I.
Mal sopportava la palla di essere battuta e rotolata nel fango e di non potersi
fermare in nessun luogo; all'incudine invece dispiaceva di stare sempre ferma
sotto i colpi. Perciò trattarono con l'uomo, affinché egli, che in simili
faccende è come un dio capace di donare molteplici forme, mutasse l'incudine in
palla e la palla in incudine. "Questo cambio non si adatta a voi" -
disse l'uomo - "ma se siete d'accordo, farò dall'incudine marre, rastrelli
e zappe". Preferisco - disse quella - "conservare la dimensione e il
peso che ho; e a te, o palla, do questo consiglio: accontentati di tenere gli
uomini avvinti nel gioco e nell'ammirazione di te, saltando e volando".
II.
Il fiore del giglio, stravolto e pallido, allorché l'acqua di una vicina
sorgente straripando si avvicinò a lui, aveva smesso il suo antico orgoglio,
per salutare ogni più gonfio flutto che si accostava a lui; finché cadde sotto
il peso delle onde. Avrebbe certamente conservato la vita se non avesse
rinunciato alla sua dignità.
III.
L'erba saliunca, cresciuta in mezzo al torrente, era bramosa di trattenere
presso di sé tutte le pagliuzze, anche le più piccole, che trascinava la
corrente: fu sommersa dal mucchio che aveva accumulato.
IV.
La stella superba che voleva farsi ammirare fuori dalla sua costellazione, si
spense a metà del suo cammino quando scivolò più in basso separata dalle altre.
V.
Il cane che si accingeva a combattere con il toro, sperava di vincere, perché
l'avversario non aveva i denti di sopra. Ferito dalle corna del toro, "Non
l'avrei creduto", disse.
VI.
Il bue, sempre pronto a cozzare, quando gli vennero recise le corna, lanciò
siffatte villanie all'albero a cui era legato: "Io ti trascinerò supino
per le strade"; l'albero gli rispose: "Ma intanto sarai
amputato".
VII.
Piena di stupore l'officina aveva chiesto ai mantici da dove potessero far
uscire tanta aria. Risposero: "Se ne trova a sufficienza dove
prenderla".
VIII.
Il moscerino derideva il tarlo che si vantava di essere della famiglia delle
cicogne, poiché con il suo rostro divorava corrodendolo la scricchiolante
trave; sosteneva a sua volta di essere figlio di Fetonte, poiché volava per il
cielo.
IX.
L'orso, dopo aver spezzato i rami di un cespuglio, alle parole del tronco:
"Questo è dunque il ringraziamento che ricevo per il beneficio di averti
offerto del cibo e come ti comporterai con me per il resto dell'anno?",
rispose: "Ti lacererò e ti strapperò dalle radici".
X.
L'invidioso, occultando nel suo seno il fuoco che per primo aveva trovato,
desiderava tenerlo nascosto a tutti; ma il fuoco gli bruciò le vesti e rivelò
la sua presenza.
XI.
Il lombrico aveva chiesto al millepiedi di regalargli due piedi. L'altro disse:
"E tu regalami una delle tue due teste".
XII.
Il vanitoso, mal sopportando che la sua immagine non l'avesse salutato dallo
specchio, aveva dapprima cominciato ad accendersi d'ira, poi a farsi insolente;
poiché gli veniva rimandata una figura con gli stessi caratteri, colpì e spezzò
lo specchio. Ebbe a dolersi del suo gesto, giacché di uno si era fatto parecchi
derisori.
XIII.
Il naufrago aveva citato in tribunale l'Oceano, accusandolo di essere un
predone e lo aveva convinto della sua colpevolezza. "Vieni" - disse
l'Oceano - "non ti impedirò di recuperare le tue cose, quando
vorrai".
XIV.
Quando la castagna, mandato un gran sospiro, saltò in mezzo alla stanza, disse:
"Non potevo sopportare più tanti affanni".
XV.
I remi avevano un'aspra contesa con il timone e lo deridevano perchè era solo e
piccolo. Per questo il timone portò la nave contro uno scoglio e tutti remi di
una fiancata furono infranti e distrutti.
XVI.
