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Giordano Bruno Cavagna
(n. 1921 - m.1966)
Metaf. class. e metaf. cristiana

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  • Prot. 1 - 50
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[pag. 24 F1]

essendo tale legislazione la categoria suprema del reale in tutte le sue forme; s’intende che, una volta assunto siffatto assioma, nulla si è fatto di più che imporre al proprio pensiero di tipo umano una condizione di tipo puramente formale che nulla incide sulle determinazioni che affetteranno((??)) in futuro i reali discorsi che si pretenderà inferire dall’assioma; questo, in realtà, è un indeterminato perché la sua posizione di identità tra reale e razionale in nessuna nota denota necessariamente o il concetto di reale o il concetto di razionale che per esso giacciono in equivalenza; in altre parole l’equivalenza che esso pone e che costituisce la sua unica nota a connotazione determinata è fatto puramente formale che stabilisce la dipendenza funzionale dell’un termine equivalente dall’altro, un fatto che supererebbe i limiti del mero condizionamento formale solamente se uno dei due termini si desse entro il fenomenico, che resta pur sempre l’unico tesoro cui dobbiamo attingere per le connotazioni materiali, ossia qualitative e non meramente relazioni, in determinazione apodittica e quindi uniformemente e costantemente, e se, di conseguenza, la dipendenza funzionale potesse inserirsi tra fattori uno dei quali almeno non sia una variabile - vorrei, a questo punto, rilevare che il mio presente discorso non lascia fuor di sé Hegel, che è quello fra tutti i pensatori ad orientamento esplicitamente metafisico, che con maggiore autoconsapevolezza ha posto determinatamente il proprio assioma e ne ha visto con maggior chiarezza la condizione di indeterminatezza formale e ha tratto da questa tutte le possibili conseguenze e fra queste la conseguenza più utile alle finalità metafisiche, in vista delle quali l’assioma stesso si pone, della variabilità essenziale alla connotazione qualitativa dei concetti, relati da equivalenza e da dipendenza funzionale, di reale o ((e??)) di razionale; con la conseguenza che il suo merito e insieme il suo limite non stanno già nella conversione dell’equivalenza pel medio del secondo giudizio, che si allinea all’altro sulla complanare principialità di ragion sufficiente, di equivalenza del razionale al reale, in quanto la conversione non è che l’esplicitazione di quanto già tutti i razionalismi avevano operato, a cominciare dal razionalismo parmenideo tra le cui incongruenze sta appunto quella di aver materializzato l’essere nella sfera misconoscendo l’ontità che al discorso soggettivo deve provenire dalla sua razionalità, e in quanto il valore di essa, come conversione, sta tutto nella puntuale applicazione

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di canone onnideterminativo in quanto assiomatico, ma sta piuttosto nell’assicurazione e affermazione di variabilità degli elementi dichiarati equivalenti, le quali gli consentono di elaborare a suo piacimento l’unica variabile, che di diritto può essere differentemente determinata dal pensiero, il razionale; e qui sta appunto il centro di gravità della sua metafisica determinata e, per ciò, il concetto primo la cui validità deve essere argomentata -. La portata esclusivamente formale dell’equivalenza stabilita dall’assioma e la conseguente situazione di variabilità, che è poi stato di indeterminazione qualitativa nella fattispecie, delle connotazioni dei concetti formalmente rapportati rimandano per la determinazione materiale e qualitativa a qualcosa d’altro dall’assioma stesso, e precisamente alle connotazioni in sé, irrelate, dei concetti stessi, connotazione che per uno solo dei concetti considerati è di diritto assoluta e incondizionata entro la determinazione fenomenica cui le due connotazioni necessariamente si appellano, sicché quel rapporto puramente formale di condizionamento funzionale che entro il mero vincolo d’equivalenza era ambiguo potendo dirigersi dal razionale al reale o dal reale al razionale a piacere, una volta spostatisi sul piano della connotazione qualitativa si fa univoco potendo orientarsi solo nel senso di un condizionamento funzionale del razionale sul reale - è questa la portata veramente valida dell’esplicitazione hegeliana operata con la conversione del giudizio primo -; dunque, il giudizio primo che attende la determinazione è quello che pone il condizionamento funzionale del razionale sul reale (=“il razionale è reale “) e non l’altro che, eretto a primo nell’ordine delle ragioni sufficienti, stabiliva il reciproco del condizionamento funzionale (=“ il reale è razionale “). Ora, è facile notare l’aporia in cui il pensiero di tipo umano è venuto a chiudersi in seguito alla sostituzione, entro il grado gerarchico supremo condizionatore assoluto di intelligibilità e di validità del presunto intelletto, del giudizio, primo di diritto, enunciante l’equivalenza del razionale al reale e la conseguente illazione apodittica del razionale dal reale con il giudizio, secondo di diritto, enunciante l’equivalenza del reale al razionale e la conseguente illazione apodittica del reale dal razionale: e non è

