Quando gli alati di ogni specie si radunarono sul monte
Olimpo, per prendere comuni decisioni sulle pubbliche faccende, il gufo,
l'uccello più dotto nelle cose antiche, poiché per il comportamento e gli atti
era considerato filosofo (e in quel momento tutti lo guardavano con molta
attenzione), tenne un pubblico discorso, a mio giudizio, non privo di eleganza.
In esso, per esporvene come il sunto, diceva di ringraziare gli dei che gli
permettevano di vedere tanta folla desiderosa di ascoltare ciò che egli per
tutta la vita in molte veglie aveva ricercato per la comune utilità. Disse che
gli ascoltatori avrebbero capito facilmente che egli aveva scoperto il modo con
cui conservare, con mutuo vantaggio, l'amicizia perenne tra i diversi uccelli e
una onorevolissima pace. Ma per questo c'era innanzitutto bisogno di una legge,
con cui castigare i malvagi e gli ostinati e offrire ai buoni un modello di
vita onesta. Quindi discusse a lungo e con pertinenza della forza della legge e
riferì che questo è il principio fondamentale concordemente sostenuto da coloro
che si occupano di questi problemi. Il mondo, e tutto ciò che è al mondo, è
governato nel migliore dei modi dalle leggi di natura e, al contrario, non
esiste nessuna attività pubblica e privata, che possa durare a lungo senza
leggi. Perciò affermava che la legge è assolutamente necessaria. Né perciò si
doveva prestare ascolto agli eventuali facinorosi e insolenti oppositori di
questo principio, i quali, proprio perché pretendono di vivere senza il freno
di nessuna legge, ritengono questa difficile e gravosa. Agli onesti certamente
la legge è gradita.
Poi rivelò la sua proposta di legge: "Gli uccelli che
hanno artigli falcati e rostro adunco, tanto che non possono ruspare nella
terra e prendere il cibo, siano nutriti dagli altri uccelli". Egli più
volte li invitò a considerare con attenzione quanti vantaggi comportasse questa
legge. Giurò per i grandi dei che la legge era stata approvata da tutti gli onesti,
con cui aveva conferito prima di venire a proporla. E domandò se qualcuno
ignorava che non erano stati dati dalla natura uguali poteri e facoltà a tutti
i viventi. Dunque chi non è del tutto dissennato deve sopportare la sua sorte e
ricordarsi sempre che, col mutare degli obblighi, bisogna sottomettersi a ciò
che è inevitabile. Fece allora lunghi discorsi sulla liberalità; disse che
l'amicizia nasce dalla liberalità, che essa cresce con i benefici e che con la
generosità si acquista il favore dei cittadini e, infine, sotto la guida della
natura, le persone generose sono a tutti così gradite, che esse vengono amate
da conoscenti ed estranei e apertamente lodate. Infine proclamò che tutti
dovevano considerare empio e quasi contrario alle leggi della natura il rifiuto
di donare a chi è bisognoso quel che si ha in abbondanza. Il potere e il
comando non vengono esercitati da coloro che sono dotati di animo forte e
generoso per danneggiare qualcuno, ma per attirare a sé con benigna generosità
quanta più gente possibile. Perciò tutti devono assecondare il compito dei
governanti con la condiscendenza, così da doverne ricevere ringraziamenti, come
indubbiamente ringrazieranno coloro che riceveranno aiuti dai più generosi.
Prometteva di conseguenza solido e eterno legame di familiarità tra coloro che
hanno ricevuto e coloro che hanno fatto il beneficio e quindi, quando ciò
apparirà in tutta la sua evidenza, gli uni spingeranno con la continua
liberalità l'animo di molti a rafforzare la schietta amicizia, gli altri, ben
meritando di sé, saranno riconoscenti con l'animo pronto e memore. Non c'è uomo
saggio che, comprendendo il valore dell'amicizia, non si prodighi per non
sembrare ingrato a nessuno. Aggiungeva inoltre che non poco giova alla virtù
avere a disposizione quasi un rivale, con cui poter gareggiare nei doveri e
nella benevolenza e da cui con somma lode attendersi graditissimi frutti.
Perciò si dilungò sui vantaggi della legge, tanto che non
tralasciò nessun argomento per dimostrare che la legge era onesta, liberale,
utile e, infine, degna di approvazione. Tutta la plebaglia, soprattutto i corvi
e le cornacchie, cominciava ormai ad approvare apertamente; ma il pavone, le
anatre, la pernice e simili alati, splendenti di oro e di gemme, poiché erano
tronfi e boriosi, mal sopportavano questa cosa; e in particolare le anatre, gli
uccelli più ciarlieri, si impegnarono a sabotare la legge. Dopo aver imposto
silenzio agli altri, questa ciurmaglia cominciò a parlare, partendo dagli
antenati e da quelli che con la loro virtù e i loro meriti avevano lasciato
chiara fama di sé e ai posteri quiete e tranquillità e innalzò con grandissimi
elogi i detti e i fatti di costoro. Sostennero invece questi animali che erano
degni di biasimo coloro che tralasciavano le regole degli ottimi e saggi
antenati. Denunciarono che in questa famiglia gli scontenti dei costumi e delle
usanze patrie volevano introdurre nuove e non usuali frodi. Si apriva perciò ai
mestatori e ai sediziosi la via per promuovere rovinose iniziative, in modo da
portare a compimento, con il conforto della legge e il suffragio degli
ignoranti, quello che volevano realizzare con la forza delle armi. Bisognava
quindi stare attenti, per gli dei immortali a non perdere la libertà, di cui
nessuna cosa più dolce e più cara si può trovare nella natura, credendo di
conquistare la libertà. Chiesero infine quali nemici potessero essere tanto
rozzi e feroci che, per difendere la libertà, anche appartenendo alla plebe più
vile e umile, non proclamavano che bisognava resistere con le armi e con la
forza. Per questo era necessario stare all'erta, affinché quella libertà, che
era messa a repentaglio da un nemico forse armato, fortissimo e apertamente
ostile, non venisse distrutta quasi con l'inganno da gente volubile e scaltra
con le sue chiacchiere. Infine dissero che bisognava considerare quanto fosse
distante dalla libertà intraprendere un'attività, che malvolentieri si è
costretti a svolgere per mezzo di un editto. E affermarono che i popoli liberi
devono approvare solo le leggi, che a ciascuno conservano il suo e impediscono
le offese dei violenti; e finalmente che si devono del tutto eliminare, se ci
sono, quelle che ai tuoi figli sottraggono la ricchezza acquistata con il
sudore e i pericoli; a te la libertà concessa dagli dei; e a tutti l'operosità
maestra di una buona condotta di vita. Certo nessuno preferisce condurre una
vita inerte e misera, per accondiscendere e servire individui oziosi e volgari.