Il sole, passando attraverso un calice di vetro pieno d'acqua, aveva disegnato
sull'ara l'arcobaleno: l'acqua ascriveva ciò a sua gloria. Il calice invece
disse: "Se io fossi trasparente e terso, quello non ci sarebbe
nemmeno". A queste parole l'ara silenziosa si rallegrava tra sé e sé di
ospitare un onore così grande.
XVII.
Il vaso che, fin quando era stato pieno, era rimasto con la bocca chiusa e
silenziosa, ora, ritornando vuoto, con la bocca spalancata, imprecava contro
tutti quelli che si avvicinavano.
XVIII.
La zampogna coperta di polvere disse: "Noi poeti non cantiamo se siamo
sazi".
XIX.
Il libro, in cui era stata scritta tutta l'arte libraria, chiedeva aiuto per
non essere divorato dal topo. Il topo sghignazzò.
XX.
Il cane da caccia legato alla catena, quando vide gli altri cani inutili vagare
sciolti e giocare, disse: "È così utile l'inerzia?".
XXI.
I candelabri d'oro, adorni di gemme preziosissime, non capivano perché mai una
statua di legno marcio fino a quel giorno spregiata, venisse innalzata al di
sopra di essi. Rispose la statua: "Rappresentiamo la figura di un
dio".
XXII.
L'imperatore aveva posto nel tempio con i più solenni onori la freccia, sotto i
cui colpi era caduto il re dei nemici. Si lamentò l'arco, perché egli, pur
essendo stato l'artefice principale dell'impresa, era tenuto in disparte senza
gloria.
XXIII.
Il verme rosicchiava la noce in cui era nato. "O veramente ingrato ed
empio!" - disse la noce - "non cessi di recare danno a me che ho
posto le condizioni del tuo esistere?". Rispose il verme: "Se tu mi
hai generato per farmi morire di fame, hai agito ingiustamente".
XXIV.
Nel tempio delle vestali l'olio si lamentava di non essere stato mai
ringraziato dal fuoco, che aveva alimentato per tanti anni con suo grande
pericolo. Il fuoco disse: "Sia per te un premio morire nel tempio
piuttosto che nella taverna".
XXV.
Uno zoppo si fece tagliare il piede dal lato più lungo, per poter camminare in
equilibrio. Quando gli fu tagliato, carponi si lamentava di essere diventato
del tutto inutile a camminare.
XXVI.
L'ombra dell'uomo, per diventare più grande, desiderava il tramonto del sole.
Quando comprese di dover morire assieme al sole, invano bramò che il sole si
mostrasse nel più alto punto del cielo.
XXVII.
Quando il contadino osservò lo spinoso, irto e intoccabile asparago, che aveva
visto da piccolo mite e tenero, e se ne stupì, l'asparago disse: "In
verità son riuscito simile ai miei antenati".
XXVIII.
La fuliggine e la cenere, mentre il fumo se ne andava, dissero: "Ebbene,
fratello, ci lascerai nella nostra infelicità!". Il fumo disse loro:
"Che rapporto c'è tra me e voi? Voi sonnecchiate lente inerti, mostrando
così diversa natura; io salgo verso il cielo".
XXIX.
Il vaso di Samo, che era stato gettato in un angolo, guardando dal pavimento i
tavoli d'oro e d'argento, disse: "Non raramente sono stato vostro
compagno". Quelli risposero: "E certamente lo sarai, se porterai il
rodio e il falerno".
XXX.
Cipreste, inventore dell'orologio, rimproverò un dente della ruota e gli chiese
perché si era incastrato così ostinatamente rallentando il cammino di tutto lo
strumento; quello rispose: "Affinché il peso morto del perpendicolo non
rivendichi per sé la gloria di così alta opera".
XXXI.
Quando senza danno il marinaio ritornò nel porto carico di grandi ricchezze,
decise di dedicare a Nettuno un ex-voto in ringraziamento della felice
navigazione. Perciò da un lato l'albero della nave, dall'altro le ancore, da un
altro le gomene premevano per esser in quel modo onorate. Disse il marinaio:
"Conviene esporre il timone, perché costa di meno".
XXXII.
L'immagine effigiata da Zeusi diceva al compratore: "Un grande artista mi
ha fatto". Disse il compratore: "Ti acquisterò di sicuro quando sarai
plasmata con la creta e non con il fango".
