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Giordano Bruno Cavagna
(n. 1921 - m.1966)
Metaf. class. e metaf. cristiana

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  • Prot. 101 -150
    • 105
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indifferente che l’intelligibile, infimo tra i tre, fosse  una costante oppure una variabile; il che è quanto appunto si verifica quando gli estremi considerati sono due intelligibili in rapporto di sussunzione e il medio che li connette in necessaria sussunzione è immediatamente oppur no sovraordinato al sussunto - dati i tre concetti A B C in rapporto di sussunzione tale per cui A è classe di B, B classe di C, qualora la ricognizione dell’inerenza di A in C venga stabilita pel medio dell’inerenza di A in B e di B in C, è perfettamente indifferente al pensiero che C sia un individuo determinato, una costante, o che C sia uno degli individui della classe sottoordinata a B e ad A; dati A B C nel rapporto suddetto, nel sillogismo che abbia B a medio (B è A, C è B, C è A), la conoscenza resta ugualmente certa sia nel caso che C sia un totalmente determinato e noto, sia nel caso che C  sia una variabile, determinata solo relativamente al fatto che le è inerente B-; ma quando il rapporto dialettico fra i due concetti muta, quando cioè a medio viene assunto l’intelligibile supremo fra i tre e dalla sua inerenza in ciascuno dei due subordinati voglia inferirsi l’inerenza dell’intelligibile onticamente medio nell’intelligibile infimo tra i tre, la liceità dell’inferenza è legittima solo nel caso che l’intelligibile infimo sia totalmente determinato e coincida con una rappresentazione nota nella sua comprensione almeno per ciò che è necessario conoscere per stabilire la sua sussunzione sotto entrambe le classi sovraordinate; in altre parole, il sussumendo dev’essere una costante al pari degli altri due intelligibili, e non una variabile, un concetto cioè di cui sia nota solo la denotazione ad opera dell’intelligibile supremo; questo perché la determinazione della variabile in vista della classificazione è una per ciò che riguarda il genere indirettamente sovraordinato e altra per quel che riguarda il genere medio, a differenza del caso precedente la sussunzione è in funzione di certi modi dell’intelligibile infimo quando il sussuntore sia uno dei due generi, è in funzione di altri modi se il sussuntore è l’altro dei due generi; sicché se è ignota la funzione per la quale si stabilisce la

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sussunzione dell’intelligibile infimo sotto l’intelligibile immediatamente sovraordinata ed è nota solo la funzione determinante l’altra sussunzione - e in questo caso l’intelligibile infimo da costante si fa variabile -, il discorso dialettico si fa inconcludente e privo di certezza; la sola condizione che consentirebbe conclusione certa sarebbe offerta dall’unicità della classe media, dal fatto cioè che il medio onticamente intelligibile fosse l’unico che ha il diritto di porre come sottoclasse dell’un intelligibile e come classe dell’altro; ma questa condizione non è mai data. Si verifica allora che ogniqualvolta il pensiero voglia procedere a una dialettica di tre concetti, tutti in ordine di subordinazione relativa, e voglia valersene per stabilire il diritto di sussumere l’infimo al medio in forza della sussunzione dell’infimo al sommo, se pretende di assumere l’intelligibile infimo come una variabile, deve giustapporre al discorso primo tanti discorsi analoghi quanti sono gli intelligibili onticamente medi, analoghi perché di identica struttura, ma aventi a concetto onticamente medio una delle sottoclassi mediane; deve, in altri termini giustapporre tanti sillogismi quanti sono gli intelligibili  onticamente medi; e poiché la giustapposizione è accettazione di contraddittori, il pensiero deve passare la giustapposizione sotto il segno della possibilità, che è liceità operazionale - siano gli intelligibili in ordine di relativa subordinazione A B C, sia D un cogenere di B e C un indeterminato relativamente a B e a D e quindi una variabile della classe di A, l’unico modo di pensare in connessione i quattro concetti è di giustapporre i due sillogismi come equipollenti, B è A, C è A, C è B, D è A, C è D, C è A, e di porre il tutto sotto il segno della possibilità, in quanto contraddittori -. L’insorgere di un intelligibile noto in modo tale da poter essere identificato con la variabile e insieme da dover essere tradotto da variabile a costante, elide la possibilità o indirettamente, attraverso la struttura negativa di tutti i sillogismi ad eccezione di uno, o direttamente attraverso la struttura positiva

