In un laghetto, che non era di solito frequentato da
nessun animale dannoso, moltissimi pesciolini e molte rane, animali dalle
abitudini diverse, vivevano insieme con un diletto che non si può facilmente
descrivere; e sia le rane che i pesciolini avevano infatti ereditato dai loro
antenati l'abitudine di mettere tutto in comune in quel luogo. Ogni giorno si
svolgeva lì questo tipo di spettacolo: i branchi di pesciolini si raggruppavano
danzando, le rane cantavano delle melodie saltellando. Tale era in sostanza il
loro modo di vivere che non c'era niente da aggiungere ai giochi, all'allegria,
alla gaiezza. Somma era innanzitutto la libertà, grandissima la pace, assenti
le discordie interne, assenti i sospetti tra i cittadini, assenti le invidie e
le contese con i vicini e gli stranieri; incredibile l'accordo degli animi e
delle volontà nelle cose pubbliche e private. In tale situazione, sia perché
questo è il comune destino delle cose umane (in quanto le creature mortali non
possono avere niente di perenne e di stabile), sia per l'innata mancanza di
misura di molti, che non possono accettare con equilibrio la fortuna propizia,
accadde che alcuni pesciolini bramosi di fama e di sembrare promotori di
importanti iniziative pubbliche, promulgarono queste legge: "Le rane
abitino la spiaggia e le parti superiori del lago: i pesciolini tengano le
parti inferiori".
Questa legge piacque a tutti, tranne che ai vecchi più
saggi; ma essi non si pronunciarono con sufficiente energia contro i promotori
della legge per disapprovarla. Questi ultimi, anzi, poichè alla moltitudine
sembrava che essi avessero trovato un ottimo sistema di vita, furono
pubblicamente lodati. Si riteneva che, grazie a questa disposizione, la regione
era stata ben divisa, dal momento che questa legge impediva alle rane di
sporcare le acque profonde rivoltando il limo e faceva obbligo ai pesciolini di
restare nelle loro caverne. Avendo pertanto obbedito alla legge per alcuni
giorni con grandissimo scrupolo ed essendo ognuno rimasto volentieri al proprio
posto, accadde quel che accadde. Nessuna disposizione, per quanto sacra, per
quanto egregia, viene introdotta nell'amministrazione dello Stato senza che
essa venga cancellata da nuove leggi e, quasi con disprezzo, ignorata dalla
massa insolente e bramosa di novità. La folla dei pesciolini, secondo le
antiche libere consuetudini, emergeva non raramente alla superficie e anche le
rane si introducevano nella zona dei pesciolini. La legge cominciò ogni giorno
di più ad essere rifiutata. Erano scontenti di questa situazione coloro che
erano stati i promotori della legge; ed erano sdegnati del fatto che la loro
autorità non meno dei pubblici regolamenti venisse trascurata e svuotata
d'importanza. Perciò con discorsi in pubblico e in privato cercarono di
convincere le masse che era molto bello sottoporsi a qualsiasi sacrificio per
far rispettare la legge. Riuscirono soprattutto a convincere i pesciolini, che
stavano in estasi davanti alla loro eloquenza e applaudivano con grande calore,
affinché, quando gli oratori mandavano un banditore, con il lancio di una
pietruzza nel lago, non ne ostacolassero il ritorno in sede. I pesciolini rispettavano
l'editto senza alcuno sgarro; ma le rane garrule e petulanti, per loro natura
insolenti, o perchè ritenevano molto più piacevole l'antica libertà e il modo
non coatto di vivere, o perchè sdegnavano l'antipatica prosopopea degli
oratori, non solo non rispettavano l'editto, ma anzi, quando era lanciata una
pietra, si dirigevano subito verso la parte bassa del lago e, accorrendo da
ogni lato, disturbavano le assemblee con grande schiamazzo e impedivano
l'ascolto della voce dell'oratore. Gli oratori proclamavano che veniva tradita
la repubblica e commesso un grave delitto, sostenendo che quella resistenza
alle leggi avrebbe provocato la rovina dello Stato. Le rane affermavano che