XXXIII.
Il lenzuolo, a cui la mano aveva chiesto come mai prima, appena toccato,
versasse copiose lacrime e ora, sprizzato e sbattuto, non ne spargesse nessuna,
rispose: "Ero ricco di umore".
XXXIV.
Il nocciolo, a cui l'olivo aveva chiesto quando avrebbe dato i suoi frutti, dal
momento che fioriva con il freddo, rispose: "Quando sarà tempo".
XXXV.
Un asinaio disse: "Come mai, o asino, non ti avventi sugli altri asini
come sugli uomini?". "Quelli non hanno intenzione di battermi",
rispose.
XXXVI.
La tromba aveva chiesto alla dea Eco: "Dal momento che sei sempre audace,
perché non rispondi anche al tuono?". Disse la dea: "Quando Giove è
adirato si deve tacere".
XXXVII.
Il fungo disse: "Orbene, ginepro, sento dire che hai visto molti soli e
hai sempre le bacche acerbe. Quando matureranno?". "O
dolcissimo", - disse il ginepro -, "sono lento, perciò ti risponderò
fra quattro giorni".
XXXVIII.
L'ortica tenne questa conversazione con il papavero: "Quale ragione c'è
per cui, mentre ogni altro campo è verde e rigoglioso, tu solo, che pure sei
piantato nel luogo più propizio e hai ricevuto il dono di una magnifica corona
e di una cintura, sei così pallido di paura e stai chino per la tristezza? Una
simile vita sarebbe adatta a me che non ho gloria e sono detestata e costretta
a ritirarmi tra le macerie". "Io sono veramente infelice", disse
il papavero, "perchè sono connaturati alla mia condizione pericoli a voi
ignoti! Tu, poiché sei intrattabile e hai imparato a mordere tutti, vivi senza
difficoltà e ti difendi da sola da ogni calamità; io, invece, che pronto all'ossequio
ho facilmente imparato a piegarmi da qualsiasi lato, sono arrivato a tale
condizione, che ogni soffio, anche il più leggero, è una minaccia di
morte".
XXXIX.
La fanciulla, che aveva addentato una sorba, volle una spiegazione del suo modo
di essere: quando era infatti gradevole d'aspetto, era stata pessima di gusto;
ora invece che era tanto brutta, era diventata dolcissima. Quella rispose:
"Forse tu pensi che la bellezza si accordi facilmente con la maturità?".
XL.
Un mercante, mentre d'inverno tornava a casa, trovando sui roseti, che in
primavera avevano dato fiorendo tanta speranza di molti e ottimi frutti, solo
bacche stoppose e inutili, si addolorò e meravigliato del fatto che restavano
sgradevoli frutti di fiori tanto soavi, chiese perché era accaduto ciò.
Risposero i roseti: "Abbiamo speso tutte le nostre ricchezze nell'addobbo
dei fiori".
XLI.
Nella corona di Adriano il diamante e il carbonchio, le pietre più preziose,
rifiutarono di essere poste presso la perla, poiché la sua grandezza avrebbe
offuscato la loro bellezza. Ricevuto allora il permesso di essere posti nel
punto della corona da loro scelto, dopo averla ispezionata tutta, si
sistemarono tra le gemme più piccole e meno pregiate.
XLII.
Il cane ghiottone aveva divorato focacce calde e per questo, divenuto rabbioso,
mordeva l'acqua: "Ti stancherai", disse l'acqua, "se vuoi
gareggiare con me".
XLIII.
Il sale disse di non voler abitare nel medesimo luogo del ghiaccio, sebbene
essi fossero nati dalla stessa madre; e dichiarò che non avrebbe fornito
l'occasione per essere danneggiato dalla sua incostanza e mollezza.
XLIV.
La volpe, avendo invano supplicato con insistenti preghiere il laccio che la
teneva avvinta e strettamente legata, affinché la sciogliesse e la liberasse,
ruppe infine con i denti il laccio che, senza suo danno, le rifiutava quel
favore. Disse il laccio: "O me infelice, che spinto dalla mitezza del mio
animo, mi son fatto tanto pregare fino ad essere di necessità ingiusto e
spietato verso di me. La morte è il premio della mia condiscendenza".
XLV.
