Luigi Guanella: Opere edite e inedite
Luigi Guanella
Regolamento S. d. C. - 1910
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REGOLAMENTO DEI SERVI DELLA CARITÀ (1910)

PARTE TERZA

Capo I. DEL SUPERIORE GENERALE

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§ I. Autorità del superiore generale

§ II. Dei coadiutori al superiore generale

1324

§ III. Considerazioni

1326

§ IV. Relazioni coll'ordinario diocesano

1327
[- 1324 -]

PARTE TERZA

 

Capo I.

DEL SUPERIORE GENERALE

 

<< <   > >>§ I.

Autorità del superiore generale

 

[171]Il superiore generale vive di fede e sedendo sul seggio della sua autorità si umilia tutto in se stesso e rivolge pietoso lo sguardo al Signore in atto di ripetergli ad ogni circostanza della vita: «Voi mi avete messo a questo posto e voi curate - 1325 -la mia fragilità e voi illuminate il mio intelletto a ben conoscere, movete il mio cuore per amare rettamente, dacché mi avete fatto padre e direttore di una nobile e generosa famiglia».

Il superiore generale naturalmente deve essere disposto a compiere la sua carriera circondato sempre da sensi di amore e di letizia per tante opere buone dei suoi confratelli dipendenti,[172] di timore e di mestizia per quel tanto di più che potrebbero fare e non fanno e per i molteplici pericoli che da ogni parte sovrastano.

Nel corso della sua carriera pensi alle gioie ed ai dolori di S. Giuseppe e imiti il santo patriarca nell'esempio di rispetto, di umiltà, di confidenza, in trovarsi egli costituito dal Padre eterno padre e custode della Sacra Famiglia.

Il superiore generale venne creato padre spirituale di numerosa famiglia e, come lo è di diritto, deve esserlo ben presto di fatto.

Tosto dia opera ad esercitare i suoi diritti e i suoi doveri di superiore generale.

Ponga mente a mettere sicuri i primi passi e far conoscere a tutti la sua retta intenzione, la sicurezza d'indirizzo; sovrattutto dia esempio sollecito della sua carità per l'istituto, del suo vivo affetto per tutti e singoli membri dello stesso.

Con queste buone disposizioni deve naturalmente venire che i confratelli dipendenti abbiano semplicemente a guardare a lui col rispetto di padre, colla confidenza di fratello.

 Piaccia al Cielo che sia rimirato e compatito quasi vittima di amore e di dolore che si immola per la prosperità dell'istituto!.

<< <   > >>§ II.

Dei coadiutori al superiore generale

 

[173]Si è detto che il superiore è capo e che i consiglieri del Consiglio superiore stanno a lui come nell'uomo le membra stanno al capo.

Però il superiore generale non può non valersi delle membra, ossia della cooperazione dei suoi confratelli maggiori.

Convivono con lui, conversano con lui, con lui pensano, operano, provvedono.

Il superiore generale, almeno una volta ogni tre anni, visita tutte le singole case dell'istituto; - 1326 -quello poi che non può fare per sé il fa per i membri del Consiglio superiore.

A loro può rassegnare una procura per imprese di rilievo, uno o più di loro può delegare perché siano visitatori generali.

Usa con essi la misura di rispetto, di discrezione, di affetto, come desidera per se stesso.

L'unione e la confidenza coi membri del Consiglio dev'essere rispettosa, intima, esemplare, perché il buon affetto dei loro cuori discenda come luce sfolgorante a rischiarare le menti di tutti e singoli i membri dell'istituto e come fonte salubre di acqua perenne a dissetarne i cuori.

Per ottenere il felice intento, i membri del Consiglio superiore si affiatano bene spesso fra[174] di loro.

Sarebbe pur bene che almeno una volta alla settimana, per non poterlo ogni giorno, il superiore generale, come padre e fratello maggiore, raccogliesse i membri del Consiglio in discorso familiare per trattare, con efficacia di modi, gli interessi dell'istituto.

<< <   > >>§ III.

Considerazioni

 

Non farà torto a nessuno l'insistere intorno al precetto dell'umiltà: quanto più sei posto in alto e tanto più umiliati davanti al Signore.

Con tale sentimento di conoscenza di se stesso, ognuno potrà piacere a Dio ed agli uomini.

Il superiore generale è meglio che pecchi più di misericordia che di troppa giustizia.

Virtù edificante è saper tollerare nei propri dipendenti quei difetti di carattere e simili che, mentre sono quasi inerenti alla natura umana e quindi quasi impossibili a correggersi, tuttavia non sono di grave pregiudizio agli individui ed all'istituto.

Inutile avvertire che l'uomo prudente non è facile a credere alle relazioni e che non perde il tempo in ascoltare discorsi inutili, per non cadere nel laccio dei pettegolezzi.

[175]Può interpretare con benigna epicheia57 le costituzioni della Regola - 1327 -in certi casi particolari, senza ledere la sostanza delle Regole stesse.

 Il superiore generale sia geloso del decoro del suo posto e non si lasci; mai trasmodare da risoluzioni precipitose.

Ricordi il motto di S. Vincenzo de' Paoli: «Lasciatemi andare adagio, perché ho fretta».

Si guardi dai turbamenti che cagionano le passioni di confusione, di precipitazione, di timore, di paura e simili, perché tali passioni non approdano a bene e non possono avere principio da spirito buono.

Nelle avversioni ed avversità si mostri paziente e non operi finché non sia cessato in lui ogni turbamento di animo.

<< <   > >>§ IV.

Relazioni coll'ordinario diocesano

 

Anche se la congregazione dipendesse da Roma direttamente e non fosse soggetta alla giurisdizione diocesana, pure la convenienza, la giustizia, la carità esigono che all'ordinariato del luogo si mostri di cuore ogni buon atto di divozione; di cuore si prestino tutti quegli uffici[176] di servigi ragionevoli e caritativi che sono possibili a prestarsi.

Sempre poi bisogna dipendere dal vescovo in più casi.

Al vescovo sono da dichiarare i legati che sono stati lasciati in pro dei suoi diocesani.

Sempre il vescovo può e deve sorvegliare le regole di fede e di costume nell'istituto.

Il detto di S. Ignazio58, che è di seguire il vescovo come Gesù Cristo <segue> l'eterno suo Padre, suggerisce norme e misure della dovuta dipendenza alla legittima autorità ecclesiastica.





p. 1326
57 Interpretazione e applicazione della legge con discrezione ed equità.



p. 1327
58 S. Ignazio, vescovo di Antiochia, fu martirizzato a Roma nel 107. È l'autore di sette celebri lettere; qui l'A. ricorda una espressione di quella scritta agli Efesini (PG 5, 736).



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