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Giordano Bruno Cavagna (n. 1921 - m.1966) Metaf. class. e metaf. cristiana IntraText CT - Lettura del testo |
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[pag. 4 F1] che cosa per essi veramente Kant intenda lo si può arguire in particolare da ciò che egli dice del noumeno, in generale da tutta la sua indagine sul conoscere e sull’agire; l’intelligibile è ciò che gode della natura della razionalità, assolutezza, universalità, necessità, immutabilità, autogiustificabilità, attività, principialità, mentre il sensibile patisce di quegli attributi contrari che gli impediscono di entrare nell’intelletto, relatività, particolarità contingente, mutevolezza, passività di derivazione, eterogiustificazione, con in meno quella nota di assolutezza ontica o sostanzialità che l’intelligibile in sé dovrebbe possedere a lato dei suddetti razionali. Poiché nulla dell’esistente è connotato in conformità al modulo formale della possibile connotazione di un intelligibile in genere, data la natura intelligibile del principio nulla dell’esistente può essere predicato del principio e tanto meno identificato con un principio. Ora, questo discorso non è senza un presupposto e cioè che le uniche e univoche condizioni dell’essere facciano tutt’uno con le condizioni della conoscenza razionale e che di queste condizioni suprema sia quella che vuole che un ente sia pensato dalla ragione se non è affetto da contraddizione: ne viene di conseguenza che il principio metafisico, che è essere per eccellenza, sarà alla condizione di attuare in sé le leggi della razionalità e in primo luogo quella per cui dovrà escludere da sé qualsivoglia contraddizione o incongruenza, compresa quella di poter sussistere, in un qualsivoglia modo di esistenza, in connessione con enti che razionali non siano; e poiché nulla dell’esistente con cui veniamo a contatto è tale da farsi conoscere come un razionale puro, nulla dell’esistente può essere pensato e giudicato o come principio o come avente che fare, in uno o altro modo col principio. E tutto andrebbe bene, se siffatto modo di pensare fosse seguito in tutte le sue conseguenze da colui che l’ha posto - così come aveva fatto Parmenide - o se, che è quel che più importa, una volta ammessolo come condizione prima del conoscere si potesse poi andare avanti per poter conoscere qualcosa, sia pure un qualcosa che non sia principio. Ma Kant procede ad appellarsi a una fonte di razionalità da cui sgorga l’intelligibilità delle cose fenomeniche e la funzione ((o??)) intellettiva del pensiero con connesso e conseguente possibilità della scienza, e inoltre, [pag.4 F2] il pensiero stesso, se accetta il medesimo ragionamento a presupposto e se con ciò dichiara quel che non si può non proclamare e che Kant si preoccupa di dirci subito al principio che cioè una qualsiasi metafisica è impossibile per l’impossibilità di porre il soggetto stesso del primo enunciato metafisico, si vede costretto non solo a non seguire Kant nella sua trascendentalità che media tra il principio metafisico e la scienza umana, non solo a rinunciare anche a quella circospezione Humiana che mirava a fissare alla scienza umana le invalicabili condizioni di validità e ciò faceva assumendo a valore se non altro la ragione umana - il che ha a suo medio la razionalità di un principio -, ma addirittura a svuotarsi di qualsiasi nozione valida, comprese e le nozioni metafisiche e le nozioni scientifiche e l’intero ragionamento-postulato da cui si è partiti che si fonda sull’onnipervadente razionalità di un principio. Con ciò l’aporìa e il vizio di surrezione che si vuole sia l’effetto del suo misconoscimento cadono. Non si pensi tuttavia che l’inefficienza dell’aporìa stia tutta nell’intollerabilità delle conseguenze che essa genera: un mostro o una tragedia non bastano a distruggere la madre e una madre di mostri e di tragedie fa esistere sé e figli quand’abbia reale esistenza. Ci deve essere qualche errore di più nei presupposti kantiani: anticipiamo che i suoi concetti di un principio che sia sostanziale e di una essenza che sia una razionalità formalmente pura, sono fatti né primi né puri, non puri in quanto pervasi da una esigenza che non è quella o non è solo quella di vedere realizzata nell’essere un’entità che sia uno specchio in cui la ragione umana vede riflessa se stessa senza deformazioni e inserzioni straniere, e in quanto generati da un processo che non è soltanto quello di tracciare le condizioni formali di una siffatta entità quali tracce perimetrali in attesa di vedersi riempite da un qualcosa i cui contorni s’incastrino nella forma senza alcun gioco o tolleranza, non