La cornacchia, che si era posata con le unghia sul dorso di un porco,
ispezionando tutti gli alberi attorno, gracchiava: "Dove porterò questa
preda?". La quercia le disse: "Se vuoi, da me; te la custodirò con
molto scrupolo". "Va bene", disse l'altra, "ma riflettevo
sul modo di poter sollevare con le mie forze questo immane peso". "Su
questo problema", disse il porco, "fatti consigliare da altri";
e, scacciato l'uccello, rise.
XLVI.
Lo sciocco aveva chiesto all'ambra gialla per dove il verme avesse trovato il
varco per entrare in essa. "Ma tu", disse la gemma, da dove hai preso
la sciocchezza che c'è in te?".
XLVII.
Nello stesso momento un fanciullo trascinava su un ponte un piccolo Mercurio
d'argento e otto uomini un Priapo di legno; mentre passavano, il ponte si
spezzò e Mercurio sprofondò nelle acque del fiume. Priapo invece galleggiava.
"Non è forse incredibile a vedersi", disse il sacerdote, "che
quel dio sulla terra così importante sia nell'acqua così insignificante!".
Rispose il fiume: "E tu, uomo, credi forse di essere lo stesso quando hai
copiosi beni di fortuna e quando, per così dire, sei all'asciutto?".
XLVIII.
Le ruote del carro di Nettuno presero ad amare perdutamente i suoi bellissimi
cerulei cavalli; e perciò gridavano: "Dove fuggite mentre noi vi
inseguiamo forsennatamente?". Dissero quelli: "Non fuggiamo, ma vi
trasciniamo".
XLIX.
La fanciulla aveva chiesto allo zolfo per quale ragione fosse tanto amico del
fuoco, che pure esulta quando lo zolfo si consuma. Il fuoco disse: "Non
rispondere, se prima la fanciulla non avrà spiegato il motivo per cui tratta
con tanta crudeltà e durezza colui che l'ama perdutamente".
L.
Le stoppe, prima trascurate, quando la nave fu tutta squarciata, vennero
ricercate; ma esse si nascondevano per vendicarsi e tra loro sussurravano che
non era giusto che, dopo aver dato un contributo così importante alla nave,
venissero sempre considerate ignobili e meschine tranne che nei momenti di
bisogno. Ma la più prudente di loro disse: "Se non portiamo il nostro
aiuto moriremo con tutta la nave".
LI.
La capra che era entrata nella bottega del barbiere, cercava di convincere il
gallo a lasciarsi radere la barba. "Provalo nel tagliare la tua",
disse il gallo, "che non c'è pericolo".
LII.
Disse l'oca: "Abbiamo piedi tanto grandi, per reggere una testa così
leggera". Allora dissero i piedi: "Non sai tu che quanto più la testa
è leggera tanto più è desiderabile avere i piedi fermi?".
LIII.
Quando l'ottone chiese di essere tenuto nello stesso conto dell'oro, il
gioielliere disse: "Sei tu capace di sopportare l'assalto del fuoco che
spesso subisce l'oro?". L'ottone disse: "Non mi importa tanto di
essere pregiato!".
LIV.
Il fanciullo, che non aveva potuto prendere tra le sue braccia i raggi del
sole, si affannava a chiuderli nelle palme della mano. Disse l'ombra:
"Smettila, sciocco; le cose divine non possono essere trattenute in alcun
modo nel carcere mortale".
LV.
Ai due cespugli che chiedevano alle acque del ruscello la destinazione del loro
veloce cammino, le acque risposero che si dirigevano in quei luoghi, dove
sarebbero diventate più grandi e più sapienti. Accesi dalla brama di quella
gloria, i due cespugli si erano gettati in mezzo alle onde; uno di essi trovò
impedimento nel corso accidentato del ruscello e, quando capì che doveva
liberarsi da tutti gli ostacoli, rimase fermo in quel luogo. L'altro, invece,
messe a nudo le radici, seguì il cammino delle onde; dopo aver patito molti
disagi, fu infine lasciato su un fertile suolo dove crebbe diventando un grande
e celebre bosco.
LVI.
