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Giordano Bruno Cavagna (n. 1921 - m.1966) Metaf. class. e metaf. cristiana IntraText CT - Lettura del testo |
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[pag.68 F1] che giustifichi e legittimi il percorso determinatore, discendente o ascendente; ma quando si comincia a determinare il connettivo sottostante all’eterogeneità qualitativa, non resta che o a) identificarlo come una particolare struttura che ripete per ciascun intelligibile la struttura propria della nozione intelligibile complessiva, e, con ciò, vede la nota generica e le note specifiche frangersi in un complesso di sottonote alcune delle quali identiche e con funzioni di genericità, altre eterogenee e con funzioni di specificità - e in tal modo viene a riprodursi per le denotazioni la stessa situazione dei denotanti, dalla quale si può uscire con un’analisi identica destinata ad andare all’infinito, rimandando sempre a un connettivo-substrato che si risolve nell’identico modo della sovrastruttura e attende soluzione della deficiente connessione da un nuovo substrato connettente, e così via -, o b) scegliere fra i tanti possibili modi con cui il pensiero classifica le connessioni fra eterogenei, escludendo però il modello causale, pei motivi di cui sopra, modi che poi non son tanti e nessuno dei quali offre intellezione del reale e immanente legame qualitativo che vincola i due e pone questa intellezione a ragion sufficiente della necessità del rapporto funzionale; e con ciò ci ritroviamo di fronte a un postulato che sarà materialmente diverso dal giudizio da cui il platonismo inferisce l’unità degli intelligibili ordinati in quanto destinato a costruirsi sulla qualità e non su determinazioni aritmetico-quantitative, ma sarà, come quel giudizio, preda di un’identica inintelligibilità concettuale o di un identico assurdo formale - il postulato aristotelico dell’unità degli intelligibili potrebbe in fondo esprimersi così: gli intelligibili che entrano come denotanti nella connotazione di un qualsivoglia organismo razionali debbono essere dei qualitativi eterogenei e insieme devono contenere una modalità qualitativa tale che, senza sussumersi sull’identità equazionale, ponga una dialettica apodittica di transizione qualitativa dall’un intelligibile all’altro -. Ora, a parte l’inintelligibilità o assurdità del postulato che rendono comunque impensabile quell’unità concettuale su cui si fonda la connessione ontologica degli intelligibili, il postulato stesso non fa altro che riprodurre lo stato di un pensiero di condizione umana che, limitandosi esclusivamente all’analisi del fenomenico suo contenuto, vi rinviene un’eterogeneità e dispersione assoluta dei suoi intelligibili, alle quali si può ovviare ma solo in parte con la sussunzione, ossia con un ordine di successione che fonda la sua necessità sulla necessità di antecedenza logico-esistenziale di certi intelligibili rispetto agli altri, ordine di successione la cui apoditticità è [pag 68 F2] a posteriori e tutt’al più può assumersi come freccia direzionale di un certo orientamento verso un’unità qualitativa e non meramente funzionale degli intelligibili; ma siffatta unità è destinata a rimanere per quel pensiero un limite che nessuna analisi o induzione può conseguire e da cui mai potrà essere dedotta quindi l’apoditticità apriori della subordinazione o logico-formale od esistenziale -funzionale. Ora, se assenza di cognizione dell’unità significa liceità di negazione per tutte le sussunzioni ad eccezione di quelle che hanno a loro predicato la categoria o una delle categorie, non basta postulare un’unità per elidere la liceità di negare una sussunzione, come dovrebbe arguirsi dalla descrizione fattizia dell’ordine concettuale operata da un aristotelismo; occorre la cognizione di siffatta unità, la quale però né un aristotelismo con il suo postulato né il pensiero di condizione umana ce la offrano ((offrono??))quantunque entrambi, sia pure in modo diverso, la presuppongano. E ci pare, con questo, di aver sufficientemente dimostrato come senz’altro sia contraddittorio il porre in assoluto la negazione coll’affermare l’unità di tutti gli intelligibili, e insieme come la contraddizione non sia né della nostra posizione fenomenica da cui siam mossi per definire il negativo né da qualsiasi teoria da cui voglia partirsi, bensì sia nota essenziale della fenomenicità del pensiero umano che ha dei mezzi solo parziali per unificare i concetti, sì che mai riuscirà a darsi l’effettiva e completa rappresentazione della loro unità o matematica od organica. E con ciò la negazione continua a contraddire all’unità del concettuale, ma per una contraddizione che è per il pensiero in genere, non per questo o per quello dei pensieri umani individuali. Se lasciamo l’ambito delle interpretazioni metafisiche del contenuto di pensiero e ritorniamo alle condizioni puramente fenomeniche ed intuitive sotto cui l’abbiamo considerato al principio della nostra indagine sulla negazione, possiamo renderci conto abbastanza facilmente che la negazione, ricondotta al piano fenomenico, può esser definita solo facendo capo al tempo, oltreché ai meri rapporti di denotazione fra rappresentato e rappresentata ((rappresentato??)). Chiamiamo qui tempo un certo rapporto di coesistenza o simultaneità fra più ontici, rispetto ai quali la valutazione temporale è valida immediatamente per quello di essi da cui muove l’attenzione cognitiva concentrata, essendo gli altri degli enti sussidiari