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IV.
In un secolo
1. [60]In un secolo l'uomo nasce, cresce e si muore. In un secolo una famiglia od una società nasce e cresce e sembra morirsene. I secoli poi si succedono gli uni agli altri, misti come la vita dell'uomo ad un complesso di prosperità e di infortunii, di virtù e di vizii. Valga ad esempio il periodo di tempo che trascorse dal iv al v secolo. Gemiti e guai furono molti, e molteplici gli esempi di fortezza e di virtù. A Costantinopoli nel 397 apparvero indizii di gravi minaccie. Fu vista una nuvoletta crescere a dismisura e riempiere d'un tratto tutto intorno e rischiarare come una fiamma ardente. Mandava un fetor di zolfo e pareva dovesse la città ardere in generale incendio. I cittadini erano costernati, e pensando molti allo stato della propria coscienza si disponevano per ricevere il santo Battesimo persino nelle pubbliche vie. La nube poco a poco dileguò, ma intanto [61]si sparse notizia che nel sabato seguente la città sarebbe sommersa. Or chi poté si affrettò ai monti e nel mattino di quel dì la città si vide immersa in una oscurità di caligine tetra. L'imperatore ed i sudditi giungevano le mani a supplicare e piangevano dirottamente. L'eccidio che si temeva non sopravvenne, ma nel 398 si fé udire un mugolio profondo dalle viscere della terra. Improvvisamente il suolo si spaccò, vi uscirono fiamme, il mare sollevossi ad inondare Costantinopoli e Calcedonia. Allora si vide lo spettacolo di due città che ardevano in mezzo alle acque. Le sciagure furono gravissime, i guasti quasi irreparabili. Tremuoti e disastri scossero Alessandria e Antiochia e altre città d'oriente, sicché al tutto pareva il mondo andarne in sobbisso. Ad accrescere il terrore, i barbari scendevano ad inondare in ogni parte dell'impero romano. I persiani pure conducevano incontro schiere formidabili. In Africa poi gli ariani chiudevano le chiese, uccidevano i vescovi, [62]incendiavano le città. Ippona e Cartagine stessa caddero miseramente.
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2. In occidente i mali non erano meno gravi. Il barbaro Stilicone mirava per essere imperatore e scacciava dal trono il debole Onorio. Ma più che Stilicone, Alarico, generale in capo delle truppe imperiali nell'Illirio61, ripeteva sovente: "Io mi sento una voce che mi ripete di continuo: Affretta verso Roma, saccheggia quella città... Roma è la città in ira al cielo". E venne Alarico attraversando la Gallia, che convertì in un vastissimo cimitero di morti. I santi vescovi Nicasio62, Desiderio, Antidio offerivansi vittima a Dio per placare lo sdegno celeste. Il vescovo sant'Esuperio poté a grande stento salvare la sua Tolosa. Marsiglia fu distrutta. Il nembo dei barbari condotti da Alarico minacciavano pure l'impero nella Bretagna, onde questi popoli furono costretti <ad> eleggersi un re per esserne difesi. Stilicone rodeva il cuore dell'Italia, finché convinto di tradimento fu appiccato [63]in Ravenna. E il debole imperatore Onorio errava ramingo da Milano a Ravenna ed a Roma. Alarico alla sua volta percorse l'Italia ed entrò in Roma. Vi trovò una fame desolante, una peste distruggitrice. Ed egli fattosi nel mezzo della città intimò: "Orsù, datemi cinque mila libbre d'oro o Roma sarà data al saccheggio". I romani raccolsero dunque il meglio dei tesori o pubblici o privati. Venderono perfino la statua del Valore, che omai s'era partito dal petto loro. Dopo che a Roma, i barbari si rovesciarono sopra la Spagna e vi menarono guasti orribili. In Roma poi la fame e la pestilenza seguivano a tormentare più vivamente. Fu veduta una madre che l'un dopo l'altro squartati tre figlioletti propri e divoratene le carni, poneva mano a sacrificare ancor l'ultimo che le rimaneva. Il popolo fremente coprì di sassi la genitrice snaturata. Alarico progrediva in devastare i campi, in uccidere le persone. Il sangue scorreva a rivi pei campi. [64]Nella Spagna continuavano i saccheggi, quando i vescovi fattisi incontro al barbaro gridarono: "O passa col tuo ferro i nostri petti o perdona ai popoli nostri". Rispose Alarico: "Perdonerò a tutti omai". Ma
