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Giordano Bruno Cavagna
(n. 1921 - m.1966)
Metaf. class. e metaf. cristiana

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  • Prot. 101 -150
    • 142
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l’essere di una modalità qualitativa, non è mai congruente con la qualificazione del predicato, in quanto anche se lo si sottopone a riduzioni qualitative sempre più profonde ed articolate, l’attributo del suo esistere non potrà mai essere eguagliato a un qualsiasi contenuto  qualitativo omogeneo ai restanti predicati e quindi assorbibile, per dir così, in un predicato annullante il soggetto e il giudizio: nel giudizio categorico c’è dunque uno squilibrio, un traboccare dell’equilibrio della bilancia ora a favore dell’idealità o verità per identità e congruenza del predicato eternamente non controbilanciata dalla mobilità del soggetto, squilibrio che lancia il pensiero nella direzione in cui l’autotrascendersi del dato di fatto, del soggetto, è avviata, verso la contemplazione di un mondo di idee “ vero”, scisso però dall’esistente e dal reale, ora a favore dell’esistenza o trascendenza sul pensiero e sull’ideale del soggetto eternamente non controbilanciato  dalla qualificazione immutabile  del predicato, equilibrio che sospinge il pensiero nella direzione  in cui l’autotrascendersi del concetto ideale  è avviato, verso la contemplazione di immagini che nessun intelligibile e quindi  nessun pensiero autocosciente si potrà mai dichiarare capace di esaurire estensivamente e comprensivamente; in parole più semplici; la struttura relazionale del giudizio avvia da un lato alla metafisica idealistica per l’esigenza di perfezione cognitiva data nel predicato  e non soddisfatta da nessun soggetto, dall’altro alla metafisica oggettivo-fenomenica per l’esuberanza ontica di cui il soggetto è ripieno e che nessun predicato  potrà mai adeguare; 2) il pensiero, separando, in vista del giudizio categorico che è la sua stessa essenza, l’esistere del reale dalle qualificazioni che nel reale  fan tutt’uno con il suo esistere, rompe un’unità ontica e, consapevole  della conseguente inadeguatezza di sé come rappresentante per giudizi categorici dal reale come rappresentato pel medio di tali giudizi, ne tenta il ripristino  con l’analisi più profonda di tutti i contenuti qualificativi, nello sforzo di costruire un sistema il più completo  di intelligibili che si ponga a ragion sufficiente dell’esistere e della validità dell’ontico; il tentativo è tuttavia  destinato  a un inesauribile fallimento perché il sistema degli intelligibili, o verità dell’ontico, non s’identificherà mai, per quanto complesso e suddiviso in articolazioni  sempre più minute, con l’esistente ontico assoluto, e questo non s’identificherà  mai con le qualità, anche universali e necessarie  che lo costituiscono; di qui deriva da un lato che il giudizio categorico  si pone ad essenza e quindi a ragion d’essere dell’esistere del pensiero e insieme a condizione della sua inadeguatezza cognitiva all’ontico, dall’altro che lo stesso giudizio, in quanto ha a sua essenza

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se non l’identità almeno la tendenza all’identità del soggetto col predicato e del predicato col soggetto come a suo limite, è un falso, una rappresentazione che non verificherà mai di diritto la sua pretesa di rappresentare l’unità del reale, per il semplice fatto che non realizzerà mai l’identità del suo predicato con il suo soggetto; volendo annullare la distinzione tra soggetto e predicato  per la quale si dà un’eterogeneità assoluta e ineliminabile tra i due, volendo cioè rompere la distinzione  tra la classe degli ideali cui appartiene il predicato e la classe degli esistenti cui appartiene il soggetto in modo che i due divengano conclassari e quindi cogeneri e quindi riuniti da una relazione che invece di dividerli, li unifichi  in un solo atto di pensiero il quale sia “vero” in quanto può assumere come predicato l’armonia, la concordia, la congruenza, è necessario sostituire al categorico un giudizio  ipotetico che esprima nel soggetto l’esistenza del soggetto del categorico, col che i due giudizi si pongono come totalmente equipollenti dal punto di vista  del loro soggetto, ed affermi nel predicato l’esistenza del predicato del categorico, col che il giudizio ipotetico risulta più vero del categorico  come quello che fa del predicato una qualificazione che viene all’esistere quando possa fondarsi sul substrato dell’esistenza in sé del soggetto; donde ritorna a spuntare l’insufficienza del pensiero che col nuovo giudizio ipotetico si trova dinanzi a un soggetto la cui esistenza, in quanto trascendente la rappresentazione dell’intelligibile  soggetto a cui l’abbiamo necessariamente ridotta, non ha a sua ragion sufficiente  il mero darsi della rappresentazione del soggetto e perciò s’appella a qualche altro esistente la cui rappresentazione si erge a soggetto di un ipotetico che ha  a predicato il soggetto del primo e il cui soggetto si ripone come predicato di un sovraordinato ipotetico, e così via all’infinito; poiché un giudizio categorico non è mai un assoluto per la deficienza innata di unità assoluta tra soggetto e predicato, esso cela sempre  una implicita componente formale di condizionalità, consistente  nell’incompiutezza del soggetto che smarrisce  nella sua identicazione ((??identificazione??))  con il predicato ideale  la sua autonomia esistenziale  e la va a cercare  in un altro soggetto di cui si pone come predicato; abbiamo di qui il diritto di completare il pensiero di Bradley affermando che l’implicita ipoteticità del categorico, con la sua esigenza di ripristinare  la completezza dell’esistenza trascendente l’intelligibilità attraverso il suo

