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Leon Battista Alberti
Apologi ed elogi

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  • Intercenali. Libro decimo.
    • Proemio.
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Intercenali. Libro decimo.

 

 

Proemio.

 

Micrologo, uomo di umile condizione, non avendo trovato nessuna compagnia, viaggiava da solo dall'Arcadia agli egizi gimnosofisti con l'intenzione di apprendere la virtù. Per caso entrò in una selva oscura e impraticabile e mentre nel suo cammino si soffermava a raccogliere chiocciole forse per nutrirsi, si imbatté in Ercole (quello che poi per la sua virtù fu considerato un dio), il quale nella stessa selva inseguiva un leone. Dal suo atteggiamento e dai tratti del viso Micrologo cominciò a sospettare che quello non era indiano, ma piuttosto argivo. Pertanto disse: "Orbene, fratello, quale strada porta in città?". Benignamente Ercole accettò di essere chiamato fratello da un pezzente e con molta cortesia apprese della sua patria e dello scopo del suo viaggio e lo informò che il bosco era pieno di insidie. Gli disse perciò di dirigere i suoi passi verso i raggi del sole, dal momento che solo con grandissima difficoltà sarebbe riuscito a uscir fuori dalla selva. Infine confessò all'uomo, che non solo la lingua greca ma anche un identico amore per la virtù gli facevano apprezzare e in un certo senso considerare naturalmente affine, di dovere a Micrologo tutto il suo fraterno amore e tutto il suo rispetto.

Qual è il significato di questo racconto, o studiosi? Ve ne prego, amici, riflettete. Tutti noi che ci dedichiamo agli studi letterari aspiriamo, se non mi inganno, alla virtù e alla gloria attraverso la conoscenza delle buone arti; ma non tutti siamo dotati di tale forza da poter inseguire con sicurezza un leone. La natura, poi, non ha voluto elargire a tutti pari forze di ingegno; per questo si addicono e piacciono ad alcuni le cose grandi, ad altri le piccole. Non è allora un nostro difetto se, mentre gli studi letterari e il comune interesse alla virtù ci spingono ad essere uniti in un fraterno e sacro vincolo, in mezzo a così grandi difficoltà di realizzare i nostri disegni, abbiamo in noi tanta insolente superbia da credere che nessun altro può aspirare alla vera scienza? E nemmeno, per quanto ci compete, permettiamo che vengano aiutati senza nostro danno, in nome del nostro dovere e della clemenza propri degli studi letterari, coloro che sono come smarriti in una grande selva; ma anzi ostacoliamo quelli che, scorta una fiammella di lode e di fama, avanzano con la loro operosità verso la gloria della virtù, o smorzando il loro prestigio o deviandoli verso un cammino sbagliato. Se è infine gradito cimentarsi nella critica, ritengo che tutto il branco degli indotti sia argomento non trascurabile né poco adatto; e in questa critica è consentito eccedere con assoluta libertà e impunità di linguaggio, come se fosse stata dichiarata una guerra legittima, dal momento che non c'è tra padroni e servi, tra ricchi e poveri, tra potenti e deboli tanta inimicizia quanta, per naturale istinto, tra dotti e ignoranti. Ma non voglio essere più prolisso. O studiosi, se l'esercizio delle lettere e della virtù ha raffinato le vostre qualità morali, di questo solo vi supplico: non consentite che si discosti dalla pietà e dal diritto quel divino ingegno che Dio vi ha dato per ricercare e compiere le più alte imprese. Vi prego di non disprezzare noi più deboli che concepiamo pensieri più adatti ad ingegni tardi e mediocri. Se vi ho avuto tutti come fratelli, se non ho offeso nessuno e ho giovato a tutti quelli che ho potuto, adoperatevi ve ne prego, assieme a me affinché i posteri non abbiano la sensazione che questo nostro tempo, non privo di brillanti scrittori, sia pieno di invidia. Otterremo questo, se, deposte le nostre contese, ci ameremo l'un l'altro: fate ciò e siate felici.

 

 




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