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ritornato a Roma la saccheggiò ancor due volte lasciando al popolo due soli asili di salvezza, il tempio di san Pietro e quello di san Paolo. In una chiesa fu trovata una vergine sacra che sciolta in lagrime tenevasi serrato al petto un tesoro prezioso. "Che è questo?", le fu domandato. Ed ella: "Sono i vasi sacri del tempio, maledetto chi tocca il deposito santo al Signore". I soldati, ammirando tanto coraggio, invitarono la giovinetta a seguirli con il vasellame sacro e l'accompagnarono in trionfo al tempio di san Pietro. Due altre vergini furono trovate al monte Aventino, Marcella e Principia, che si struggevano presso ai santi altari. "Che fate voi qui?". E queste: "Morire per non essere profanate". I soldati si provarono a scalfire col ferro i loro colli e quelle replicavano: "Tagliate, che il nostro sposo Gesù ci attende in cielo". Attoniti quei barbari le [65]accompagnarono pure in trionfo ai templi santi, destinati al rifugio degli innocenti. Alarico, in partirsene finalmente da Roma, trasse seco una moltitudine di schiavi e non risparmiò nemmen Placidia, la sorella di Onorio. In ritornare sac<c>heggiò Nola e distrusse Reggio. Volgeva poi sopra Sicilia, quando fu colto da morte. I soldati seppellirono il cadavere sotto il letto di un fiumicello e vi uccisero sopra alcuni schiavi cristiani che ne aveano osservato il modo ed il luogo della sepoltura. Un altro figlio dei barbari, Odoacre, prese il posto di Alarico e, disfatto intieramente l'impero romano, denominossi poi re d'Italia.
Così l'impero di Roma scompare e nell'oriente e nell'occidente. Sola e civilizzatrice vera dei popoli rimane la Chiesa. Questa, che è la sposa immortale di Gesù Cristo, vive e comanda e regna su tutta la terra. L'impero romano è l'ultima parte delle gambe in ferro della statua veduta da Nabucco. [66]San Giovanni evangelista vide, nell'isola di Patmos, una bestia assisa sopra sette montagne, con dieci corna, dieci re i quali farannola potente, ma alla fine l'odieranno e la renderanno desolata ed ignuda, e mangeranno le sue carni e la struggeranno col fuoco, perocché Dio ha posto loro in cuore di far quello che è piaciuto a lui. L'impero di Roma, opera d'uomo, cade; la Chiesa, opera di Dio, sta. In questo periodo di tempo dieci popoli compiono le profezie dei veggenti del
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Signore. I persiani salgono dall'oriente, i saraceni precipitano dall'Armenia. I vandali distruggono in Africa, gli svevi piombano sulla Spagna, i franchi nella Gallia, gli angli nella Bretagna, gli unni nella Italia. Questo nugolo di barbari, che circonda allo ingiro e che assale nel cuore, in breve strazia l'impero di Roma e l'atterra. La natura conturbata sembrava ella medesima annunziare le calamità che sarebbero venute. Addì 26 gennaio 447 in Costantinopoli [67]s'udì un rumore straordinario, nunzio d'un prossimo terremoto. Il popolo d'un tratto riparò alle campagne. Quand'ecco la città risuona d'orrendo fracasso. Crollarono le mura fabbricate 34 anni innanzi con 57 torri, caddero a terra le statue che ornavano intorno alla piazza e crollarono pure gli edifizi in pietra sulla piazza di Tauro. Il terremoto si estese a più regioni. La lunga muraglia che chiudeva il Chersoneso rovinò intieramente. Nella Bitinia, nell'Ellesponto, in ambedue le Frigie63 borghi e città intiere furono inghiottite dal suolo. In questa sciagura fu compresa Antiochia e distrutta in gran parte, né fu risparmiata Alessandria. La terra mutò aspetto in più luoghi: dove dissec<c>aronsi le sorgenti, dove ne sgorgarono in copia anche nei terreni già aridi. In alcuni luoghi si abbassarono montagne e in altre pianure si elevarono monti. Il mare poi ribollendo furioso sobissò intiere isole e talvolta ritraendosi dalla spiaggia lasciava i navigli in secco, fitti tra le sabbie. [68]L'aria pareva affocata e vapori pestilenziali spandendosi recarono morte a persone e ad animali. Di tempo in tempo e per lo spazio di sei mesi il terremoto scuoteva orribilmente or questa or quella parte di terra.