"O perfido", disse il cacciatore, "tu che ancora poco fa
mostravi per tutto il cielo tanta misericordia e pietà per costei, e ti
meravigliavi dei cani, ora così in fretta hai lacerato e squarciato le viscere
della preda uccisa". "Io facevo in quel modo", disse lo
sparviero, " affinché essa si fidasse della mia lealtà e trovasse il
coraggio di volare tra i miei artigli".
LVII.
La scimmia, rovistando il carbone, disse: "Povero te; le messi, quando eri
tutto splendente nel bosco, ti temevano, a quel che sento dire; come sei ora
nero e torpido!". "Anzi", disse il carbone, "sono ormai
felice; infatti quel flagello del fuoco mi avrebbe consumato del tutto, se non
me lo levavo d'attorno".
LVIII.
Il filosofo, quando vide il pane in mezzo al forno diventare sodo e vigoroso e
l'uovo presso la bocca del forno sudare e togliersi l'abito, disse:
"Quanto è diversa la vita condotta nell'operosità da quella condotta
nell'ozio! Questi che mai ha sopportato fatica suda al più piccolo calore e si
rompe; quello, invece, agitato fin dagli anni giovanili e provato dai colpi
della fortuna non si è mai intorpidito nell'ozio; infine, nel turbinare degli
eventi, acquista bellezza e grandezza".
LIX.
Durante l'inverno al fico nudo, coperto di neve e tutto pallido per il freddo,
disse l'ulivo suo vicino: "Non ti avevo predetto questo male, quando in
estate ti vantavi della tua veste tanto rigogliosa? Impara da me la
parsimonia".
LX.
"Volevo venire da voi", disse la farfalla, "ma ditemi: quale
pericolo vi minaccia, perchè io vi vedo tremare?". Il cespo di canne a cui
era stata rivolta la domanda rispose: "Tu, dunque, pensa quanto speriamo
di essere trattate bene, dal momento che questa che sorreggiamo, essendo priva
di senso, oscilla da ogni lato".
LXI.
I voti appesi ad una vecchia statua si lamentavano del fatto che, pur essendo
preferita agli altri idoli per merito loro, essa disprezzava nondimeno gli
amici più antichi e si protendeva ai voti sempre nuovi che arrivavano. Rispose
la statua: "Se vi annoia la mia amicizia, andate dove vi piace". I
voti indignati si buttarono giù e infrantisi al suolo caddero a pezzi.
LXII.
La freccia era caduta in una fontana e pendeva con la punta rivolta verso il
fondo. Dissero le ninfe: "È incredibile quanto leggero è il suo piede per
il piccolissimo peso della sua chioma di bronzo".
LXIII.
Il decurione aveva chiesto al vessillo perché si comportasse in questo modo:
quando si andava all'assalto del nemico, egli si ritirava fuggendo per la
paura; quando l'esercito si ritirava, allora applaudiva il nemico. "Ti
sbagli", disse il vessillo, "non sono né pauroso né traditore, ma mi
piace il partito dei vincitori".
LXIV.
La cagnolina raffinata che era abituata a non mettere niente in bocca se prima
non l'aveva odorato dieci volte, mentre gli altri cani afferravano, appena
cadeva, qualsiasi osso, costretta alla fame, imparò a prendere in aria il pane
nero e secco, quando veniva gettato.
LXV.
La scintilla, poiché era agile e lucente, pensava di diventare una stella, ma
venne meno.
LXVI.
La nave, quando fu trasportato a Roma un grandissimo obelisco, avendo sentito
dire che le navi di Enea, appena salpate dal porto, si erano mutate in dee del
mare, con questa speranza andò a morire in alto mare.
LXVII.
Quando il pavone vide in un prato l'asino, l'agnella, la capra, il maiale e il
cavallo che pascolavano insieme e nello stesso prato due tori innamorati
cozzare tra loro con le corna disse: "È incredibile: questi che
appartengono alla stessa famiglia si scontrano con tanto accanimento, quelli di
lingua e costumi diversi vivono così affiatati tra loro!". I Fauni
risposero: "Non ti ricordi che è diffusa opinione che dall'amore derivano
ai mortali l'amicizia e l'inimicizia, ed anche dalla lotta per il cibo?".
LXVIII.
