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Giordano Bruno Cavagna
(n. 1921 - m.1966)
Metaf. class. e metaf. cristiana

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  • Prot. 151 - 200
    • 197
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[pag 149 (197 F1/2)]

ogniqualvolta si pretenda valersene per la conoscenza di quell'ontico in sé che il dato pretende riprodurre:da questo punto di vista le strutture formali della razionalità del pensiero acquistano una latitudine che è inferiore e al tempo stesso superiore a quella che la valutazione dei Greci e di quanti l'hanno assunta pari pari le ha concesso.

 Per Greci e grecizzanti ontico razionale e razionalità di condizione umana sono identiche o meglio equivalenti, in quanto l'ontico in sé attua senza discorso e quindi acronicamente i rapporti che il pensiero verifica diacronicamente e discorsivamente, con la conseguenza che nessuna dialettica del pensiero diventa valida qualora instauri forme che non riescono poi ad essere ritrovate nelle rappresentazioni dell'ontico in sé, e al tempo stesso tutto ciò che la dialettica umana attua si erige a modulo e a nozione a priori di ciò che l'ontico in sé è e deve essere: sotto questo criterio la descrizione delle forme del pensiero si riduce a una sorta di riduzione dell'ontico in sé all'ontico per il pensiero e viceversa, a un arbitrario disegno di schemi ottenuto con la limitazione dei meccanismi che il pensiero ha la liceità di costruire a quelli tollerati dall'ontico in sé e con l'identificazione dell'ontico in sé a quanto si ritrova entro siffatta circoscrizione.  E' quanto è capitato alla logica del giudizio categorico e delle forme derivate: da un lato, con Aristotele, si è preteso tradurre l'effettivo rapporto formale tra predicato e soggetto al rapporto tra due ontici intelligibili, discreti e ciascuno autosufficiente nel proprio ambito  e nella propria autonomia, il primo dei quali racchiude entro la propria estensione il soggetto, lo sussume sotto di sé e lo investe con la propria intelligibilità, il secondo dei quali gode di esistenza di per sé e trasferisce tale attributo al predicato per la funzione di parte immanente che questo riveste nei confronti della totalità cui appartiene; donde si arguisce che nessun giudizio categorico sia legittimo quando il suo soggetto non è la rappresentazione di un ontico in sé cui l'autonoma esistenza spetta di diritto o direttamente o indirettamente, con la conseguenza che di un notevole numero di giudizi categorici ci si disinteressa quasi non fossero dati al pensiero pel semplice fatto che non sono congruenti col principio della definizione formale che dovrebbero verificare, e ci si arroga il diritto di valersi dei giudizi categorici che sono stati costruiti con perfetta osservanza della loro definizione formale per interpretare apriori l'ontico in sé alcune delle cui rappresentazioni sono da essi utilizzate; così ad esempio, il giudizio "il triangolo è rettangolo" è, per una logica aristotelica, un falso più per il fatto che attribuisce al termine del soggetto quella funzione di principio di esistenza che per definizione appartiene al termine del predicato che per il fatto che dà una distribuzione arbitraria  del soggetto, e il giudizio "Socrate è sostanza " acquista una portata fondamentale perché fra tutte le rappresentazioni riproduttive dell'ontico in sé Socrate è la più adatta ad assumere la funzione di principio di esistenza che un soggetto di giudizio categorico deve avere;dall'altro lato, dal punto di vista kantiano, il giudizio categorico è la relazione assertoria fra due intelligibili, che,


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[pag 150 (197 F2/3)]

non essendo nel reciproco condizionamento apodittico da causa ad effetto né nel reciproco condizionamento problematico da indeterminato generico a lecito e non necessario determinato speciale, coesistono fuori da ogni condizionamento reciproco in quella particolare struttura che l'unitaria coesistenza sostanziale di molteplici in cui nessuna apoditticità è data al coesistere al di là di quel che il coesistere stesso pone: a parte le inevitabili aporie di questo modo di vedere che, mentre non tiene conto della differenza tra un giudizio categorico a predicato accidentale o contingente e un giudizio categorico a predicato necessario o essenziale, insiste nel distinguere la intelligibilità della successione causale dalla fenomenicità della simultaneità sostanziale dopo averle rinnegate entrambe con la riduzione di tutti gli elementi ontici a sensazioni, il giudizio categorico in quanto univocamente ed esclusivamente assertorio si rivela come la risultante di un lavoro che da un lato è di riduzione di tutti gli schemi di predicazione categorica leciti al pensiero umano allo schema di quel rapporto fra una rappresentazione e il tutto di cui fa parte che è posto e attuato dalla percezione ossia dall'unità ingiustificata e inintelligibile di più sensazioni in una totalità infrazionabile nelle sue parti, e dall'altro è di erezione dello schema prescelto a modello o falsariga di tutte le interpretazioni che apriori debbono essere date della razionalità dell'ontico in sé, il quale dovrà considerarsi dotato di unità sostanziale solo negli individui conosciuti con le percezioni, che il linguaggio della teoria comune chiama cose o oggetti, e ricco di unità organica solo grazie ai rapporti causali e concettuali che vincolano rispettivamente gli individui e le loro essenze; non c'è da meravigliarsi quindi se un giudizio del tipo "il triangolo ha gli angoli supplementari" è per Kant falso quando pretenda affermare l'immanenza necessaria della nota della supplementarità dei tre angoli nella totalità di quell'ontico intelligibile che è il triangolo e vero solo quando si limita ad asserire che in qualunque sfera rappresentativa, o empirica o immaginativa-pura, tre dati fenomenici semplici quali tre segmenti inseriti nei rapporti spaziali che chiamiamo triangolo verificano un rapporto spaziale che è uguale a quello di un angolo piatto diviso da due semirette che s'incontrino su di un punto della retta per formarvi un angolo uguale a uno degli angoli del triangolo -nella quale descrizione non è chi non vede che l'assertorietà dell"è uguale" è meramente verbale e di fatto e di diritto è un velo celante l'apoditticità imposta dall'universalità e necessità della forma spaziale -, e se un giudizio del tipo " il mondo è finito " è sempre per Kant falso quando pretenda asserire l'esistenza di un'entità individuale non percettiva, qual è il mondo; e vero solo per un pensiero capace di generare artificiali unità percettive -donde viene la necessità di andare a cercare nella coscienza un modo di razionalità che sappia non solo accettare ma generare i soggetti per i giudizi -.