3. In occidente venne la caduta di Roma. San Giovanni la descrive così: "Allora un angelo robusto alzò una pietra come una grossa macina e la scagliò nel mare dicendo: Con quest'impeto sarà scagliata Babilonia (Roma pagana), la gran città, e disparirà"64. L'impero d'occidente dibattevasi nelle
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estreme agonie. Caduto per tradimento di Massimo il debolissimo Valentiniano iii, fu per opera di Eudossia, la vedova imperatrice, chiamato Genserico che per 14 dì abbandonò Roma al saccheggio. Rovinarono immensi tesori e perirono gli stessi preziosissimi vasi che già furono trasportati dal tempio di Gerusalemme. Si trasportarono a migliaia gli schiavi prigioni, fra i quali Eudossia medesima. Genserico avrebbe eguagliata Roma [69]al suolo, ma il pontefice san Leone ne frenò il furore. Genserico partissi adunque e pervenuto a Cartagine trovò che il vescovo Deogratias vennegli incontro e ricomperò gli schiavi che seco conduceva. Nondimeno l'ariano Genserico arse le chiese dei cattolici, proibì <di> consecrare nuovi vescovi; nel breve spazio di trent'anni, l'Africa appena numerava 3 sedi. Genserico distrusse la forte Cartagine e introdusse ovunque l'arianesimo. Da Cartagine passò poi alla Spagna, all'Italia, nella Dalmazia, in Epiro, nella Grecia e nell'Illirio. Un giorno il pilota dalla calva fronte domandò: "Sire, dove vuoi che io diriga la prora delle navi?" E Genserico a lui: "Verso a quella nazione che è in odio a Dio". Il pontefice san Gelasio attribuiva il saccheggio di Roma alle profanazioni con cui i cittadini nei giorni festivi si affrettavano agli spettacoli del circo, ai tripudii dei lupercali ed alle invocazioni degli dei Castore e Polluce.
4. Altro flagello della umanità fu Attila. Disceso con immense schiere dal settentrione di Germania, pretendeva alla [70]destra della figlia dell'imperatore recando in dote metà dello Stato. Rifiutò Valentiniano, e Attila con 700 mila soldati devastò la Francia. Venuto dinanzi al vescovo san Lupo a Troyes diceva: "Io sono il re degli unni, il flagello di Dio". Nelle pianure di Sciampagna venne alle mani con l'esercito di Ezio e di Teodorico. Tosto il sangue scorse a rivi per quelle campagne. Trecento mila cadaveri si trovarono sparsi all'intorno. In altra fiata Attila dal Norico venne all'Italia e dirigevasi per alla volta di Roma, ma il pontefice san Leone incontratolo a Mantova l'arrestò. Attila rivolto a' suoi gridò: "Addietro, che un angelo ci percuote!". Morì poco di poi, lasciando un popolo di figli che straziandosi in continue guerre ridussero al nulla la potenza del padre. In
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Italia fu dichiarato re Odoacre, il quale ad Augustolo, ultimo imperatore, disse: "Ritiratevi a Pozzuoli con la dote di sei mila scudi d'oro che io ancora vi concedo, e lasciate a me il fatto e il nome di re d'Italia". L'impero di Roma cessò dopo essersi [71]mostrato possente nel periodo di 1229 anni.
5. Verso la fine del secolo quarto un terremoto orrendo spaccò il suolo con larghe fenditure in Dardania nello spazio di 10 leghe. Lo scotimento sobbissò piani e divise monti. Scupe65, la capitale, fu intieramente sommersa, benché gli abitanti abbiano potuto riparare altrove. Ventiquattro altre città furono quasi per intero distrutte. Vennero altresì carestie e fami a desolare. I barbari si succedevano con rapidità a saccheggiare. Anastasio imperatore, per salvare la capitale, era costretto <a> rimandarli con carichi d'oro. Anastasio si disfogava in molti eccessi scellerati. D'un tratto il cielo da sereno mutossi in oscuro. L'imperatore, temendo per sé, fuggiva come un Caino tremando da camera in camera, finché un fulmine lo incenerì nel più segreto gabinetto.