la cui valutazione temporale è soltanto mediata. Posto [pag 68 F 3] siffatto rapporto di simultaneità, ne derivano da un lato la conseguenza che esso non necessariamente è rapporto spaziale, quantunque debba essere interpretato secondo un modo di coesistenza di cui lo stato spaziale è la determinazione perfetta, dall’altro la conseguenza che la modalità del coesistere a tendenza spaziale non è che un aspetto, per di più esplicito ed epidermico, del rapporto stesso di simultaneità la cui complessità abbraccia nel suo profondo, implicitamente, una relazione anche qualitativa: la prima conseguenza consente di attribuire simultaneità anche a contenuti di pensiero che non paiono caratterizzati da altra nota spaziale all’infuori della coesistenza, ad esempio ai concetti pei quali, se è vero che la coesistenza è assicurata ogniqualvolta siano correlati in una coppia di due membri in rapporto di tutto a parte, è pure vero che l’assenza in atto della cognizione di tutte le note costituenti la totalità e non coincidenti con la parte rilevata renderebbe vana la rapportazione se non intervenisse l’implicita valutazione del membro tutto come ontico composito le cui parti continuano ad esistere e quindi a coesistere nonostante la parziale loro esclusione dalla sfera su cui l’attenzione agisce, e, di conseguenza, se il pensiero non proiettasse indebitamente sul contenuto ideale i modi spaziali propri del contenuto fenomenico noto per intuizione spaziale, in forza dei quali dalla costanza di certi nessi, quali quelli geometrici, si inferisce la coesistenza degli intuiti non presenti alla conoscenza o per esclusione dalla sfera di azione dell’attenzione o per reale esclusione dai limiti dell’intuizione vera e propria - la validità del giudizio A è B nasce dal nesso che vincola B ad A come una parte al tutto e quindi come un ontico la cui esistenza è garantita dalla sua appartenenza a quella sfera di ideale che è A, la cui esistenza è già data e posta apriori rispetto alla posizione del giudizio; escluso il caso di una tautologia assoluta, il caso cioè di una totale indeterminazione di A riprodotta in B secondo un’identità completa di connotazione e di denotazione, B è sempre posto con una connotazione quantitativamente minore della connotazione di A e qualitativamente meno articolata della connotazione di A, e per questo B si pone sempre come una parte e frazione di A; anche pei giudizi di identità totale fra B ed A, nei giudizi cioè matematici, il rapporto di parte a tutto permane fra predicato e soggetto, e ciò può essere affermato nonostante e contro l’apparente contraddizione in termini, in quanto, se è vero che in linea di puro diritto i giudizi A è B e B è A, in cui A e B siano intelligibili matematici, sono sempre veri e validi entrambi perché per essi è sempre legittima la conversione semplice, è del pari vero che di fatto [pag 68 F4] il processo dialettico in atto del discorso matematico adotta o l’uno o l’altro, inserisce come suo momento o l’uno o l’altro e, nell’atto in cui fa suo membro A è B esclude B è A e viceversa; ma nel far ciò inserisce una differenza fra i due, la quale si riconduce sempre a questo che la distinzione dei due giudizi è in funzione di una differenza che in ciascuno di essi è posta tra il rispettivo soggetto e il rispettivo predicato, che è fondata su una diversa quantità e qualificazione delle rispettive connotazioni e che attribuisce al soggetto una denotazione più ricca di quella del predicato anche se la sua superiorità è dovuta alla presenza di note contingenti rispetto all’essenza matematica fondamentale dei due enti; ma se la validità del giudizio A è B dipende da una maggior ampiezza della connotazione di A che per essa si pone come atta ad abbracciare B in quanto sua parte, è posta non solo la simultaneità di B con A, trovante a sua ragion sufficiente il rapporto di contenuto a contenente, ma anche la simultaneità di tutte le note denotanti A, e non solo di quelle che costituiscono la comprensione di B, ma anche di quelle che giustapponendosi a B costringono questo a porsi come parte e quindi come predicato di A; tuttavia, il giudizio stesso A è B non è soltanto l’asserita inerenza di B in A, bensì anche un atto di conoscenza per cui di A si dà come cognizione attuale soltanto B, verificandosi anche, nel caso che il pensiero ignorasse tutto di A, che in seguito al giudizio l’ignoranza è divenuta parziale sia rispetto a B che si ((è)) offerto come nozione consenziente la rappresentazione parziale di A sia rispetto ad A che è appreso come un tutto complesso di cui tutto s’ignora all’infuori del fatto che è composto di parti ignote di cui una è B; siffatto modo di cognizione non è che il risultato di una concentrazione di attenzione su di A che circoscrive e rileva in A la semplice sfera di B escludendo dalla rappresentazione in atto sia tutte le componenti di A escluse dalla sfera di B sia la rappresentazione analitica della comprensione di B; ora, perché siffatta operazione che riduce la comprensione nota di A a B e insieme garantisce ad A una larghezza di ontità superiore a quella di B, non può aver luogo se non alla condizione che contemporaneamente al giudizio il pensiero si offra una rappresentazione di A differente da quella che il giudizio renderebbe lecita, una rappresentazione cioè che attribuisce ad A la simultaneità di esistenza nel suo intimo di ontici altri da B i quali possono coesistere con B, sebbene in atto ignorati,
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