Prassitele, avendo invano chiesto alla statua di Venere, che lo guardava senza
ritegno, prima con molte parole persuasive, esortazioni, preghiere e infine con
ingiurie e minacce, di correggere il difetto del suo sguardo, finalmente pensò
che questo si potesse eliminare con il ferro.
LXIX.
Il corvo loquace abitava la bottega del banchiere e per questo motivo la
bottega era chiamata "del corvo". Un contadino assai astuto, avendo
dato al corvo molte leccornie in regalo, gli chiese in nome dell'intrapresa
amicizia di portare qualcosa per la dote di sua figlia. "Verrei incontro
assai volentieri al tuo bisogno", disse il corvo, "ma di tutte le
cose che si trovano nella bottega niente, eccetto il nome, mi appartiene".
LXX.
La zanzara che stava per azzuffarsi con la chiocciola, dopo aver provato il
pungiglione sulla durissima corazza di quella e dopo aver sentito che l'altra
poteva tirare fuori due dardi, aveva paura a scendere in conflitto. Ma la
chiocciola, udendo la voce reboante di costei, stava chiusa nei suoi
accampamenti. Risero i satiri.
LXXI.
L'amante desiderava ardentemente (e lo chiedeva con insistenti preghiere) di
avere nella sua corona uno dei ramoscelli di alloro che ornavano le porte del
tempio. Quelli sostennero di non essere destinati a rendere omaggio ai mortali;
l'indomani, quando raccolti in un fascio vennero umiliati a spazzare il
pavimento, si pentirono della meschinità del giorno precedente.
LXXII.
La volpe, avendo visto la punta della coda di un leone, nascosto dietro un
albero per tenderle insidie, pur avendo il dubbio che fosse il bue, scappò
ugualmente via a gambe levate e disse: "Preferisco che gli amici si
prendano gioco della mia debolezza, piuttosto che piangano sulla mia
sciagura".
LXXIII.
L'usignolo aveva detto allo stridulo merlo: "O taci oppure canta qualcosa
di melodioso". Quello rispose: "Sei proprio uno stolto ad esprimerti
sempre con arte sentita; nel nostro tempo vige infatti questo costume: non chi
sa, ma chi sembra sapere viene considerato un gran talento".
LXXIV.
Il pavone in punto di morte, pubblicato il testamento, lasciò la coda per il
cimiero di un soldato; i pulcini si lamentavano perché non aveva lasciato ad
essi così gran tesoro. Disse il padre: "Dal momento che siete miei figli,
non vi mancherà un simile tesoro".
LXXV.
Un tale chiese ad un re che aveva visto dipinto su un'insegna di concedergli, poiché
dei re è la munificenza, la veste d'oro di cui era ricoperto. La pittura disse:
"Se mi toglierai questa veste, non esisterò più".
LXXVI.
L'arco chiedeva alla corda di evitare le reciproche molestie, o diventando più
lunga o rompendosi. Questa invece gli chiedeva di diventare più corto oppure di
spezzarsi. Infine, giacché la condizione sembrava inaccettabile ad entrambi, la
corda disse: "Dunque difenderemo il nostro diritto, tu con la forza, io
con il nervo".
LXXVII.
L'albero, che quell'anno non aveva prodotto frutti, ottenne di non essere
tagliato dal contadino, così come egli aveva deciso, avendo promesso per l'anno
successivo copioso raccolto. Quindi fra sé disse: "Ecco quanto è
importante la pratica della generosità: non è possibile dire di no, senza
correre un grandissimo pericolo".
LXXVIII.
Il contadino disse al bue recalcitrante: "Io ti percuoterò con questo
mattone di terracotta". Il bue, memore del fatto che esso era alquanto
molle (aveva infatti arato la terra da cui proveniva), pensava che il colpo
sarebbe stato leggero; infine, quando fu battuto, capì che il mattone era
diventato con il fuoco molto duro".
LXXIX.
Il fuco lanciava insistenti invettive contro il re delle api: "Quello
inoperoso impigrisce nei piaceri; io passo il mio tempo a percorrere terre e a
spremermi le meningi; tuttavia le api preferiscono essere serve di quel
pigro". Queste risposero: "Tu sembri operoso perché sei povero, ma
nell'ozio saresti apatico e senza freno nel governare; il nostro re,
provvedendo ai suoi, preferisce essere buono in casa, piuttosto che sembrare
fuori vanaglorioso".