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questo semplice giochetto di parole: infatti, una volta mantenutosi ossequiente alla materiale successione dei canoni e una volta attribuito a se stesso come unicamente valido il diritto di valersi del razionale, come veridico ricco di valore cognitivo, che sia stato attribuito per determinazione funzionale dal reale, il pensiero di tipo umano gode di tutte le legittimità operative, giacché ha assunto a suo assioma primo quello che indubitabilmente è un conosciuto primo irrefutabilmente vero che cioè, essendo la conoscenza umana un reale e comparendo in siffatta conoscenza della normatività legale o razionalità, la razionalità deve senz’altro attingere il reale in modo però che i modi di siffatte razionalità sono da assumersi come canoni produttori di verità solamente se e in quanto inferiti dal reale e ritrovati nella connotazione stessa del reale, il che non significa altro che il razionale, che produciamo facendoci ottemperante a una certa legislazione imperante nel nostro intimo e secondo cui elaboriamo rappresentazioni che hanno il diritto di pretendere di essere riflessioni inalteranti il riflesso, è una variabile da determinarsi in funzione del reale stesso secondo le conseguenze poste dal principio formale generico di un’equivalenza in genere fra due concetti in genere; ma se il pensiero capovolge l’ordine degli assiomi, se cioè, dopo aver proclamato che la connotazione qualitativa del razionale deve essere dedotta dalla connotazione qualitativa del reale, e dopo aver inferito il diritto di attribuire realtà a qualsiasi ente pervaso di quella certa razionalità dal fatto che questa razionalità è stata connotata secondo i modi qualitativi del reale e quindi ha tratto le sue ragioni di esistere in genere e la sua ragion di esistere come distintivo di realtà e di validità in particolare dalla sua inerenza a ciò che è in sé reale e in sé valido, rovescia il rapporto intercorrente tra i due enunciati da stazione di partenza terminale a fermata intermedia, e con ciò si assume il diritto di determinare la connotazione qualitativa del reale deducendola dalle determinazioni del razionale e, di conseguenza, di argomentare la realtà e la validità dai modi della razionalità, esso può ritenere di poter far ciò in nome della legittimità della reciprocanza generica ed universale che sempre immane in un rapporto di equivalenza, ma di fatto esso cade in un

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circolo vizioso, perché la reciprocanza che esso assume a diritto ha una portata puramente formale, e gode di portata formale e materiale, strutturale e qualitativa solo nel caso che si abbia a che fare con delle quantità entrambe determinate, mai nei casi in cui l’equivalenza sia posta o tra due quantità delle quali l’una sia parzialmente indeterminata o, tanto meno, tra due qualità - infatti, posta la relazione di equivalenza tra due quantità determinate, ossia corrispondenti a uno dei possibili gradi di una scala di valori quantitativi noti e insieme fissate in due differenti tra le possibili strutture che tale grado può rivestire, ad esempio tra la determinazione algebrica e la determinazione geometrica del quadrato di due quantità date e denotate dal comune attributo di addendi, non si dà nulla che stabilisca un primato dell’equivalenza tra l’una delle due strutture e l’altra, il primato, per restare all’esempio dato, dell’equivalenza tra la determinazione algebrica e quella geometrica, sull’equivalenza reciproca o il primato opposto dell’equivalenza tra la seconda e la prima struttura, dell’equivalenza tra la determinazione geometrica e quella algebrica, sull’equivalenza reciproca; il pensiero può liberamente muovere dall’una all’altro a piacere perché l’equivalenza è di fatto un’identità, e a decidere del primato dell’una sull’altra può essere tutt’al più una condizione intervenente nel complesso dell’intero discorso che utilizza l’equivalenza e di cui l’equivalenza è un semplice medio; ma quando la relazione di equivalenza sia tra una quantità parzialmente indeterminata e una quantità determinata, ad esempio tra la nozione di quadrato di due quantità date che siano addendi in quanto mera possibilità della operazione e la nozione del quadrato delle stesse quantità in quanto però operazione attuata, l’identità delle due enunciazioni reciproche non è più lecita se non come medi differenti di due differenti complessi discorsivi, essendo le due reciproche in quanto principi un di discorso tali che l’una solo di esse, e precisamente quella per cui la quantità determinata, nel nostro esempio il quadrato operato, è predicata alla quantità parzialmente indeterminata, nel nostro esempio il quadrato da operarsi, goda ((gode??))di primato assoluto, come quella che decide della dipendenza funzionale effettiva tra i due modi delle due quantità e che stabilisce l’effettivo rapporto di inerenza secondo cui le due quantità debbono essere pensate, e, d’altra parte, verificandosi che il primato attribuito alla reciproca, cioè all’enunciazione




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