  Quel che Kant giustamente ha rilevato nel giudizio categorico è il rapporto di immanenza che costantemente s'instaura tra predicato e soggetto, la natura  di nota che il predicato ha sempre nei confronti della connotazione del soggetto;


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[pag 151 (197 F3/4)]

ma subito dopo ha voluto abbandonare l'indagine del pensiero umano nella sua purezza per adattare anzitutto questo stesso pensiero a una certa visione dei suoi contenuti, ridotti tutti a sensazione, a dato sensoriale. Nulla impedisce di pensare che nel pensiero non sia lecito ritrovare nulla che prima non sia stato trovato nei sensi, ma questo criterio deve valere anzitutto per il pensiero stesso: non dev'essere lecito ritrovare nelle forme, nei modi, nei discorsi, nelle strutture che col loro insieme costituiscono il pensiero di condizione umana nulla di più e nulla di meno di quel che ritroviamo nei dati intuitivi che abbiamo di tali modi, di tali forme, di tali discorsi, di tali strutture.

 E' vero che il giudizio categorico instaura fra soggetto e predicato un rapporto che è da connotazione a nota denotante, ma è altrettanto vero che questa relazione è un caso particolare e derivato dall'operazione generale e costante che il pensiero di condizione umana esprime nelle forme verbali del giudizio categorico: ogniqualvolta il pensiero assume una rappresentazione, la tratta come una totalità unitaria ma articolata o articolabile in rappresentazioni componenti e parziali, opera la disarticolazione o frettolosamente e quindi incompiutamente o con grande cura e con l'intento di dirompere l'unità nella serie completa degli eterogenei costitutivi, fissa la sua energia attentiva su una o più di queste componenti nell'intento di acquistare una più approfondita chiarezza e cognizione del tutto mediante il gioco dialettico dell'attenzione che di continuo si sposta dall'unità onnicomprensiva della rappresentazione unitaria alla componente disarticolata e insieme lasciata entro il tutto cui appartiene, allora esprime questo suo dinamismo con un giudizio categorico il cui soggetto è la totalità e il cui predicato è la parte rilevata dalla luce che vi getta su l'energia attentiva su di essa concentrata; il linguaggio tradisce notevolmente l'esatto stato del pensiero perché traduce in separazione preliminare e in successiva riunificazione una semplice disarticolazione di un tutto già articolato, o meglio perché sostituisce una serie, sia pur convergente ((comagente??)), di molti atti eterogenei, l'eterogeneità tra soggetto e predicato, la loro discrezione, la loro correlazione di tutto a parte, la conoscenza simultanea dei due come dei separati e insieme come l'uno immanente nell'altro, all'atto unico di una luce attentiva che mentre tiene sotto il fascio un'intera cognizione simultaneamente concentra una parte di sé su di una porzione dell'intero e con tale atto riesce in un solo istante a conservare l'integrità dell'intero, a diromperla in tutte o in alcune o in una sola delle parti, a fissarsi su di una o più di queste e quindi a pensare la cognizione come quell'unità totale e indistinta quale prima si dava e come quell'uno determinato in modo particolare quale ora si dà; che il linguaggio sia un meraviglioso sussidiario in questo, in quanto cristallizza l'operato e il prodotto del lavoro altrimenti labili, in quanto li tramanda alla memoria, in quanto sorregge il pensiero in quella secondo operazione che è l'astrazione, nessuno intende negare; ma questi meriti non debbono indurre a sostituire all'esatta e pura dialettica del pensiero le modificazioni e gli adattamenti che vi apporta la lingua.

 




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