erano dei pazzi a non capire che a causa di questa legge erano stati introdotti
dei tiranni, mentre esse avevano compreso che era vergognoso obbedire al loro
sciocco editto: esse non odiavano ancora a tal punto la libertà da non ritenere
bello salvaguardare senza ulteriori regole l'antica indipendenza dei padri
anziché sottostare ad una legale servitù. Cosa aggiungere? Mentre da un lato
gli uni sono pronti, dall'altro le rane rifiutano di obbedire alla legge. Con
la forza delle loro parole gli oratori sollecitano con continui discorsi il
volubile stuolo dei pesciolini a considerare ora un delitto e un'offesa
gravissima per il rigore della legge quello che prima era consentito come
gaiezza e gioco. Da un lato e dall'altro si udivano perciò vari e gravi lamenti
e durissimi litigi. E la questione era arrivata, a causa delle passioni di
parte, alle armi e allo scontro frontale. I pesciolini a questo punto, poichè
capivano di essere inferiori per forza, decisero (avvenimento degno di essere
ricordato nelle lettere) di ricorrere all'inganno.
Non lontano da questo lago nidificava un grandissimo
serpente in una conca paludosa, dove i pesciolini avevano l'abitudine di
passare per sotterranei cunicoli. Gli araldi dei pesciolini andarono a chiamare
costui e parteciparono all'ambasceria gli stessi propugnatori e sostenitori
della legge. Il serpente, colpito dalla loro eloquenza, ritenne di non compiere
nessun gesto prima di recarsi con gli stessi messaggeri a ispezionare il luogo
e gli abitanti. Particolarmente lieti per il suo arrivo i pesciolini si
congratulavano tra loro. Ritenevano che sarebbe stata domata per sempre la
superbia delle rane, che vedevano scoraggiate per la paura del tiranno. Le
rane, appena capirono con non oscuri indizi la frode dei pesciolini e il loro
malvagio inganno, stabilirono di render la pariglia, chiamando la lontra,
animale ostilissimo ai pesciolini.
I vecchi ritenevano che era da cittadini folli preferire
di rivaleggiare nell'odio piuttosto che nell'amore e nel dovere e che non era
giusto, proprio perché detestavano la crudeltà, commettere degli atti che li
avrebbero fatti sembrare assai malvagi. Se ancora ragionavano, non dovevano
introdurre, non solo come vendicatore, ma nemmeno come arbitro delle lotte e
dei conflitti domestici un estraneo, al quale anche renitenti dovevano
obbedire. E disputavano sul modo più facile per tenere lontane dalla loro vita
creature di tale superbia e ingordigia, se per caso (e l'avrebbero fatto)
avessero cominciato a diventare moleste. Aggiungevano ancora che grande sarebbe
stato il danno e di certo degno di biasimo, se le private offese dei malvagi
cittadini avessero messo in pericolo la patria e se avessero subito delle
offese tali da dover anch'essi piangere nelle disgrazie degli avversari. E
infine chiedevano come avrebbero potuto pregare gli dei, dal momento che essi
si rallegravano delle disgrazie dei concittadini e della propria vergogna.
Supplicavano infine di astenersi dall'odio; e infatti preannunziavano che, a
causa delle disgrazie nate dall'odio, si sarebbe verificata la rovina della
patria e la catastrofe totale. Prevalse tuttavia il parere dei più astuti e di
coloro che erano convinti fosse meglio vendicare in qualunque modo le offese.
Perciò, senza aver riguardo per i vecchi, per mezzo di ambasciatori fecero
venire da terre remote la lontra. La belva, per sua natura feroce e quasi
sfinita dalla fame, appena si accorse di essere arrivata in un paese molto
ricco, ringraziò gli dei per averla colmata in maniera inattesa di tanti doni,
si recò dal serpente e con lui divise il potere e stabilì questa legge:
"Il serpente governi sulle rane, la lontra sui pesciolini". Una volta
sancita la legge, i crudeli sovrani dalle maledette fauci, imperversarono con
intollerabile arroganza e odiosa violenza sugli individui di ciascuno dei due
gruppi. Cittadini onesti e coraggiosi per un motivo ignoto venivano sgozzati.
