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Pius PP. XI
Quadragesimo anno

IntraText CT - Lettura del testo

  • II - LA DOTTRINA DELLA CHIESA IN MATERIA SOCIALE ED ECONOMICA.
    • 2. Capitale e lavoro.
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2. Capitale e lavoro.

53. Assai diversa è la natura del lavoro, che si presta ad altri e si esercita sopra il capitale altrui. A questo lavoro soprattutto si addice quel che Leone XIII disse essere cosa verissima: cioè che "non d’altronde è prodotta la pubblica ricchezza, se non dal lavoro degli operai" (RN n. 37). Non vediamo noi infatti con gli occhi nostri, come l’ingente somma dei beni, di cui è fatta la ricchezza degli uomini, esce prodotta dalle mani degli operai, le quali o lavorano da sole, o mirabilmente moltiplicano la loro efficienza valendosi di strumenti, ossia di macchine? Non v’è anzi chi ignori come nessun popolo mai dalla penuria e dall’indigenza sia arrivato a una migliore o più alta fortuna, se non mediante un grande lavoro compiuto insieme da tutti quelli del paese, tanto da coloro che dirigono, quanto da coloro che eseguiscono. Ma non meno chiaro apparisce che quei sommi sforzi sarebbero riusciti del tutto inutili, anzi non sarebbe stato neppure possibile il tentarli, se Dio Creatore di tutti non avesse prima largito, per sua bontà, le ricchezze e il capitale naturale, i sussidi e le forze della natura. Che cosa è infatti lavorare se non adoperare ed esercitare le forze dell’animo e del corpo, circa queste cose e con queste cose medesime? Richiede poi la legge di natura e la volontà di Dio, dopo la promulgazione di questa legge, che si osservi il retto ordine nell’applicare agli usi umani il capitale naturale; e tale ordine consiste in ciò, che ogni cosa abbia il suo padrone.

54. Di qui avviene che, tolto il caso che altri lavorino intorno al proprio capitale, tanto l’opera altrui quanto l’altrui capitale debbono associarsi in un comune consorzio, perché l’uno senza l’altro non valgono a produrre nulla. Il che fu bene osservato da Leone XIII, quando scrisse: "Non può sussistere capitale senza lavoro, né lavoro senza capitale" (RN n. 16). Per cui è del tutto falso ascrivere o al solo capitale o al solo lavoro ciò che si ottiene con l’opera unita dell’uno e dell’altro; ed è affatto ingiusto che l’uno arroghi a sé quel che si fa, negando l’efficacia dell’altro.

a) Ingiuste rivendicazioni del capitale

55. Per lungo tempo certamente il capitale troppo aggiudicò a se stesso. Quanto veniva prodotto e i frutti che se ne ricavavano, ogni cosa il capitale prendeva per sé, lasciando appena all’operaio tanto che bastasse a ristorare le forze e a riprodurre. Giacché andavano dicendo che per una legge economica affatto ineluttabile, tutta la somma del capitale apparteneva ai ricchi, e per la stessa legge gli operai dovevano rimanere in perpetuo nella condizione di proletari, costretti cioè a un tenore di vita precario e meschino. È bensì vero che con questi principi dei liberali, che volgarmente si denominano di Manchester, l’azione pratica non si accordava né sempre né dappertutto; pure non si può negare che gli istituti economico-sociali avevano mostrato di piegare verso quei principi con vero e costante sforzo. Ora, che queste false opinioni, questi fallaci supposti siano stati fortemente combattuti, e non da coloro solo che per essi venivano privati del naturale diritto di procurarsi una migliore condizione di vita, nessuno vi sarà che se ne meravigli.

b) Ingiuste rivendicazioni del lavoro

56. Perciò agli operai angariati, si accostarono i cosiddetti intellettuali, contrapponendo a una legge immaginaria un principio morale parimenti immaginario: che cioè quanto si produce e si percepisce di reddito, trattone quel tanto che basti a risarcire e riprodurre il capitale, si deve di diritto all’operaio. Questo errore, quanto è più lusinghevole di quello di vari socialisti, i quali affermano che tutto ciò che serve alla produzione si ha da trasfondere allo Stato, o come dicono da "socializzare", tanto è più pericoloso e più atto a ingannare gli incauti: blando veleno, che fu avidamente sorbito da molti, che un aperto socialismo non aveva mai potuto trarre in inganno.

c) Principio direttivo di giusta ripartizione

57. Certo, ad impedire che con queste false teorie non si chiudesse l’adito alla giustizia e alla pace tanto per il capitale quanto per il lavoro, avrebbero dovuto giovare le sapienti parole del Nostro Predecessore, che cioè "la terra, sebbene divisa tra i privati, resta nondimeno a servizio e utilità di tutti" (RN n. 7). E ciò stesso Noi pure abbiamo insegnato poc’anzi nel riaffermare che la spartizione dei beni in private proprietà è stabilita dalla natura stessa, affinché le cose create possano dare agli uomini tale comune utilità stabilmente e con ordine. Il che conviene tenere di continuo presente, se non si vuole uscire dal retto sentiero della verità.

58. Ora, non ogni distribuzione di beni e di ricchezze tra gli uomini è tale da ottenere il fine inteso da Dio o pienamente o con quella perfezione che si deve. Onde è necessario che le ricchezze le quali si amplificano di continuo grazie ai progressi economici e sociali, vengano attribuite ai singoli individui e alle classi in modo che resti salva quella comune utilità di tutti, lodata da Leone XIII, ovvero, per dirla con altre parole, perché si serbi integro il bene comune dell’intera società. Per questa legge di giustizia sociale non può una classe escludere l’altra dalla partecipazione degli utili. Che se perciò è violata questa legge dalla classe dei ricchi, quando spensierati nell’abbondanza dei loro beni stimano naturale quell’ordine di cose, che riesce tutto a loro favore e niente a favore dell’operaio, è non meno violata dalla classe proletaria, quando, aizzata per la violazione della giustizia e tutta intesa a rivendicare il suo solo diritto, di cui è conscia, esige tutto per sé, siccome prodotto dalle sue mani, e quindi combatte e vuole abolita la proprietà e i redditi o proventi non procacciati con il lavoro, di qualunque genere siano o di qualsiasi ufficio facciano le veci nell’umana convivenza e ciò non per altra ragione se non perché son tali.

59. E a questo proposito occorre osservare che fuori di argomento e bene a torto applicano alcuni le parole dell’Apostolo: "chi non vuole lavorare non mangi", (2Ts 3,10). perché la sentenza dell’Apostolo è proferita contro quelli che si astengono dal lavoro, quando potrebbero e dovrebbero lavorare, e ammonisce a usare alacremente del tempo e delle forze del corpo e dell’anima, né aggravare gli altri, quando da noi stessi ci possiamo provvedere; ma non insegna punto che il lavoro sia l’unico titolo per ricevere vitto e proventi (cf. 2Ts 3,8-10).

60. A ciascuno dunque si deve attribuire la sua parte di beni e bisogna procurare che la distribuzione dei beni creati, la quale ognuno vede quanto ora sia causa di disagio, per il grande squilibrio fra i pochi straricchi e gli innumerevoli indigenti, venga ricondotta alla conformità con le norme del bene comune e della giustizia sociale.




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