LXXX.
Vulcano, rinchiuso nella lanterna, amica di Plauto il poeta comico, disse a
costei: "Tu offuschi il mio splendore". Rispose la lanterna:
"Quando io ti salvo dalla violenza del vento e dal pericolo di vita, ti
conviene ricordare il detto: non si può evitare un danno senza un danno".
LXXXI.
Il coniglio disse: "Orbene, lepre, passi il tuo tempo ad oziare e
sonnecchiare; vuoi fare intendere che sei meditabonda?". Disse la lepre:
"Non è forse un non far niente il tuo continuo lavorare?". L'altro
rispose: "Entrambi seguiamo il nostro istinto quando non vogliamo sembrare
oziosi. A te sarebbe oltremodo faticoso quel che faccio io, a me quel che fai
tu".
LXXXII.
Lo scoglio, che si innalzava superbo sopra le basse onde, all'arrivo di onde
più alte si nascondeva: a chi gli chiedeva la ragione del suo comportamento
rispose: "È sciocco voler sembrare pari a chi è maggiore".
LXXXIII.
Il pesce desiderava ardentemente salire sull'albero e spinto da questo
desiderio saltava sulla superficie della fontana verso le immagini riflesse
degli alberi; allora le immagini sparivano."Sei a tal segno stolto",
dissero gli alberi, "che anche gli alberi finti ti evitano".
LXXXIV.
Una gran catasta di legna si rivoltava nel torrente cresciuto per le piogge. In
mezzo ad essa c'era un albero più grande degli altri, a cui si erano attaccati
molti arboscelli; e questi era costretto a restare fermo in un luogo
sfavorevole e a sostenere da solo tutto l'impeto dell'acqua che montava:
"Che gran danno", disse "è la grandezza!". Gli arboscelli
risposero: "Tu che hai intercettato per molte ore con la tua ombra il sole
dorato, devi accettare con serenità che riposiamo un poco in te nei momenti di
emergenza".
LXXXV.
Il bue era trascinato in su per le corna su una nave da carico. Quando i suoi
piedi calcavano la terra, egli faceva voti affinché si spezzasse la fune con
cui era legato; quando invece era sospeso nell'aria, faceva voti affinché non
si spezzasse: "Ecco" - disse la fune - "come costui, a seconda
del suo interesse, desidera la mia vita e la mia morte".
LXXXVI.
Il fanciullo voleva uccidere la tartaruga e la scagliava contro la parete.
Disse una vecchierella: "O figlio, se vorrai, la ucciderai con quella
paglia. Quando si muoverà, percuoti i suoi occhi con la paglia; quella si
nasconderà e in questo modo morirà di fame". "Sia questo il tuo
compito", disse il fanciullo.
LXXXVII.
Il fango immondo aveva desiderato la grandezza del colosso e l'aspetto di Bacco
e aveva ottenuto dall'uomo quasi tutti questi favori; e tuttavia non era stato
mai pregiato. "Certo", disse, "dobbiamo nettarci dalle
sozzure".
LXXXVIII.
Il lago, quando le nubi si alzarono dai monti nel cielo e si fecero sopra di
lui, credendo che fossero montagne, era diventato pallido per la grandissima
paura che cadessero nel suo seno. Infine quando le nubi si trasformarono in
pioggia e per questo il lago si gonfiò, egli disse: "Quanto ero sciocco ad
avere tanto temuto ciò che mi avrebbe tanto giovato".
LXXXIX.
Il fabbro, il nettalatrine e il mugnaio, mentre camminavano attraverso il foro
in mezzo ai signori, venivano derisi. Uno di questi disse allora: "Perché
mai tutti ridono?". Rispose il fabbro: "Perché sei sporco".
"E infatti", disse il nettalatrine, "siamo tutti sporchi".
"È di certo come tu dici", disse allora il mugnaio, "ma tu sei
sporco e anche molto puzzolente".
XC.
Quando baciò il piede della statua di Minerva posta su un alto monte un uomo di
gracile costituzione che era salito con un passo veloce ma moderato e che non
era né trafelato né sudato, ricevette le congratulazioni dei sacerdoti. Si dice
che la dea abbia dichiarato che nella salita gli zoppi e i deboli sono più
numerosi degli aitanti.