Nessuno aveva un bene che a lungo poteva considerare come suo. Erano infine
afflitti da tanti mali, che erano costretti a piangere sia le loro disgrazie
che quelle dei concittadini rivali. Immersi in tanti mali non erano allietati
dalla speranza di una migliore fortuna; e ogni giorno di più i tiranni
spadroneggiavano e diventavano crudeli.
Gli infelici non sapevano a chi rivolgersi, tranne che a
quei vecchi, i quali spiccavano ai loro occhi per saggezza e prudenza. E ormai
ognuno era disposto a sopportare qualsiasi cosa dagli altri, pur di non
assistere allo spaventoso annientamento dei migliori cittadini e delle famiglie
più cospicue. Ma i vecchi, che non erano stati ascoltati quando erano stati
consultati in tempi di prosperità (anche i vecchi dissennati, nello
sconvolgimento generale, erano circondati da un fitto stuolo di gente che
supplicava, compresi i dignitosi e gli intrepidi) bisbigliavano esitanti che
essi erano vissuti abbastanza per la vita e per la gloria e che non potevano
fornire soccorso nelle avversità, dopo essere stati ignorati nella buona sorte.
Perciò rimandarono la folla da quei furbi, ad opera dei quali erano stati
disattesi i loro ottimi consigli. Infine, sollecitati dai figli e dalle mogli e
richiesti con grandi preghiere di aiuto e di perdono, i vecchi si convinsero di
non rifiutare la loro collaborazione alla patria in pericolo e in difficoltà,
se quella massa indocile li ascoltava e obbediva alle loro parole. La folla
giurò che avrebbe sempre rispettato questi padri come divinità, poiché capiva
che essi avevano saggezza e capacità di prevedere il corso degli eventi futuri;
sempre perciò li avrebbe seguiti con devozione e rispetto e mai avrebbe
infranto i loro comandamenti.
I vecchi furono soddisfatti; preoccupati quindi per la
situazione presente, pretesero innanzitutto di riavere il favore e la
benevolenza di una volta. Era questo il solo modo per poter recuperare e
conservare la salvezza e l'incolumità della patria. La concordia dei cittadini
era il mezzo più adatto per scacciare e abbattere ogni tirannide. Discussero a
lungo su questa proposta e li esortarono a stringere patti di amicizia. E
tutti, dal momento che l'acerbità della fortuna li aveva resi umili e miti,
obbedirono. Pertanto, deposti gli odi, poiché la faccenda non si poteva in
nessun modo risolvere con la violenza, cercarono di allontanare dalla loro vita
tiranni tanto crudeli con l'intelligenza e la ragione. Alcuni capi dei
pesciolini, che erano molto abili nell'eloquenza, colta l'occasione in cui la
lontra era di animo più conciliante, le rivolsero questo discorso:
"Rendiamo grazie agli dei e soprattutto a te, giustissimo principe, e
doverosamente ci congratuliamo con la tua virtù e con la nostra fortuna, dacché
nel nostro stato abbiamo ottenuto che venisse arginata l'antica insolenza della
plebe e l'illimitata libertà di creare disordini grazie a te, che vi hai messo
un freno. Infatti noi credevamo che quell'arroganza, della quale, per eccesso
di libertà, si vantava la plebaglia dei pesciolini, sarebbe giustamente
diventata odiosa agli dei; e nessuno era tanto stolto da non capire che la loro
incostante natura, facilmente incline al piacere, avrebbe arrecato danno alla
patria. Tu, o santo principe, hai evitato la disgrazia che stava per abbattersi
su questa gente. E hai pensato che non facessero parte dello stato quei
cittadini che passavano tutto il giorno tra gli scherzi e le frivolezze; e hai
santamente introdotto la parsimonia, punendo i prodighi e i superbi, e la
modestia, castigando i più ignavi. Per questo motivo, avendo tu dato alla
repubblica l'incolumità e l'esempio, mai, per gli obblighi di gratitudine verso
di te e per il nostro bene, cesseremo di pregare gli dei, affinché resti quanto
più possibile duraturo e solido il tuo potere su di noi, che le tue leggi hanno
reso più civili. E infatti se tutti esprimono la convinzione che tu sei il
migliore dei principi possibili e che la salvezza dei sudditi è tutta nelle tue
mani, avviene talvolta che ci permettiamo di pensare al benessere dei pesciolini.
