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Giordano Bruno Cavagna (n. 1921 - m.1966) Metaf. class. e metaf. cristiana IntraText CT - Lettura del testo |
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[pag.138 F1] la forma del giudizio, ma anche sia le deduzioni che da essa il pensiero pretende inferire in vista di un suo uso o utilizzazione nei confronti dell’ontico in sé da conoscersi o da elaborarsi con l’azione, sia l’interpretazione analitica che di siffatte deduzioni utilitarie il pensiero può dare; e poiché l’uso che di un giudizio categorico ai fini della conoscenza dell’ontico in sé può essere quello di stabilire entro siffatto ontico quali degli ontici conosciuti siano reali esistenti, essendo siffatto uso l’inferenza, ritenuta legittima, da una delle conseguenze dedotte dal rapporto tra gli intelligibili del giudizio categorico, Kant ritiene legittimo fare di esso l’essenza del giudizio stesso che vede trasformarsi il proprio nucleo formale nelle conseguenze che ne possono derivare; ciò facendo Kant si pone in congruenza con tutta la teoria medievale della sostanza e attraverso essa con la definizione aristotelica del giudizio categorico, attribuente al soggetto la funzione di principio di esistenza per il predicato e al predicato la funzione di principio di intelligibilità per il soggetto, e sostituente, nella delimitazione dell’essenza del giudizio stesso, alla mera struttura formale, coi suoi principi, condizioni, modalità immutabili e immodificabili, una delle conseguenze che se ne possono inferire, quella appunto del primato del soggetto sul predicato e quindi del rapporto di ragione esistenziale sul rapporto di ragione intelligibile in forza del valore di principio che quel rapporto riveste nei confronti di questo; quando Kant dice che il giudizio categorico è l’espressione del rapporto tra due intelligibili l’uno dei quali è pensato come un organo articolato entro l’organismo dell’altro e traente la propria esistenza e il diritto alla propria esistenza dall’autosussistenza di questo, e quando Aristotele dice che le condizioni essenziali di un giudizio categorico sono il rapporto di principio a conseguente che l’un intelligibile assume nei confronti dell’altro dal punto di vista dell’esistenza di entrambi, il rapporto da principio a conseguenza tra il secondo intelligibile e il primo dal punto di vista dell’intellezione che ((??di??)) tutti e due, il rapporto da principio a conseguenza che deve intercorrere tra il primo rapporto e il secondo onde entrambi possano essere posti dal pensiero, tutt’ e due i pensatori non fanno altro che in un primo momento prendere contatto con lo schema formale entro cui i due intelligibili rapportati in un giudizio categorico debbono inserirsi con le loro rispettive strutture materiali per legittimare il loro rapporto, con le inferenze che il pensiero pretende di dedurre da tale schema al fine della intellezione dei due intelligibili e al fine della conoscenza dell’ontico in sé pel medio del rapporto stabilito, dal giudizio, con il primato attribuito [pag. 138 F2] dal pensiero stesso a quest’ultimo fin sul primo, con tutte le peculiari delimitazioni che al giudizio il pensiero assegna onde quest’ultimo primato sia assicurato, per poi procedere ad assegnare a queste ultime delimitazioni la funzione di indici dell’essenza del giudizio categorico; ma con ciò il pensiero deforma due volte il proprio ontico contenuto, una prima volta quando immette nella definizione del giudizio lo schema del rapporto con tutte le conseguenze e spoglia di prospettiva il primo e le seconde affermandole coessenziali, una seconda volta quando si ripiega su di sé e su quanto esso ha aggiunto allo schema originario per capovolgere la prospettiva assegnando il primo piano a ciò che onticamente si dava sullo sfondo; in tal modo, la funzione ontologica assunta da ciascun intelligibile diventa preminente su quella logica e il rapporto costitutivo del giudizio vien definito nelle sue conseguenze e nelle definizioni che le concernono, non nella sua essenza rispetto alla quale le conseguenze possono essere non necessarie, ma soltanto presunte; si spiegano così molti degli attributi che sono predicati come necessari al giudizio categorico e che o sono contraddittori con aspetti essenziali di esso o arricchiscono la sua comprensione di caratteri che non si ritrovano né impliciti né espliciti nella sua essenza pura: a) secondo Kant, il giudizio categorico, guardato dal punto di vista della modalità del rapporto che lo costituisce, è un giudizio assertorio, si riduce cioè a un’asserzione o affermazione sic et simpliciter del rapporto, da cui è costantemente estromessa la problematicità e in cui l’apoditticità ha la liceità non la necessità di intervenire come denotante; questa assertorietà uniforme e costante è la conseguenza genetica e il principio di ragione della differenza che distingue il giudizio categorico dal giudizio disgiuntivo il cui rapporto di predicazione è, indipendentemente dalla forma assertoria che di solito assume, affetto dalla problematicità o dall’apoditticità a seconda che la disgiunzione del predicato sia giudicata un conosciuto di fatto o un conosciuto di fatto e di diritto, ossia a seconda che non sia data o sia data la certezza della perfetta simmetria tra le rappresentazioni delle specie e gli intelligibili in sé delle specie, e dal giudizio ipotetico, il cui rapporto di predicazione, espresso dalla forma assertoria della copula, è sempre secondo il