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Giordano Bruno Cavagna
(n. 1921 - m.1966)
Metaf. class. e metaf. cristiana

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  • Prot. 51 - 101
    • 99
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ridotta a ciò che di specificante c’è in essa, oppure solo alla condizione di sostituire alla connotazione del concetto-predicato la rappresentazione dello scisma che vi si opera e che vi provoca le due, se vogliamo seguire la lettera del platonismo, o le molte, se vogliamo attenerci allo spirito del platonismo, determinazioni -il giudizio categorico X è B, in cui X sia specie di B e abbia a connotazione A B C di contro alla connotazione A B di B, può ridursi alla struttura ipotetica se X è, è B, alla condizione che X venga ridotto a C, sicché (X è B) = (se X è, è B) in cui però X =C, o alla condizione che B venga pensato equivalente a D(=rottura di B nella sua specie), sicché (X è B)= (se X è, è B) in cui però B=D-; è evidente che le due sostituzioni non sono casuali, ma hanno a loro fondamento una differente interpretazione del processo dialettico che tra il concetto-soggetto e il concetto-predicato deve instaurarsi perché i due concetti si vincolino in un rapporto di predicazione categorico che sia intelligibile; se il processo dialettico viene determinato  come un moto di pensiero che ricorre al concetto-soggetto per attingere il diritto di esistenza dei due componenti il giudizio e al concetto-predicato per valersi della sua intelligibilità ai fini di conoscere il concetto-soggetto, la determinazione della funzione di principio vien fatta in vista della priorità dell’esistenza rispetto all’intelligibilità e il concetto-soggetto deve esser pensato tale da offrire il diritto di passare dalla funzione di principio a una funzione di causa; se il processo dialettico viene interpretato come una corrente unidirezionale che dal concetto-predicato muove al concetto -soggetto per estendere a questo l’esistenza e l’intelligibilità di cui gode il primo, sull’esistenza prende priorità l’intelligibilità, questa priorità si pone a criterio di determinazione della funzione di principio entro il giudizio categorico e il concetto-predicato, divenuto principio nei confronti del concetto-soggetto, dev’essere pensato tale da poter di diritto consentire un passaggio dalla sua funzione di principio alla sua funzione di causa; è ancora evidente che l’assunzione di una delle due priorità, quella dell’esistenza sull’intelligibilità o dell’intelligibililtà sul’esistenza, non dipende  da una scelta fatta a caso, ma da un lato da una definizione del concetto di esistenza, dall’altro da una certa interpretazione dei meccanismi gnoseologici come strumenti di apprendimento di nuovo: se infatti l’esistere è affermato equivalente

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al modo ontico proprio di tutta la nostra soggettività, l’intelligibilità non può farsi principio dell’esistenza ma solo sua conseguenza, e con ciò il moto dialettico destinato a fondare la ricerca del diritto ad esistere va necessariamente dalla specie al genere, dal concetto-soggetto al concetto-predicato, e, acquistando primato sul moto dialettico orientato a fondare la intelligibilità, trasferisce siffatto primato al concetto-soggetto che è fondamento dell’esistenza nella sfera del giudizio categorico; e, una volta presupposto ciò, la conoscenza come acquisto di rappresentazioni nuove dovrà essere descritta secondo certi suoi meccanismi; se invece l’esistenza è affermata equivalente all’intelligibilità ossia all’organamento dell’esistente secondo la formalità razionale, l’esistenza deve trovare il suo principio  nell’intelligibilità, il concetto-predicato necessariamente inferisce la propria funzione di principio dall’unicità del moto dialettico che fonda insieme il diritto dell’esistenza e dell’intelligibilità, e il meccanismo del conoscere deve ricevere tutt’altra descrizione. E’ lecito, ma non necessario pensare che entrambi i discorsi siano ipotetici e problematici, e che il pensiero non riesca mai o a risalire a una ragione prima di assoluta verità che sia principio di validità alla definizione dell’esistenza come naturalità fenomenica o a giungere a una rappresentazione di assoluta validità da cui debba necessariamente inferirsi l’equivalenza tra esistente ed intelligibile razionale; infatti è pur sempre lecito attribuire al pensiero una somma di conoscenze la cui analisi approfondita offra la nozione che permetta di accettare l’una definizione dell’esistere e di respingere l’altra. Tuttavia, anche ammettendo come risolta la questione di quel che si deve intendere per esistere, la decisione a favore dell’una elaborazione del giudizio categorico in nulla diminuisce l’impossibilità di ridurre questo a un modo soggettivo e fenomenico di un giudizio ipotetico. Già di una differente natura dei due giudizi ci hanno avvertiti sia le aporie che insorgono quando si pretenda di investire il rapporto di predicazione categorico  con un contenuto di causalità senza provvedere e modificare le connotazioni dei concetti che al rapporto si sottomettono: cause differenti dovrebbero  essere a principio di un unico effetto; effetti eterogenei dovrebbero trovare a loro principio un’unica causa; queste aporie dimostrano l’impossibilità