A questo punto non tralasciarono nessuna lode dell'operosità. Le ricchezze, sostegno
dello Stato, si accumulano con l'operosità; pochi operosi hanno portato spesso,
nei momenti di maggiore difficoltà, la ricchezza e la salvezza a tutto il
popolo. Uno Stato ben fondato e bene organizzato non tanto deve provare
riconoscenza grandissima verso gli operosi, quanto odio mortale verso gli
oziosi. Si devono scacciare e sterminare tutti gli oziosi, di modo che ricevano
il castigo per aver recato danno allo Stato e non contaminino gli altri con la
macchia dei loro cattivi costumi. Dopo di ciò elencarono accuratamente tutti i
delitti che nascono dall'ozio. E proseguirono nel loro discorso fino a mostrare
che la legge del gufo può piacere ai pigri e agli ignavi, ai malvagi e ai
perfidi. Questi, poiché non sanno procurarsi il vitto con la propria operosità,
fuggono; oppure, poiché non possono saziare, secondo il loro capriccio,
l'infinita brama del loro animo e le loro superbe voglie, si sforzano di
soddisfare sé medesimi con le fortune degli altri innocenti e con la rovina
della collettività. Perciò giurarono che una legge siffatta appariva
decisamente dannosa a tutti gli onesti. Se c'era tuttavia qualcuno così vile,
che con il suo servilismo preferiva sembrare dipendente dagli altri piuttosto
che desideroso della sua libertà, costui, se aveva deciso di poter essere così
prodigo delle sue cose e del suo favore da accettare una vergognosa condizione,
non imponesse agli altri con la sua impudenza la necessità di servire.
Sarebbe qui lungo riferire l'elenco di tutte le pericolose
discordie che, secondo loro, sarebbero sorte con il passare del tempo, se
avessero offerto non solo ai morti di fame, ma anche agli scioperati e ai
perditempo in genere, abbondante cibo; altri avrebbero poi osato avanzare
richieste più esose, se non difendevano la libertà contro gli oziosi e gli
arroganti. Con questa orazione avevano volto l'animo degli ascoltatori a
valutare il significato della libertà; tuttavia, poiché con la precedente
orazione il gufo si era imposto per la sua eloquenza, la folla esitava incerta
e oscillante. I notabili, che avevano osservato la disposizione d'animo della
folla muta, avvicinandosi a ciascuna specie di uccelli, con ogni argomentazione
sconsigliavano la legge e passeggiando tenevano questi discorsi: il gufo era
chiaramente pazzo, se, per mostrarsi filosofo e dar l'impressione di aver fatto
chissà quali scoperte, solo, in un gruppo di nobili cittadini, era andato a
tenere un'insensata declamazione e con voce roca aveva pronunciato un'orazione
vana, sciocchissima e inconcludente. Infatti, oltre ad aver mostrato l'estremo
della bruttezza con il suo viso pallido e gli occhi gravi, non aveva presentato
nessun argomento adatto a un filosofo, né nel suo modo di comportarsi si
riscontravano atteggiamenti analoghi a quelli dei filosofi, tranne il fatto che
si compiaceva di vivere in dura solitudine nei teatri deserti e nella triste
ombra. Nella musica, poi, il cui apprendimento lo faceva vegliare notti intere,
e nella quale sosteneva di essere valente, mostrava, come era possibile vedere,
un'assoluta incapacità. Esortavano allora a considerare i gesti tristi di
quell'uccello e ad osservarne il cipiglio, chiedendosi se egli avesse
consultato tutti insieme gli dei del cielo e dell'inferno quando aveva proposto
la legge".
Il gufo volgeva da tutti i lati le orecchie e gli occhi
per capire quel che si diceva qua e là sul suo conto e si stupiva che facessero
discorsi tanto stolti e discordanti. Gli uccelli, osservando il suo volto e i
suoi gesti, scoppiarono in una risata sonora e volarono tutti attorno alla bestia
per dileggiarla. Quando l'aquila, l'avvoltoio e gli uccelli di questo genere si
accorsero che l'assemblea si era risolta in una burla, si radunarono subito a
deliberare e, presa una decisione, stabilirono di mettersi in stato di guerra,
dal momento che non potevano restare in pace e sotto la legge. Da allora fino
ad oggi sono stati in perenne conflitto con i notabili.
Con quest'apologo vorrei far capire le analogie con i
sistemi politici: ci sono alcuni che è meglio mantenere con la condiscendenza
che con il pericolo di vita.
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