primi in quanto punti di arrivo di un ulteriore processo antecedente che è mosso da almeno altri due concetti, uno gnoseologico in generale che conoscenza sia equivalente [pag. 4 F 3] di intelligibilità o che conoscenza del principio sia adeguazione totale di esso, concetti primi che si vanno a mescolare all’esigenza razionalistica che regge l’intero ragionamento. Ma non è questo il lato notevole dei due concetti -presupposti. C’ è in essi un errore immanente che non è molto perspicuo in Kant, ma lo può divenire se riconduciamo la connotazione kantiana di tali concetti a una formulazione semplificata: il principio, se c’è, è razionalità pura, è ragione pensante sé e null’altro da sé; il resto delle cose non è principio; ma, allora, poiché il resto delle cose ha pure un’esistenza, sia pure relativa al soggetto empirico conoscente, i reali sono due e non uno, e fra i due reali, il reale-principio e il reale-fenomeno, c’è soluzione invalicabile, sicché, anche ammesso e non concesso che la ragione umana che pur fa parte del reale fenomenico abbia il diritto di parlare, sia pure come di semplice concetto-limite, di un reale-principio che in nulla ha che fare col primo, i due reali avranno ciascuno un loro principio, il reale-fenomenico un principio che ne giustifichi e gli aspetti razionali e gli aspetti irrazionali, il reale-principio un suo principio che sarà tutt’uno col reale stesso; che se poi l’assurdo di siffatta posizione, rivelato dal fatto che il reale per l’uomo dev’essere uno e che se a lato di questo reale di cui noi facciam parte ce n’è uno o infiniti altri, questi per noi o non sono o sono in un modo o in un altro vincolati col nostro, l’assurdo cioè di un uno che è due porta seco il tentativo di superare la dualità con un medio che si ponga al di fuori dei due e insieme faccia di sé l’anello di saldatura tra i due. Non è colpa mia se l’intero discorso è andato a sfociare nel mito platonico. L’errore, dunque, dei concetti -postulati è il contraddittorio, che li pervade, di affermare da un lato un principio delle cose che dev’essere principio delle nostre cose, ossia del fenomenico sensoriale, e di negare al tempo stesso a tale principio la qualità dell’essere prima delle cose fenomenico- sensibile: la contraddizione sfocia così nell’antinomia di un principio che non può esistere e insieme di un principio che deve esistere dal momento che devono esistere, antinomia questa di tipo ontico che [pag. 4 F4] trova simmetria nell’antinomia gnoseologica di una metafisica che non può esistere per l’impossibilità di trovare un soggetto al giudizio primo di cui essa dev’essere sviluppo, e di una metafisica che deve esistere e che deve quindi trovare un soggetto al suo giudizio iniziale, onde nella catena delle conseguenze che ne derivano e che costituiscono il suo stesso corpo si trovi quella che si pone a principio della scienza come possibile se si vuol essere razionalisti, o a principio di una conoscenza qualsiasi come possibile se si vuol essere semplici organismi agenti per vivere. La possibile soluzione della contraddittorietà e della derivata antinomia, di un doppio principio e di una doppia metafisica, non è accettata né dalla mente in genere né da una mente kantiana, che quando parla di metafisica intende la scienza del principio delle cose fenomeniche. Alle radici della contraddittorietà sta l’errore, che é poi quello di cui s’andava alla ricerca, di un ‘assoluta opposizione tra principio e cose, tra il primo nell’essere e l’essere in generale: se sensibile e intelligibile sono due contraddittori contrari, il sensibile non offre più né scienza né conoscenza, e l’intelligibile resta un puro formale che non ha diritto neppure di essere pensato esistente come mero formale, un concetto-zero; se mondo e principio sono due contraddittori contrari, il mondo non è oggetto possibile di nessuna conoscenza e di nessuna scienza, e il principio è un semplice coagulato di suoni che non trova connotazione né nel tempo né nella conoscenza né nello spazio né nella logica. Il principio deve essere nelle cose e le cose devono racchiudere il principio: quanto del principio sia nelle cose e quanto le cose abbraccino del principio, quale validità gnoseologica nei confronti del principio abbia il quanto del principio che è nelle cose, se questo sia una traccia, un’orma, una presenza reale, un’immagine specchiata, una realizzata, una presenza metaforica, sono tutte domande la cui risposta, essendo determinazione del rapporto di contatto reciproco fra principio o cose, dipende dalla soluzione del problema che qui ci interessa. Tuttavia, non è negabile che
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