la negazione è un fenomenico”, in quanto
mentre il primo processo indagativo fa di questo enunciato la premessa
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minore di un sillogismo che al suo vertice ha la
proposizione-imperativo che ogni fenomenico è unità per sintesi di un
molteplice che deve essere analizzato, e dal quale è da dedursi un certo compito
e una certa finalità che viene ad imporsi alla generale laboriosità del
pensiero orientandolo nel senso di un lavoro di analisi fatto sulla negazione,
il secondo processo inserisce ancora l’enunciato primo entro un sillogismo con
le medesime funzioni di premessa minore, ma dal predicato di questa inferisce
la legittimità di coinvolgere quella nota di realtà ontica che la premessa
maggiore, da esso assunta a strutturatrice del nuovo sillogismo, impone di
attribuire al suo soggetto; ma questo secondo processo discorsivo, nell’atto in
cui dalla premessa maggiore determinante l’ontità del fenomenico deduce
l’ontità di tutte le classi del fenomenico e quindi della negazione in quanto
classe del fenomenico, viene a divaricarsi dal primo in quanto trova la sua
premessa maggiore subordinata a condizioni che sono differenti da quelle che si
sovraordinano alla premessa maggiore del sillogismo che è avvio all’altro
processo, in quanto cioè deve dedurre dalla sua premessa maggiore tutte le
denotazioni che ad esso spettano dal fatto di porsi a conclusione di una serie
di sillogismi che sono altrettante determinazioni della problematica che
insorge di fronte al reale come reale, denotazioni che son ben altre da quelle
di fronte a cui viene a trovarsi il primo processo che le inferisce da tutte le
premesse maggiori che determinano come loro propria conclusione la premessa
maggiore del sillogismo da cui è mosso. Il primo discorso, infatti, una volta
definito il fenomenico come un analizzabile e un analizzando, deve presupporre
tutti i canoni regolatori di un’analisi in generale, tra cui primo quel canone
primo, di cui sopra, che l’intuizione di un intuito instaura tra sé e l’intuito
di cui è intuizione un rapporto cognitivo assoluto e totalmente simmetrico; il
secondo discorso, invece, deve risalire dalla sua premessa maggiore a tutte
quelle che offrono la connotazione di un reale in genere e le condizioni e
norme di validità di una siffatta connotazione: poiché un reale è pensabile,
ossia connotabile e predicabile, come un distinto o un indistinguibile in
eterogenei, come una ragion sufficiente che è causa o fine, come un oggetto la
cui nozione
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si fa intelligibile entrando in una relazione con altro intelligibile
la quale sia di conseguenza a principio essendo il principio o un reale
totalmente omogeneo con la conseguenza nel qual caso il principio ha i modi
della causa o un reale omogeneo solo parzialmente con la conseguenza nel qual
caso parliamo di un principio che ha i modi del fine, come un oggetto la cui
nozione è legittima nella sua connotazione solo alla condizione di trovare le
sue note denotate in uno o altro modo da una o più note connotanti la nozione
del reale ontico primo, insomma come un oggetto che non basta sia pensato che
è, ma deve essere pure pensato nel perché è, nel se è qui o anche là, nel se è
il perché di un altro reale, e infine nel come è rispetto all’oggetto reale
primo, è naturale che la distinguibilità o indistinguibilità, la causalità o
finalità, l’intelligibilità per causalità o finalità, l’essenza metafisica che
sono tutte note del reale, si estendano al fenomenico o alla negazione,
suscitando per questa una serie di indagini che si differenziano dalle analisi
del primo processo, come quelle che inseriscono la negazione in una serie di
rapporti con molteplici fenomenici che sono altri dai fenomenici negativi con
cui esso primo processo si limita a relazionare il fatto fenomenico della
negazione. Evidentemente tra i rapporti interfenomenici che il secondo processo
discorsivo deve utilizzare si trovano anche tutte le connessioni tra la
negazione in genere e i fenomenici negativi in particolare che sono il
privilegiato fatto utilizzato dal primo processo, come pure è evidente che il
secondo processo dovrà adottare tutti i canoni condizionanti un lavoro di
analisi che anche il primo processo ha fatto suoi; ma, nonostante questa sfera
in comune, tra i due c’è una notevole differenza, costituita appunto sia dal
fatto che l’utilizzazione delle interrelazioni tra la negazione e i fenomenici negativi
è per il primo processo l’unico mezzo per conseguire quell’unico scopo che esso
si propone, ossia la definizione in sé della negazione, mentre la stessa
utilizzazione da parte del secondo processo non è che una delle molte sorgenti
cognitive cui deve ricorrere per procurarsi dati di risposta ai numerosi
interrogativi che insorgono su di una negazione in quanto reale ontico, sia dal
fatto che il primo processo subordina alla normatività dei canoni l’unica
indagine che esso persegue, mentre l’altro processo deve estendere tale
normatività ad indagini
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