XCI.
La lettera, che aveva recato molte notizie assai attese, ma in un passo era
stata cancellata, fu per questo lacerata dall'irato destinatario. Disse la
lettera: "O malvagia natura degli uomini: infliggono di solito grandi pene
per un solo errore e non fanno nessun ringraziamento per i molti benefici
ricevuti".
XCII.
A Priapo custode dell'orto che chiedeva un dono il padrone rispose: "Mi meraviglio
che tu non abbia saputo approfittare delle ricchezze che hai in
sovrabbondanza". "E infatti", disse Priapo "volevo vestiti
e toghe". "Forse tu", disse il padrone, "ignori come siano
stolti coloro che coi loro doni si sobbarcano a grandi spese, senza arrecare
nessun vantaggio a chi riceve il dono".
XCIII.
Quando un leone si accorse che ad un suo simile si era schiusa la porta del
cielo, acceso dal desiderio di gloria, compiva ogni sorta di prodezze per avere
facile primato su tutti i leoni. "Che sciocchezza fai?", disse
l'invidia, "Il posto che spettava ad un esponente della tua specie di
animali è stato già assegnato a chi ne era meritevole". Rispose il leone:
"Mi basterà averne acquisito il merito".
XCIV.
Il grillo, la rana e simili animali, che o vanno saltando o stanno fermi e
distesi per terra, pensavano che il serpente non fosse capace di muoversi. Ma
avendolo visto strisciare verso un'altura con incredibile velocità, ammirandone
l'agilità, dissero: "O dei, veramente valutiamo l'attitudine e l'indole
degli altri in conformità ai nostri sensi e alle nostre forze!".
XCV.
L'asinello diventava di giorno in giorno, man mano che cresceva con gli anni,
più lento e intrattabile. Il padre disse: "Come ha deluso le mie
aspettative. Infatti, quando era piccolo ed era più villoso del leoncino e
sembrava che avesse un torace più largo e una maggiore abilità nella corsa, ho
sperato che sarebbe diventato il principe dei quadrupedi". "Non
meravigliarti, o padre", disse l'asinello, "dicono che agli esponenti
della nostra famiglia accada sempre che da piccoli promettano molto, e che,
quando diventano grandi, siano i più deboli di tutti gli animali".
XCVI.
Il leone a cui era stato chiesto perché avesse così grande paura, quando gli
gettavano addosso una coperta, disse: "E chi non proverebbe orrore vedendo
librato nel cielo questo mostro che non ha né testa né petto".
XCVII.
Il celeberrimo leone amico dell'uomo era condotto per la cavezza attraverso le
taverne di Roma dal servo che era stato suo ospite. A chi gli chiedeva perché
si comportasse in quel modo e accondiscendesse a servire, egli che nell'arena
aveva superato Pegaso nella corsa, i leopardi nel salto, i tori per la forza,
gli uomini per l'umanità e che pure tra i leoni non era secondo a nessuno per
bellezza e dignità, rispose che occorreva lo stesso animo per aiutare gli amici
e infischiarsene di chi abbaia.
XCVIII.
La famosa lepre, di cui parla il poeta Marziale, andata a finire nella bocca
del leone, guardando da lontano i cani che latravano e che l'avevano
accanitamente rincorsa, disse: "Ecco la gran differenza di essermi
affidata a costui!".
XCIX.
Il teatro era preso da non piccola ammirazione nell'osservare un leone che era
stato ammaestrato ora a lanciare assai bene un disco nell'aria, ora a rotolare
a gran forza un enorme globo di marmo, ora a giocare con molta grazia con un
uovo. L'invidioso disse: "Sono prove di nessun valore e, pur sembrando
diverse, sono la stessa cosa. Ciascuna di esse consiste nel rotolare
qualcosa". Rispose il leone: "Lo ammetto, gran sapiente, è proprio
come tu dici; ma non voglio che tu ignori, caro mio, che questo oggetto fragile
che io rotolo è un uovo, non una palla".
C.
L'invidioso aveva detto al pavone: "O sciocco, ti sei posto in testa da te
stesso la corona?". Rispose il pavone: "Non hai considerato che ho
preso pure una collana variopinta?". Risero le ninfe.
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