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di ridurre il rapporto di principio a conseguenza di un giudizio categorico a un rapporto di causa ad effetto nella concreta ed intuita situazione di pensiero, ma sono insufficienti a liberare questo stato dai modi della relatività e della soggettività che si manifestano o possono manifestarsi come suoi indici tipici se si fa del giudizio categorico un velo di puro valore formale steso sopra quella struttura da giudizio ipotetico che in apparenza risulta la trasfigurazione cui il pensiero  ha dovuto sottoporre il giudizio categorico per interpretarlo in termini di causalità, ma che di fatto o((??e??)) di diritto è il sottofondo essenziale ed immutabile di cui il giudizio categorico stesso è trasfigurazione indebita. Accettiamo pure come valida questa interpretazione, riteniamo pure, in altri termini, che nei confronti del rapporto intercorrente tra due concetti destinati ad entrare in un vincolo categorico, il pensiero si strutturi per dir così su due piani uno essenziale e legittimo, l’altro relativo ed apparente, che sul primo i due concetti si pongano con le funzioni di soggetto e di ((da??)) predicato di un giudizio ipotetico e sul secondo con le stesse funzioni di un giudizio categorico, che le rispettive connotazioni dei concetti mutino a seconda del giudizio in cui entrano, che la modificazione cui il pensiero deve sottoporre l’una o l’altra connotazione per scendere dal piano del giudizio categorico a quello sotteso del giudizio ipotetico sia un’elaborazione tendente a ricostruire l’originaria situazione legittima e non una modificazione arbitrariamente introdotta per dimostrare l’assenza di rapporto causale implicita e celata sotto l’esteriorità della relazione categorica. Anche se le cose stanno veramente così, è lecito dimostrare che l’esistenza dei due piani e la dualità tra un nocciolo essenziale e una crosta superficiale  non depongono affatto a favore di una relatività e soggettività dell’apparente e sovrapposto piano o crosta del giudizio categorico. Siano i due giudizi da considerarsi l’uno un giudizio categorico nella forma tradizionalmente accettata di un concetto-soggetto al quale è riferito come inerente il concetto-predicato, l’altro un giudizio ipotetico che ha a suoi fattori i concetti del precedente, ma elaborati in modo che l’uno si ponga a causa dell’altro: nel giudizio categorico il pensiero esprime l’atto di contemplazione con cui si è posto dinanzi al concetto-soggetto come dinanzi a uno statico immutabile e le successive operazioni di analisi che ha dovuto compiere su di esso per renderlo da conoscibile, conosciuto: effetti di tutto ciò sono

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la trasformazione di un esistente statico immutabile da unitario a molteplice e la dichiarazione di immanenza di ognuno dei molti costitutivi nella sintesi cui l’unità si è ridotta: a volte l’analisi è immediata, come, ad esempio, quando il concetto-soggetto è l’effetto di una traduzione di una percezione dal fenomenico sensoriale all’intelletto, altre volte l’analisi è mediata, nel senso che richiede operazioni o di confronto tra il concetto dato ed altri concetti posseduti o di manipolazioni della percezione per condurre alla scoperta che la presunta unità semplice è di fatto l’unità sintetica di molti eterogenei; comunque, quando il pensiero passa dal giudizio come atto ad esso connaturato, operazionale, al giudizio come termine di riflessione valutativa e quindi come nozione pretendente di rappresentare qualcosa di ontico, il giudizio categorico diviene per il pensiero l’immagine di una totalità composita entro cui è stato sottolineato questo componente anziché quello attraverso un particolare atto di attenzione gnoseologica che spostandosi dal tutto al componente fornisce una conoscenza più approfondita e completa del tutto; questo e nulla di più è il giudizio categorico; potrà, è vero, arricchirsi di ulteriori determinazioni, via via che nella sua struttura formale è ricondotto alle varie categorie del pensiero: sarà lecito interpretarlo come una struttura dualistica entro cui il pensiero deve muoversi dialetticamente, ma solo quando il giudizio sia ricondotto, in quanto produttore di conoscenza, alla definizione del conoscere  discorsivo come dialettica da un principio a una conseguenza, e per questa riduzione o sussunzione si porrà il problema se principio del conoscere nel giudizio sia il concetto-soggetto o il concetto-predicato, con le due differenti soluzioni, che il concetto-predicato è principio di conoscenza per il concetto-soggetto in quanto coincide con una nozione atta a conservare perenne identità con sé stessa indipendentemente dalla nozione cui offre intelligibilità - è questa  la posizione aristotelica per la quale nel giudizio X è B la luce di conoscenza  muove da B ad X, in quanto ciò che si sa di B in X è B è identico a ciò che di B è noto in Y è B, Z è B, T é B, ecc. - oppure che il concetto -soggetto è principio per la conoscenza del concetto-predicato come quello che rende noti sia una particolare determinazione di cui il concetto-predicato è capace di arricchirsi sia il modo particolare di cui il concetto-




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