Riteniamo che questo può arrecare lode e vantaggio. Se il serpente, che,
conscio del tuo potere (che abbiate il bene e la fortuna), non si facesse
superare in giustizia e umanità da te, che invece non vuole superiore a sé per
potere, prestigio e forza, certo, a nostro giudizio, non si potrebbe aggiungere
niente alla felicità di questa nostra provincia. Se è infatti felice quello
stato retto da leggi ottime e stabili e da miti costituzioni, molto più felice
è quello in cui l'umanità la mitezza e la benignità dei governanti vengono
temperate da una certa severità. Quando si verificano, o ottimo principe,
situazioni diverse e, se ben ti conosciamo, contrarie alla tua volontà; quando
le ottime leggi vengono violate da coloro che debbono tutelare il diritto;
quando chi per primo dovrebbe praticare la pietà, è meno devoto del lecito; o
nostro re, ti preghiamo di ascoltare con clemenza le parole che, pur
malvolentieri, ti rivolgiamo. Non è giusto che un re solerte e vigile, che le
genti tutte vantano con ammirazione come unico, ignori un solo particolare di
quello che accade ai suoi sudditi. Abbiamo ritenuto quindi doveroso farlo, dal
momento che noi stessi ci siamo messi nelle tue mani. Questi sono i nostri
problemi: accade che nel tuo regno (che gli dei colmino di bene), che le norme
fissate dalla sorte e dalle leggi (direi sotto la tua pace, con la tua mite
pazienza), o principe benignissimo, per l'altrui, per così dire, sconsiderata
libertà, vengono trasgredite ingiustamente e, se non ci inganniamo, empiamente.
E non vorremmo (gli dei ci sono testimoni) rendere, ammesso che lo possiamo,
qualcuno impopolare o infine, fra tante disgrazie, passar sotto silenzio
l'iniqua sorte comune senza piangere e senza che ci sia possibile levare una
protesta presso di te, mitissimo principe. Né ci è ignoto che si devono
accettare, come si dice, con pazienza le iniziative dei principi verso gli
infimi e deboli sudditi e con la sopportazione far intendere che abbiamo
appreso ad obbedire ai superiori. Ma, per quanto desiderosi di obbedire senza
riserve, siamo costretti a lamentarci, non comprendendo i motivi del nostro
destino, o quando questo serpente cerca di acchiapparci mentre fuggiamo, o
perché capisce che il tuo regno non vacilla in nessun modo. O sciagura! non
posso trattenere le lacrime: da quando il serpente è salito al potere non c'è
un sol giorno senza crudeltà. O cosa indegna, contraria agli ordinamenti degli
antenati e alle leggi del santo potere: le rane vengono tormentate dal loro
principe, oppresse, massacrate. Non hanno alcun valore per un principe adirato
le preghiere e le lacrime degli afflitti; alle infelici rane non viene lasciato
nessun nascondiglio per trovare un po' di scampo alla strage, né nel proprio né
nell'altrui paese! Quello superbo, inesorabile, ardente d'ira e di furore le
insegue, con un volto, o buoni dei, terribile; sconvolge, perturba tutte le
cose pubbliche e private; ovunque il principe compie atroci misfatti; giungono
alle orecchie frequenti e raccapriccianti i gemiti dei cittadini più autorevoli
e dei moribondi. E ciò non senza nostra rovina. Infatti se qualche sostenitore
del tuo partito e di te dichiara che questi fatti sono contrari alla legge,
subito viene punito da quell'energumeno che giura di perseguitare con pari odio
anche te, o nostro principe, se in qualche cosa lo intralcerai. Atterriti da
questo spettacolo noi, sia per un senso di umanità sia anche calcolando i
nostri danni, come è giusto, siamo convinti di essere in pericolo e assieme
alle rane, nostre infelicissime concittadine, fuggiamo la vista di quel pazzo.
