Luigi Guanella: Opere edite e inedite
Luigi Guanella
Biografia R. Masanti
Lettura del testo

Per una biografia di Raimondo Masanti (1891-1901)

CENNI DI VITA DEL CONTADINO RAIMONDO MASANTI (1901)

Articolo IV. Frate nel secolo

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Articolo IV. 46
Frate nel secolo
[7] A quei buoni amici che dolcemente gli domandavano: « Perché, Raimondo, avete rassegnato tutta la vostra sostanza, e da padre siete diventato figlio? ». Ai quali rispondeva pure scherzosamente Raimondo: « Non vedete? Mi sono fatto frate... I frati di Dongo non possiedono veruna cosa ed io non vedo mai il colore di un soldo... I frati lavorano e pregano e tutto attendono dalla divina provvidenza. Io non sono come uno di loro ma avrei desiderio di esserlo. Lasciatemi vivere da frate ».
Invero la vita di Raimondo in questo periodo di tempo fu più che una vita fratesca perché, rassegnata l’autorità 47 del governo famigliare, divenne suddito come un figlio e fu poi sempre come il maggiore fratello tra i figli del suo figlio, il Martino. Raimondo si era volontariamente spogliato di ogni avere, ma non poté spogliarsi dell’autorità perché non cessò di essere virtuoso, anzi lo divenne sempre più, e la virtù si impone per se stessa.
Raimondo aveva in fronte un’aureola di virtù di prudenza, di pietà, di pazienza inalterabile. Quelle tre virtù risplendevano come tre belle faci e perciò Raimondo tornava caro ai membri tutti della casa e gli domandavano il da farsi nella condotta - 407 -della famiglia e degli affari; lo domandavano in consiglio, gli obbedivano quando era da lavorare, quando da pregare, quando da rimanersene in casa piuttosto che recarsi alle serate di chiacchiere e di divertimento in casa altrui.
[8] La moglie di Martino rispettava Raimondo tanto come il proprio padre e maestro. Martino, il figlio, non mostrava di volere non comandare, ma in sostanza ripeteva sovente: « Papà Raimondo come la pensa?... L’avete interrogato... Riportatevi 48 a lui perché egli ne sa più di me... Non mi sono mai pentito di essermi acquetato ai suoi pareri ». Forte non di meno di carattere e effervescente nei bollori dell’uomo gagliardo, raro non era che il Martino non trascorresse con sé, con fratelli, con i figli, e allora Raimondo lo richiamava con soavità e con forza e lo arringava con una strettezza di linguaggio che meglio non avrebbe fatto un sapiente predicatore.
Le cose si ricomponevano e poi si facevano da capo, e allora Raimondo conchiudeva: « Non bisogna scandalizzarsene... il cuore è buono... Vi sono nella vita degli uomini certi errori di mente per cui una persona senza spiacere molto al Signore ritorna pesante al prossimo, ma io ho sentito tante volte dal signor curato che Dio solo è santo e che dei difetti se ne trova non fra i santi del cielo ma fra i viatori della terra e bisogna che gli uni sopportino i difetti degli altri, e anche i difetti proprii che li porti con pace quando pur usando diligenza non si riesce a schiantare affatto dal campo le ultime radici delle erbe non buone ».
Intanto egli precedeva tutti coll’esempio di molta rassegnazione, di molta preghiera, di un lavoro instancabile. Quanto a preghiera, non poteva tollerare che potendo non si andasse ­ciascuno ad ascoltare al mattino la santa Messa e che si trascurasse 49 qualsiasi funzione ogni volta che le campane chiamassero i fedeli alla chiesa, che chiamava casa di Dio, luogo di preghiera, il vero paradiso in terra. [9] Non poteva tollerare che i suoi di casa non si recassero a ricevere almeno una volta al mese i santi Sacramenti, che diceva un ponte fortunato che - 408 -congiunge questa con l’altra vita e rende felice l’uomo nel tempo e nell’eternità. Gli pareva impossibile che si dessero cristiani poco attenti e fervorosi nella credenza e nella pratica dei santi misteri. Nello spirito di rassegnazione sarebbesi detto un Giobbe redivivo, e per accennar ad esempi di pazienza eroica si diceva nel paese: « Nemmeno il Raimondo sarebbe stato paziente in tal caso ».
Eppure Raimondo ridevasi di cuore ogni volta che altri gli confidasse i misteri del proprio cuore. Allora Raimondo prendeva straordinario vigore nel dire. Di sopranome chiamavanlo tutti il Pàmondo, quasi padre e padrone del mondo, perché niente era che potesse conturbare il cuore dell’uomo di Dio. Egli era vero padrone del mondo perché sapeva padroneggiare il mondo di se stesso.
E nello esempio di lavoro Raimondo aveva formatoduro il callo alla fatica che oramai a forza di lavorare di giorno, di sera e talvolta anche la notte intiera, il lavoro fu per lui come una seconda natura. Quando non poteva proprio più per l’età e per gli acciacchi, si strascinava col suo bastone al campo, piegava ambedue le ginocchia e poi sarchiava. Era già acciaccoso per male di artrite e duravala le ore intiere stando così nell’umido della terra. Povero Raimondo! Pareva intenerire i sassi. I compagni passando lo garrivano dolcemente, ma egli si faceva rosso in viso, umido negli occhi, nella voce sospiroso e diceva: « Che volete? Bisogna lavorare sempre. Per me sarebbe maggior tormento se non potessi più lavorare di sorta alcuna ». Quando per prolisso lavorare cadeva sfinito omai, allora ponevasi a sedere e snocciolava dei rosari dicendo: « Quando non si può più lavorare, almeno bisogna pregare ».
Non è meraviglia pertanto che Pàmondo percorrendo sempre [10] una via di sì raro esempio, non venisse in autorità presso la famiglia e quei del paese.
Pàmondo a sua volta sentivasi di poter fare un po’ di bene, e data occasione, con tutta semplicità e con zelo pari esercitava quella autorità che la forza di virtù gli aveva inserito nell’animo. Fu profeta il Pàmondo quando scherzando diceva: « Mi sono persuaso a condurre una vita fratesca perché tutto passa a questo mondo e la morte viene ».




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Nell’originale gli ordinali di questo articolo e dei due successivi sono sostituiti da punti di sospensione, mentre negli altri seguenti non vi è alcuna indicazione. Gli ordinali sono stati reintegrati senza ulteriori segnalazioni in nota.


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Originale: all’autorità.


p. 407
48
Originale: Riportatemi.


49
Originale: trascurassero.


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