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di uno fra i vari sillogismi. Ma questo secondo momento qui non interessa. La giustapposizione problematica dei vari sillogismi è ciò che il linguaggio traduce in un giudizio disgiuntivo: poiché un sillogismo non si costruisce se non attraverso tre concetti e poiché la serie dei sillogismi giustapposti si pone in forza della variabilità del concetto-soggetto in cui tutti coincidono  e in forza della variabilità del concetto-predicato la cui determinazione è in funzione del soggetto, si deve da tutto ciò arguire che il cosiddetto giudizio disgiuntivo non solo non ha nulla che fare col giudizio ipotetico  per la relazione di inerenza che ne è la struttura e col giudizio categorico per l’indeterminatezza dell’inerenza uno dei cui termini è una variabile, ma non è neppure  un rigoroso e perfetto giudizio a ragione dei tre concetti che lo compongono; se non si ha il diritto di pensarlo come un modo della relazione categorica di inerenza, non si ha neppure il diritto di classificarlo come giudizio in genere e come giudizio di relazione in particolare.

Secondo la tradizione logica il giudizio categorico o predicativo rispecchia nella più piena purezza il rapporto di predicazione concepito come rapporto particolare di identità tra due concetti, il primo dei quali, il soggetto, è riguardato come la totalità unitaria di molteplici intelligibili, mentre il secondo, il predicato, è posto come uno tra questi intelligibili. Se s’interpreta alla lettera l’identità tra il rapporto di predicazione del giudizio categorico e il rapporto di identità in generale, si è costretti a introdurre come tipico del rapporto di identità proprio del pensiero umano la nozione di rapporto di identità parziale, inteso come nesso di equazione tra un intelligibile  in quanto parte di un altro e il medesimo intelligibile concepito in sé: confesso che tale nozione mi riesce alquanto confusa e notevolmente  priva di intelligibilità sia perché un’identità parziale  è locuzione vuota di senso tanto sotto l’aspetto qualitativo che sotto quello quantitativo, sia perché i due concetti identificati dalla sedicente identità parziale non sono affatto un unico e medesimo intelligibile riguardato sotto due punti di vista diversi bensì sono due concetti differenti riguardati sotto l’unico punto di vista di uno solo tra essi, sia perché il rapporto di predicazione in parola, intepretato come nesso di identità, accoglie  in sé un’identità totale, ossia l’identità sic et simpliciter. Il principio della strana nozione di identità parziale dovrebbe essere ricercato nella portata

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di identità assoluta e necessaria che si pretende abbia la copula in un giudizio matematico, nell’identificazione cioè totale che si vuole stabilire entro un giudizio matematico tra la copula e il segno di eguaglianza, e nell’estensione di tale portata alla copula di qualsiasi altro giudizio; una volta che si parta dalla formula “(è)=(=)”, se può sembrare legittimo applicarlo ai giudizi matematici, non altrettanto può sembrare pei giudizi qualitativi i cui concetti son dotati di comprensione differente e quindi quantitativamente e qualitativamente inidentificabili, e allora per salvare il diritto di applicare la formula si storce il concetto di identità, attribuendogli la contraddittoria attitudine a lasciarsi determinare dalla parzialità; si potrebbe anche giustificare l’estensione e quanto ne deriva con l’osservazione che anche nel giudizio matematico la copula non è mai qualitativamente riducibile al segno dell’eguaglianza, se il giudizio matematico  non fosse però tale da ripudiare per postulato il punto di vista della qualità a favore esclusivo di quello della quantità, in funzione del quale i concetti del giudizio sono sempre totalmente e assolutamente identici. Nonostante l’insoddisfazione del sedicente concetto di identità parziale, la sua presenza nel pensiero di condizione umana serve a testimoniare da un lato la difficoltà che il pensiero affronta quando s’accinge alla analisi formale di un giudizio categorico e alla sua interpretazione alla luce dei grandi schematismi di ragione, dall’altro la complessità di tale giudizio di cui le difficoltà son figlie e che sembrano convergere tutte nella copula. Per giungere alla definizione formale di un giudizio categorico conviene seguire due strade, l’esame della sua genesi, l’indagine della sua struttura come rapporto statico tra due ontici intelligibili statici. Premesso che quando qui parliamo di genesi ci portiamo su di un piano acronico sul quale il moto generativo si attua senza interessare il divenire storico della specie, e che su questo piano restiamo sorretti dal postulato che la ragione di condizione umana  sia un ontico eternamente identico che è anche possibile non sia stato posseduto e non sia posseduto in toto senza che per questo modificazioni vi si verifichino, con la conseguenza che l’analisi diacronica risulta un inutile, si pone la questione se la generazione del giudizio categorico divenga nota solo




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