E quale aiuto e conforto possiamo portare a esse? Abbiamo qualche altra
risorsa? In tanti mali ci conforta soltanto che gli dei ci hanno dato un
rifugio in cui porre la nostra salvezza: sia per necessità, sia per la tua
benignità osiamo ricorrere a te, principe pietoso; e in nome dell'antica
consuetudine per cui siamo uniti alle rane in una patria comune, ti chiediamo
di voler salvare, come puoi, quelle innocenti da tante disgrazie e di
provvedere opportunamente ai nostri mali, sebbene noi siamo felici, se stai
bene tu, al quale non esitiamo ad affidare non solo la fortuna e il bene dei
tuoi sudditi, ma anche l'altrui. Ma pur tralasciando i nostri mali, che neppure
piccoli né rari riceviamo ogni giorno dal serpente, non pensiamo che si debba
trascurare questo particolare: il male si è allargato e diffuso più di quanto
si possa con pazienza e senza tuo danno sopportare. Infatti, senza contare il
resto che nella tua accortezza vedrai e bene esaminerai, quanti danni pensi, o
principe, che te ne verranno dalla crudeltà di uno solo? Nessuno è infatti
sicuro dalla folle violenza di costui; perciò, abbandonati i beni domestici e
tutta la famiglia, siamo costretti dalla sua crudeltà e dalla sua pazzia a
fuggire e a nasconderci ad ogni momento nei deserti e sterili fiumi; e dobbiamo
all'improvviso accantonare anche la cura della prole. Di conseguenza, giacché
le parti del tuo regno sono minori di quanto è giusto e sono tranquille e
pacifiche meno di quanto tu desideri nella tua giustizia e pietà, esse
diventano ogni giorno di più meno fiorenti e popolose di quanto a te, ottimo
principe, si addica. Nessuno dubita ormai che se con la tua sapienza (cosa che
speriamo) non metterai un freno a questa disgrazia, la situazione arriverà in breve
a un punto tale che, crollate le famiglie e infine messi in pericolo i
patrimoni, la società sarà del tutto sconvolta e distrutta. Il popolo deve
vivere nella quiete e nella pace in una città lieta e famosa per il gran numero
di abitanti. E se tu ti affiderai a chi dà giusti consigli, non accetterai
certamente con rassegnazione che la tua autorità, la tua dignità, la fortuna
del tuo potere vengano diminuite dalla altrui insolenza. E se ti rammenterai
nella tua sapienza che quei re, i quali non hanno castigato, pur potendolo, la
tracotanza, l'empietà, l'arbitrio o non li hanno tenuti lontano dai loro
sudditi, sono stati giudicati dalle persone oneste paurosi e fiacchi; poiché
sappiamo che sei privo di entrambi questi difetti non negherai che è tuo compito,
come crediamo, evitare che si giudichi il tuo modo di governare non
onorevolissimo. Tutti ammirano te, o nostro re, perché sei pio e giusto e
amante della pace, della tranquillità e della quiete e ti tributano grandi
lodi; non c'è nessuna qualità utile a formare un perfetto governante, che non
ti venga riconosciuta, ad eccezione di un particolare solo che non si accorda
con le tue mirabili qualità: consentire al serpente folle e spietato, che non
bada a preghiere e lacrime e non rispetta il diritto e gli dei, di imperversare
ancora con tuo danno, in contrasto con la tua virtù e la tua saggezza nel
governare. Forse alcuni, fidando nella tua forza e nella tua magnanimità,
chiedono prove più impegnative di quanto noi pavidi e atterriti osiamo
supplicare; essi allegano questi motivi e tanti altri sacrosanti e onesti e ti
pregano di non permettere che costui, il quale disprezza te e i comuni vincoli,
fino a quando è così violento, venga chiamato con lo stesso santo nome,
compartecipe del sacro potere. Ma noi non rifiutiamo di averlo come re, se tu
decidi così; e siamo disposti a rispettarlo come affine agli dei quasi come
facciamo con te, se il suo potere diventa mite e legittimo. Sebbene, chi
potrebbe pensare che le ragioni di questo principe hanno onesto fondamento e
che egli è degno delle prerogative del comando, se è arrogante verso i suoi,
superbo verso gli estranei, ingiusto, spietato e crudele? Poichè abbiamo deciso
di parlare per un impegno morale e non per discutere della vita e del
comportamento di chi capita, riprendiamo la discussione dal suo punto iniziale.