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riferimento come predicato meramente intelligibile - un soggetto che rinfreschi la sfocata nota dell’esistenza, rimanda al processo polisillogistico per cui un predicato  riferito a un soggetto esige di ritrovar la garanzia  della legittima sua immanenza nel soggetto, in un nuovo rapporto di immanenza tra sé e un soggetto che sia predicato del primo, soggetto che pretenderà di verificare  la propria natura  media di datore  di esistenza al primo predicato  e di immanente nel primo soggetto, attraverso la propria immanenza  in un terzo soggetto, che riproporrà nei propri confronti le stesse esigenze e così via in un processo all’infinito: per questo siam partiti con l’affermare che Bradley non fa che sviluppare una delle conseguenze della teoria aristotelica; ora, nei tre discorsi di Aristotele, di Kant, di Bradley, c’è qualcosa che lascia perplessi; tralasciamo certe incongruenze tra la dottrina logica e la dottrina gnoseologica sia in Aristotele per il quale  o il meccanismo dell’intelletto passivo ed attivo genera in atto il concetto  della percezione individuale, e in questo caso non si vede la necessità che un giudizio categorico debba essere conclusione  di un sillogismo e questo debba essere episillogismo  di un polisillogismo sia che il giudizio categorico abbia a soggetto il concetto della specie infima sia che abbia a soggetto un qualsivoglia genere di specie infima, oppure tutti i giudizi categorici, tanto che abbiano a soggetto una specie infima quanto che si valgano  come soggetto di un genere, debbono essere conclusioni ultime  di un sillogismo e quindi  di un polisillogismo, e in questo caso  il meccanismo dei due intelletti deve fornire un’intuizione  soltanto parziale  del’intelligibile  delle percezioni individuali, un’intuizione  se non altro spoglia delle articolazioni  con cui le denotanti si unificano entro il concetto, sia in Kant, per il quale o è data l’attività meccanicamente uniforme  della categoria di sostanza intervenente su un gruppo di sensazioni ad unificarle in una cosa o percezione individuale o su un gruppo di sensazioni interne, immagini di sensazioni esterne, per inserire se stessa come ulteriore componente del gruppo, rendendo questo un intelligibile sussumibile sotto il concetto di sostanza e il rapporto tra esso e ciascuna sua componente un intelligibile sussunto sotto il concetto di sostanza-inerente, e allora non si vede la necessità del polisillogismo a garantire la verità di un giudizio categorico che sia conclusione ultima o conclusione intermedia, o si dà questa

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necessità, e in questo caso non si vede in che cosa effettivamente consista la meccanica attività unificatrice della categoria di sostanza, dal momento che  non lascia trasparire di sé neppure quel segno tanto immediato che dovrebbe essere la necessità e quindi legittimità del rapporto tra soggetto e predicato; e così mettiamo da parte altri aspetti che nel polisillogismo, teleologicamente ordinato secondo i modi asseriti dal kantismo aristotelico o bradleyano, appaiono strani, ad esempio I) che il polisillogismo, se dovesse veramente servire a garantire l’immanenza di un predicato in un soggetto, vedrebbe limitata  questa funzione ad alcune denotazioni del soggetto, e non a tutte, precisamente a quelle cui è lecito darsi immanenti nella specie-soggetto e in tutti i generi sovraordinati e che quindi sono ridotte alle denotazioni del genere sommo che è categoria dell’essenza generica della specie, con la conseguenza che si potrà costruire un polisillogismo sul giudizio Socrate è mortale, o Socrate è diveniente o Socrate è teleologico ecc., ma non si potrà costruire un polisillogismo altrettanto valido su giudizi del tipo Socrate è razionale o Socrate è viviparo o il viviparo è omotermo, II) che, se si vuol conchiudere il processo all’infinito del polisillogismo con una definizione, non si vede come il polisillogismo continui a conservare il proprio valore dal momento che la conclusione dell’episillogismo infimo diventa un caso particolare della definizione stessa, con la conseguenza che o la conclusione in parola è veramente insufficiente a se stessa per la propria validità e il nostro polisillogismo diventa un circolo vizioso o una petizione  di principio data la identità tra premessa maggiore del prosillogismo  primo e la conclusione dell’episillogismo infimo, o la definizione è, in uno o altro modo, vera di per sé, ma allora doveva esserlo anche la conclusione; l’aspetto però che suscita in me maggiore perplessità è il fatto che i tre continuano ad asserire che un polisillogismo è un processo aperto all’infinito  e io non riesco a pensare un polisillogismo se non come un processo necessariamente finito  e conchiuso in se stesso, entro cui il pensiero non può non trascorrere dialetticamente tra un prosillogismo che è sempre primo o tutt’al più per ignoranza umana si pone come episillogismo di un certo e ben preciso numero di prosillogismi sovraordinati, ed un episillogismo infimo: cercherò  di esporre con




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