Alla fine del secolo v altri disastri si succedevano in oriente. Nell'anno 525 avvennero inondazioni terremoti, incendi nella Mesopotamia, [72]nella Cilicia, nell'Epiro e nella Grecia a Corinto, non che in Antiochia. Nel 526 un incendio si apprese alla chiesa di santo Stefano e si estese a struggere in molta parte la città. Antiochia per la quinta volta fu rovinata da fortissime scosse di tremuoti. Un vento impetuoso portò le fiamme dai comignoli che ardevano, intanto che una fornace sotterranea che bollir faceva il suolo della città esalava infiammati vapori. Le ceneri ardenti e le faville trasportate in aria dal turbine ricadevan in piogge di fuoco e accendevano i tetti delle case, mentre un altro incendio le consumava di sotto. La basilica innalzata da Costantino resistette per due giorni alla violenza del fuoco che divorava tutti gli edifizii intorno, finché avvolta essa pure dalle fiamme e come calcinata cadde con orribile scroscio. Sì repentino e inopinato fu quel disastro, che
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ben pochi si poterono salvare con la fuga. I più perirono schiacciati dal cader degli edifici, altri furono consumati dal fuoco e, cosa ancor più miseranda, fra gli sciagurati che in turba copiosa correvano smarriti per le vie e [73]per le piazze, molti si incontravano in assassini, che insieme colla vita loro rapivano l'ultimo peculio che possedevano. Fra questi ladroni eravi perfino gente del reale palazzo. Dopo venti e trenta giorni furono tratti di sotto alle macerie uomini ancor vivi, i quali per lo più morivano appena recati all'aria esterna. Questo terremoto, che fu il quinto ed il più disastroso dopo la fondazione di Antiochia, durò sei giorni intieri colla stessa violenza e si rinnovò di tratto in tratto, benché con minor forza, sei mesi appresso. A quando a quando le scosse si sentivano per il giro di sette leghe intorno alla capitale dell'Asia. Dafne e Seleucia furono intieramente distrutte. L'imperator Giustino in segno di altro duolo si vestì a gramaglie e mandò in più riprese cinquanta milioni di libbre d'oro, un bilione di lire nostre, per rifabbricare la sventurata città. Il patriarca Eufrasio sepolto vivo per un dì fece udire i suoi gemiti, ma non si poté liberare. Si dice che gli antiocheni, abbandonata [74]la massima e la pratica della dottrina cristiana, la pensavano da epicurei e vivevano da gaudenti. Due anni di poi, 528, eccitossi altro tremuoto ed altro incendio orribile. Alla levata del sole del 15 novembre l'aria rintronò ad un tratto d'un spaventevol muggito e la terra fu scossa per più di un'ora, sicché i nuovi edifizi furono atterrati con le mura della città. Vi perirono quattro mila ottocento persone. Nel verno crudissimo che seguì i tapinelli rimasti vivi venivano a piè nudi calcando la neve e gridando pietà. Tre anni dopo questo avvenimento, 531, una pestilenza che disertò quasi tutto il mondo conosciuto durò per lo spazio di 50 anni. Infieriva sovrat<t>utto in estate e sorprendeva un paese e non altro confinante, questa famiglia e non la vicina. In questo malore alcuni perdevano66 la ragione, altri rimanevano assopiti, i giovinotti erano specialmente attaccati.
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6. Gli storici raccontano di delitti esecrandi che commettevansi impunemente sovrat<t>utto nelle regioni più battute [75]dalle sciagure. Costantinopoli, novella Babilonia, non pose tregua a lacerare colle eresie il seno della Chiesa di Gesù Cristo. San Teodoro venuto innanzi a san Tomaso, il patriarca di Costantinopoli, disse: "Si scorgono segnali di gravi minaccie. Avverranno scorrerie dei barbari e sarà in copia effusion di sangue. Tumulti e distruzioni accadranno in tutto il mondo. Ne saranno derelitte le chiese e presto verrà la rovina del culto e dell'impero; vicino è l'arrivo dell'avversario, o sia di Satana". Rispose Tommaso: "Corre voce che Costantinopoli stessa sarà inghiottita; deh, che io muoia prima che vedere tanti mali nel mio popolo!". Aggiunge Teodoro: "Sarai esaudito". In breve Tommaso ammalò e morendo disse al santo amico: "Arrivederci in paradiso". Ario e Nestorio con bestemmie esecrande contro alla divinità del Salvatore laceravano l'unità della Chiesa. Nel suo ingresso a Costantinopoli Nestorio aveva osato dire all'imperatore "Dammi la terra purgata dagli eretici, i [76]cattolici, ed io ti metterò al possesso del paradiso". Atanasio vescovo di Alessandria si opponeva come una muraglia insuperabile, ed egli solo fu forte in oriente ed in occidente come un esercito invincibile. Gioviano imperatore, in richiamarlo dallo esiglio, dicevalo religiosissimo amico di Dio e confortavalo così: "Ritorna alle Chiese sante, pasci il popolo di Dio, e il pastore in capo al suo gregge preghi poi per la nostra persona, certi come siamo che Dio verserà su di noi e sugli altri cristiani le grazie più singolari, se tu ci concedi l'aiuto delle tue orazioni". E rivolto ai pagani diceva Gioviano: "Ritornate voi stessi alla verità; venite, io vi chiamo, ma vi aspetto come figli convinti, non come servi debellati". Valentiniano alla sua volta rispondeva agli ariani che doleva<n>si del ritorno di Atanasio: "A me che sono nella schiera dei laici non è lecito mescolarmi e cercare troppo ansiosamente nelle cose di fede. Però i vescovi, ai quali ciò si appartiene,[77] si radunino pure dove loro pare e piace".