In te, o saggio principe, è riposta tutta la speranza delle benemerite rane e
la nostra; possiamo rifugiarci solo in te. Non abbandonarci, di nuovo ti
supplichiamo, tu provvederai alla nostra salvezza, al nostro onore e alla tua
fama".
Con questa orazione i pesciolini, non senza l'intervento
degli dei che sempre hanno avuto particolare avversione per la crudeltà e il
rigore dei principi, portarono a termine il piano orchestrato dalle rane.
Infatti suscitarono nella lontra tanto odio contro il serpente che essa, mentre
ancora i pesciolini peroravano la causa, ebbe l'animo pronto alla vendetta.
Contemporaneamente le rane subornano dei delatori, per
denunciare al serpente la boria di molte rane doviziose, che rifiutavano il suo
potere e conducevano nelle dimore dei pesciolini una vita sfaccendata, senza
minimamente rispettare la maestà del potere e le leggi della patria. Per
questo, a parere di tutti, si doveva deplorare la malvagità delle rane, ma anche
quella dei pesciolini e la si doveva in qualsiasi modo castigare. Infatti,
offrendo la loro ospitalità, essi violano le leggi e provocano chiaramente un
danno allo Stato, in quanto, accogliendoli, offrono ai rei la possibilità di
trasgredire. Chi ignora che questi atti sono molto gravi e offensivi verso un
tale principe, il più giusto e rispettoso della legge? E si deve lodare chi
interviene con severità tanto che i trasgressori abbiano a pentirsi della loro
intemperanza. Se infatti non vengono soffocate la licenza degli arroganti e
l'alterigia degli insolenti, se infine le inclinazioni dei cittadini
insofferenti di ogni disciplina, le loro smodate passioni, i loro ardenti
appetiti non vengono arginati con la severità e la paura, di certo accadrà che,
declinando la forza del potere, tutto lo Stato crollerà. Si deve perciò
provvedere non solo alla salvezza, ma anche alla dignità, alla fama, alla
grandezza dello Stato; ed è giusto, inoltre che, per suo dovere verso i
cittadini, un principe sia preoccupato che i malvagi non ardiscano trasgredire
e che gli altri imitino chi è rimasto impunito. Un principe deve essere
costante e forte nel vigilare; e deve perciò evitare la permissività, per non
sembrare un custode pigro, svogliato e poco zelante delle sue cose. La
diligenza di un principe viene come non mai apprezzata, allorché egli si vanta
e si adopera affinché i suoi sudditi, sbagliando di meno, diventino sempre più
degni di approvazione. E ciò può bene avvenire, se egli farà in modo che i rei
si pentano dei loro misfatti e gli innocenti si pregino delle lodi e dei premi
della virtù. Non si deve tollerare l'irresponsabile supremazia della folla;
questo stato di cose ha indotto gli oziosi a credere che il potere sta
nell'ostentazione, nella boria, nelle vesti sgargianti e nel vagare per la
città, nel non temere le leggi, nel disprezzare gli ordini dei principi. In
conseguenza di ciò sono state accantonate le arti dell'operosità e le altre
attività pubbliche e private e sono state sacrificate solo al fasto, per cui giorno
dopo giorno, a causa dell'ozio e della superbia, il potere è diventato fragile
e inconsistente.
