Micrologo, uomo di umile condizione, non avendo trovato
nessuna compagnia, viaggiava da solo dall'Arcadia agli egizi gimnosofisti con
l'intenzione di apprendere la virtù. Per caso entrò in una selva oscura e
impraticabile e mentre nel suo cammino si soffermava a raccogliere chiocciole forse
per nutrirsi, si imbatté in Ercole (quello che poi per la sua virtù fu
considerato un dio), il quale nella stessa selva inseguiva un leone. Dal suo
atteggiamento e dai tratti del viso Micrologo cominciò a sospettare che quello
non era indiano, ma piuttosto argivo. Pertanto disse: "Orbene, fratello,
quale strada porta in città?". Benignamente Ercole accettò di essere
chiamato fratello da un pezzente e con molta cortesia apprese della sua patria
e dello scopo del suo viaggio e lo informò che il bosco era pieno di insidie.
Gli disse perciò di dirigere i suoi passi verso i raggi del sole, dal momento
che solo con grandissima difficoltà sarebbe riuscito a uscir fuori dalla selva.
Infine confessò all'uomo, che non solo la lingua greca ma anche un identico amore
per la virtù gli facevano apprezzare e in un certo senso considerare
naturalmente affine, di dovere a Micrologo tutto il suo fraterno amore e tutto
il suo rispetto.
Qual è il significato di questo racconto, o studiosi? Ve
ne prego, amici, riflettete. Tutti noi che ci dedichiamo agli studi letterari
aspiriamo, se non mi inganno, alla virtù e alla gloria attraverso la conoscenza
delle buone arti; ma non tutti siamo dotati di tale forza da poter inseguire
con sicurezza un leone. La natura, poi, non ha voluto elargire a tutti pari
forze di ingegno; per questo si addicono e piacciono ad alcuni le cose grandi,
ad altri le piccole. Non è allora un nostro difetto se, mentre gli studi
letterari e il comune interesse alla virtù ci spingono ad essere uniti in un fraterno
e sacro vincolo, in mezzo a così grandi difficoltà di realizzare i nostri
disegni, abbiamo in noi tanta insolente superbia da credere che nessun altro
può aspirare alla vera scienza? E nemmeno, per quanto ci compete, permettiamo
che vengano aiutati senza nostro danno, in nome del nostro dovere e della
clemenza propri degli studi letterari, coloro che sono come smarriti in una
grande selva; ma anzi ostacoliamo quelli che, scorta una fiammella di lode e di
fama, avanzano con la loro operosità verso la gloria della virtù, o smorzando
il loro prestigio o deviandoli verso un cammino sbagliato. Se è infine gradito
cimentarsi nella critica, ritengo che tutto il branco degli indotti sia
argomento non trascurabile né poco adatto; e in questa critica è consentito
eccedere con assoluta libertà e impunità di linguaggio, come se fosse stata
dichiarata una guerra legittima, dal momento che non c'è tra padroni e servi,
tra ricchi e poveri, tra potenti e deboli tanta inimicizia quanta, per naturale
istinto, tra dotti e ignoranti. Ma non voglio essere più prolisso. O studiosi,
se l'esercizio delle lettere e della virtù ha raffinato le vostre qualità
morali, di questo solo vi supplico: non consentite che si discosti dalla pietà
e dal diritto quel divino ingegno che Dio vi ha dato per ricercare e compiere
le più alte imprese. Vi prego di non disprezzare noi più deboli che concepiamo
pensieri più adatti ad ingegni tardi e mediocri. Se vi ho avuto tutti come
fratelli, se non ho offeso nessuno e ho giovato a tutti quelli che ho potuto,
adoperatevi ve ne prego, assieme a me affinché i posteri non abbiano la
sensazione che questo nostro tempo, non privo di brillanti scrittori, sia pieno
di invidia. Otterremo questo, se, deposte le nostre contese, ci ameremo l'un
l'altro: fate ciò e siate felici.
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