San Girolamo, il dottore, scriveva intrepido in difesa della Chiesa e diceva: "Se i tristi non hanno rossore a fare
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il male, devo io avere paura in manifestare la verità?". Ed a cotale che, brutto di aspetto, vantavasi di contraddirlo67, rispose: "Fatti sparire il naso e tieni ben chiusa la bocca, e dopo potrai passare per bell'uomo e buon parlatore". In iscorgere le irruzioni tempestose dei barbari sclamava Girolamo: "Crolla l'universo romano". San Giovanni Grisostomo e san Basilio avevano gli occhi come due fonti di lagrime per piangere i mali del popolo cristiano. Agostino stando in Milano sentesi inspirato <ad> aprire la Bibbia e leggere: "Non nel disordinato mangiare e nelle ubbriachezze... ma vestitevi di Gesù Cristo e non vogliate prendervi cura di render contenta la vostra carne nelle sue cupidigie"68. Dopo questa lettura Agostino viene ai piedi di sant'Ambrogio e comincia <a> farsi santo e cresce dottore esimio nella Chiesa. [78]Sant'Ambrogio poi traeva ad ammirare la sua sapienza perfino i saggi della Persia, i quali venendo dicevano: "Questo che abbiamo scorto è ancora al di sotto di quello che udimmo". Di Arbogaste69 capitano invincibile dicevano: "Non è meraviglia di tante vittorie, tu che sei amico di Ambrogio il quale dice al sole: Fermati, ed ei si ferma!". Teodosio il Grande spirando nel 395 gridava: "Ambrogio! Ambrogio!". E Ambrogio accorreva e in tenere l'elogio dell'imperatore diceva: "Ho amato l'uomo misericordioso e umile sul trono... che più aveva caro essere corretto che d'essere adulato... Ho amato colui che a nome chiamavami negli ultimi aneliti! Ho amato colui che in quel tremendo istante era più sollecito delle Chiese che del suo proprio pericolo! L'ho amato e lo piango dal fondo del
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cuor mio!...". Morì anche Ambrogio e Stilicone, che il vide spirare, sclamò: "Ora cade il romano impero".
In oriente gli occhi del popolo rimiravano rispettosi a Simeone Stilita ed a Daniele Stilita. [79]Simeone dimorava al vertice di un'altissima colonna entro una botte aperta e stavasi esposto a tutte le intemperie per quaranta dì, e più volte in un anno, in digiuno rigorosissimo. Dopo aver supplicato guardava ai popoli che erano accorsi per vederlo ed ei benedicendo a loro guariva gli ammalati fra essi e convertiva i peccatori. In tempo di tremuoti e di pubbliche sciagure i popoli traevano alla celebre colonna di Simeone e dimoravano fino a cinquanta dì in digiuno e preghiera. Quando il videro spirare fu un lutto universale. Da Antiochia venne<ro> 6 mila soldati guidati da 21 conti, con tribuni e patrizii, a fin di accompagnare con onore la salma alla città. Turbe di monaci e di sacerdoti erano guidati dai rispettivi abati e vescovi. Non mai fu veduta adunanza sì numerosa e pia. Daniele Stilita, discepolo di Simeone, ne imitava le virtù ed i miracoli e traeva pur a sé popoli ed i regnanti.
Quest'è la vera filosofia: guadagnare a sé i cuori altrui per ricondurli a Dio. [80]San Gregorio papa provvedeva così alla conversione della Inghilterra. E san Benedetto, adunate turbe di monaci intorno a sé, invitolli a civilizzare i popoli dell'oriente e dell'occidente. Dava loro queste regole di saggio vivere: "Amate Dio, staccatevi dalla terra per non contrastare fra di voi. Parlate poco per non aver dissidii. Ritenete per massima che il miglior fondamento di prosperità è <l'>amor di Dio e far bene al prossimo per amor del Signore". Con queste buone massime di insegnamento Benedetto dissodava terreni, asciugava paludi, ammaestrava i popoli all'agricoltura, alle industrie, al commercio. Benedetto conduceva un popolo di santi atto per santificare le nazioni della terra. E i popoli della terra, percossi le tante volte dai castighi di Dio per tante loro iniquità, finalmente si ravvedevano. Sclamavano in coro di fiducia viva: "La Chiesa è un campo di combattimento. Glorioso nella Chiesa è chi impugna l'armi e combatte intrepido. Combattiamo, ché presto al lavoro di patimenti succede il riposo di trionfo".