Non si deve perciò ammettere che i sudditi alzino tanto il
capo fino a schiamazzare per tutti i cantoni di essere schiacciati da
un'ingiusta servitù e di giurare che non mancheranno i vendicatori della
libertà, se si presenterà l'occasione. Osano salutare la lontra come il solo re
amico del popolo e maledire il serpente senza nessuna vergogna. Se egli ha ben
chiare le sue responsabilità, se non è dimentico delle sue virtù e attentamente
rifletterà su quello che gli si addice, certamente dovrà convenire che in
questa vicenda ha il doveroso ruolo del punitore. E deve agire con severità
esemplare ora verso l'uno ora verso l'altro, per abituare la moltitudine in
preda alla paura, all'obbedienza delle leggi e al timore del principe. Le rane
che stanno sulla spiaggia aspettando il comando del principe, sempre saranno
considerate conformi alla sua volontà; quelle che, invece, fuggiasche e
ostinate, preferiscono per un ambizioso disegno vivere in un'altra regione
piuttosto che nella propria, quelle che hanno abbandonato i figli e i penati
per non obbedire al principe, quelle che arrecano danni gravissimi allo Stato,
si devono punire con ogni sorta di castigo.
Dopo tali insinuazioni il serpente, già per sua natura
incline all'ira, acceso da irrefrenabile furore, proruppe in una collera tanto
grande che con uno spaventoso giuramento gridò, chiamando a testimoni gli dei
del cielo e degli inferi, che tutti erano colpevoli e che si sarebbe
severamente vendicato del potere abbattuto. E arrivò fino a compiere improvvise
incursioni in tutti gli anfratti di quel lago, scandagliando, sconvolgendo,
insozzando ogni cosa. Nel frattempo era giunto allo stesso lago l'altro re, la
lontra, che per il precedente discorso era entrata in grande agitazione.
Accortasi del grande scompiglio e vedendo che la folla dei pesciolini era
preoccupata (si erano infatti accordati di fingere una grande paura), in preda
ad un'ira senza limiti si precipitò nel lago e con tutte le sue forze assalì il
serpente. Questi, poiché il lago gli sembrava sfavorevole per il combattimento,
venuto fuori da esso, strisciò verso un posto all'asciutto. L'altra lo insegue
mordendolo: nei campi vicini si svolge la battaglia tra quei re. I pesciolini e
le rane attendono atterriti l'esito della mischia, facendo in silenzio dei
voti. Quelli combattono con spaventosa energia e questa fu la fine della
contesa, che, sembra, venne decisa dagli dei, per eliminare due crudelissimi tiranni.
La lontra afferrò il serpente in mezzo alla gola; in risposta il serpente con
molti morsi velenosi lacerò la gola della lontra e morì stritolando tra le sue
spire l'altra che moriva.
Dapprima le rane, strepitando allo spettacolo, gridarono:
"Viva il re"; i pesciolini impararono a recitare per gioco quella
specie di duello che aveva contrapposto i re nel lago; per tutto il resto della
loro esistenza ripresero l'antica e del tutto libera condotta di vita. E, per
quanto è possibile, conservano fino ad oggi quest'uso senza mai violarlo; e
cantano nei loro versi che la libertà senza troppe regole è, secondo l'uso
ereditato dai padri, più utile di un'adorna servitù.
Sono felice se con questa favola ho arrecato piacere al
lettore; di sicuro, se non mi sbaglio, ho presentato molti elementi utili per
governare lo Stato.
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