modo dell’apoditticità: se un rapporto di disgiunzione è pensato come l’interdipendenza condizionale che si dà tra un intelligibile e un gruppo di intelligibili, quando il primo è principio di esistenza di ciascuno degli altri come quello che con la propria connotazione generica offre il substrato esistenziale a ciascuna delle differenze [pag.138 F3] specifiche delle altre, e simultaneamente è conseguente, in ordine all’esistenza, di ciascuno degli altri come quello la cui connotazione è garantita nell’esistere dal fatto di essere immanente nella connotazione autosussistente di quello, nel caso che sia lasciato indefinito siffatto rapporto attraverso l’elisione dell’indicazione di un’ontologica relazione tra il primo intelligibile e uno dei suoi rapportati, si dà necessariamente che la predicazione della serie disgiunta di questi ultimi da un lato assume la nota della problematicità ad indicare o che il rapporto è in generale lecito ad essere pensato come quello che non è ontologicamente necessitato in nessuna delle determinazioni che dal giudizio possono essere inferite, in nessuna cioè delle relazioni definite che debbono essere date nell’ontico in sé tra il genere e ciascuna delle specie, o che il rapporto è lecito per il pensiero di condizione umana indipendentemente dalla sua simmetria con l’ontico in sé alla condizione che tale liceità sia posta come equipollenza dell’essere con il non essere, in quanto nulla garantisce che ulteriori intelligibili disgiunti debbano essere coordinati a quelli già espressi nel predicato, dall’altro assume la nota dell’apoditticità ad indicare che, essendo la serie dei disgiunti in quanto rappresentati totalmente simmetrica dei disgiunti in quanto ontici in sé, nell’ontico in sé è necessariamente data una delle differenti relazioni, pena la falsità del giudizio stesso; donde deriva che tra problematicità e nesso di azione e reazione del giudizio disgiuntivo da un lato e tra apoditticità e identico nesso dall’altro corre un rapporto di ragione che è dalle prime al secondo se il rapporto è posto in vista dell’esistenza e del diritto ad esistere di entrambi i correlati, è dal secondo alle prime se il rapporto è posto in vista della loro intelligibilità, sicché tra i due estremi si dà un rapporto da esprimersi in un giudizio categorico ed apodittico, tale che la funzione di soggetto, assunta dalla rappresentazione del nesso, e la funzione di predicato, assunta ora dal modo del problematico ora dal modo dell’apodittico, corre un rapporto, da sostanza a inerente, donde deriva che il problematico e l’apodittico non hanno il diritto di inerire((??unire??)) a nessun altro nesso che non sia quello del giudizio disgiuntivo; poiché analogo discorso può essere fatto intorno ai nessi degli intelligibili che entrano come soggetto e come predicato in un giudizio ipotetico e intorno al modo della apoditticità, e poiché da siffatto discorso deriva che i due sono soggetti e predicato di un giudizio categorico apodittico, che vincola in condizionamento [pag.138 F4] reciproco il nesso ipotetico e l’apoditticità, con la conseguenza che l’apoditticità può essere solo attributo del primo, dalle conclusioni dei due discorsi si ottiene che il giudizio categorico non può essere né problematico né apodittico come quello la cui comprensione è eterogenea dalle comprensioni del giudizio disgiuntivo e del giudizio ipotetico, e che né la problematicità né l’apoditticità, ma l’assertorietà soltanto sono denotazioni della connotazione del giudizio categorico in forza dell’unità sostanziale che da un lato vincola la prima e la seconda alle altre denotanti delle loro legittime comprensioni, dall’altro connette legittimamente la terza solo alle denotanti del giudizio categorico; a parte il fatto che il nostro discorso ha modificato in parte il ragionamento kantiano che vuole illegittimamente predicare al giudizio disgiuntivo la sola problematicità e la apoditticità al solo ipotetico, con evidente ossequio alla simmetria ed armonia dei giochi relazionali tra le nozioni formali - afferma illegittima la predicazione perché l’apoditticità del giudizio disgiuntivo è data al pensiero se non come dato di fatto almeno come “ideale”, nel senso kantiano del termine, da perseguirsi in sede di “ Ragione “ pel medio del polisillogismo disgiuntivo, e perché l’apoditticità dello stesso giudizio dev’essere presupposta non appena si attribuisca al giudizio in generale una pretesa di simmetria con l’ontico in sé e al giudizio disgiuntivo in particolare l’essenza di rappresentare un rapporto di azione e reazione che non può non essere ontico -, l’intero ragionamento non soltanto sfocia in una contraddizione ma è tutto pervaso e fondato su di un errore di surrezione che trova a suo principio la contraddizione stessa: infatti, non appena il giudizio categorico viene assunto come oggetto di analisi, deve essere posto come rappresentazione del pensiero di condizione umana in quanto capace di darsi immagini che sono universali e necessarie; ora, assunto come una rappresentazione siffatta, il giudizio categorico deve manifestare il suo elemento fondamentale di essere un rapporto intelligibile, ossia universale e necessario, tra intelligibili; dunque, il giudizio categorico in quanto primo di un atto di analisi è denotato dall’universalità e necessità, e quindi dev’essere apodittico; ma lo stesso ragionamento analitico conclude nella sua esclusiva assertorietà e quindi nella
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