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Leon Battista Alberti
Apologi ed elogi

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  • Intercenali. Libro decimo.
    • Argomenti del decimo libro.
      • Il lago.
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Il lago.

 

In un laghetto, che non era di solito frequentato da nessun animale dannoso, moltissimi pesciolini e molte rane, animali dalle abitudini diverse, vivevano insieme con un diletto che non si può facilmente descrivere; e sia le rane che i pesciolini avevano infatti ereditato dai loro antenati l'abitudine di mettere tutto in comune in quel luogo. Ogni giorno si svolgeva lì questo tipo di spettacolo: i branchi di pesciolini si raggruppavano danzando, le rane cantavano delle melodie saltellando. Tale era in sostanza il loro modo di vivere che non c'era niente da aggiungere ai giochi, all'allegria, alla gaiezza. Somma era innanzitutto la libertà, grandissima la pace, assenti le discordie interne, assenti i sospetti tra i cittadini, assenti le invidie e le contese con i vicini e gli stranieri; incredibile l'accordo degli animi e delle volontà nelle cose pubbliche e private. In tale situazione, sia perché questo è il comune destino delle cose umane (in quanto le creature mortali non possono avere niente di perenne e di stabile), sia per l'innata mancanza di misura di molti, che non possono accettare con equilibrio la fortuna propizia, accadde che alcuni pesciolini bramosi di fama e di sembrare promotori di importanti iniziative pubbliche, promulgarono queste legge: "Le rane abitino la spiaggia e le parti superiori del lago: i pesciolini tengano le parti inferiori".

Questa legge piacque a tutti, tranne che ai vecchi più saggi; ma essi non si pronunciarono con sufficiente energia contro i promotori della legge per disapprovarla. Questi ultimi, anzi, poichè alla moltitudine sembrava che essi avessero trovato un ottimo sistema di vita, furono pubblicamente lodati. Si riteneva che, grazie a questa disposizione, la regione era stata ben divisa, dal momento che questa legge impediva alle rane di sporcare le acque profonde rivoltando il limo e faceva obbligo ai pesciolini di restare nelle loro caverne. Avendo pertanto obbedito alla legge per alcuni giorni con grandissimo scrupolo ed essendo ognuno rimasto volentieri al proprio posto, accadde quel che accadde. Nessuna disposizione, per quanto sacra, per quanto egregia, viene introdotta nell'amministrazione dello Stato senza che essa venga cancellata da nuove leggi e, quasi con disprezzo, ignorata dalla massa insolente e bramosa di novità. La folla dei pesciolini, secondo le antiche libere consuetudini, emergeva non raramente alla superficie e anche le rane si introducevano nella zona dei pesciolini. La legge cominciò ogni giorno di più ad essere rifiutata. Erano scontenti di questa situazione coloro che erano stati i promotori della legge; ed erano sdegnati del fatto che la loro autorità non meno dei pubblici regolamenti venisse trascurata e svuotata d'importanza. Perciò con discorsi in pubblico e in privato cercarono di convincere le masse che era molto bello sottoporsi a qualsiasi sacrificio per far rispettare la legge. Riuscirono soprattutto a convincere i pesciolini, che stavano in estasi davanti alla loro eloquenza e applaudivano con grande calore, affinché, quando gli oratori mandavano un banditore, con il lancio di una pietruzza nel lago, non ne ostacolassero il ritorno in sede. I pesciolini rispettavano l'editto senza alcuno sgarro; ma le rane garrule e petulanti, per loro natura insolenti, o perchè ritenevano molto più piacevole l'antica libertà e il modo non coatto di vivere, o perchè sdegnavano l'antipatica prosopopea degli oratori, non solo non rispettavano l'editto, ma anzi, quando era lanciata una pietra, si dirigevano subito verso la parte bassa del lago e, accorrendo da ogni lato, disturbavano le assemblee con grande schiamazzo e impedivano l'ascolto della voce dell'oratore. Gli oratori proclamavano che veniva tradita la repubblica e commesso un grave delitto, sostenendo che quella resistenza alle leggi avrebbe provocato la rovina dello Stato. Le rane affermavano che erano dei pazzi a non capire che a causa di questa legge erano stati introdotti dei tiranni, mentre esse avevano compreso che era vergognoso obbedire al loro sciocco editto: esse non odiavano ancora a tal punto la libertà da non ritenere bello salvaguardare senza ulteriori regole l'antica indipendenza dei padri anziché sottostare ad una legale servitù. Cosa aggiungere? Mentre da un lato gli uni sono pronti, dall'altro le rane rifiutano di obbedire alla legge. Con la forza delle loro parole gli oratori sollecitano con continui discorsi il volubile stuolo dei pesciolini a considerare ora un delitto e un'offesa gravissima per il rigore della legge quello che prima era consentito come gaiezza e gioco. Da un lato e dall'altro si udivano perciò vari e gravi lamenti e durissimi litigi. E la questione era arrivata, a causa delle passioni di parte, alle armi e allo scontro frontale. I pesciolini a questo punto, poichè capivano di essere inferiori per forza, decisero (avvenimento degno di essere ricordato nelle lettere) di ricorrere all'inganno.

Non lontano da questo lago nidificava un grandissimo serpente in una conca paludosa, dove i pesciolini avevano l'abitudine di passare per sotterranei cunicoli. Gli araldi dei pesciolini andarono a chiamare costui e parteciparono all'ambasceria gli stessi propugnatori e sostenitori della legge. Il serpente, colpito dalla loro eloquenza, ritenne di non compiere nessun gesto prima di recarsi con gli stessi messaggeri a ispezionare il luogo e gli abitanti. Particolarmente lieti per il suo arrivo i pesciolini si congratulavano tra loro. Ritenevano che sarebbe stata domata per sempre la superbia delle rane, che vedevano scoraggiate per la paura del tiranno. Le rane, appena capirono con non oscuri indizi la frode dei pesciolini e il loro malvagio inganno, stabilirono di render la pariglia, chiamando la lontra, animale ostilissimo ai pesciolini.

I vecchi ritenevano che era da cittadini folli preferire di rivaleggiare nell'odio piuttosto che nell'amore e nel dovere e che non era giusto, proprio perché detestavano la crudeltà, commettere degli atti che li avrebbero fatti sembrare assai malvagi. Se ancora ragionavano, non dovevano introdurre, non solo come vendicatore, ma nemmeno come arbitro delle lotte e dei conflitti domestici un estraneo, al quale anche renitenti dovevano obbedire. E disputavano sul modo più facile per tenere lontane dalla loro vita creature di tale superbia e ingordigia, se per caso (e l'avrebbero fatto) avessero cominciato a diventare moleste. Aggiungevano ancora che grande sarebbe stato il danno e di certo degno di biasimo, se le private offese dei malvagi cittadini avessero messo in pericolo la patria e se avessero subito delle offese tali da dover anch'essi piangere nelle disgrazie degli avversari. E infine chiedevano come avrebbero potuto pregare gli dei, dal momento che essi si rallegravano delle disgrazie dei concittadini e della propria vergogna. Supplicavano infine di astenersi dall'odio; e infatti preannunziavano che, a causa delle disgrazie nate dall'odio, si sarebbe verificata la rovina della patria e la catastrofe totale. Prevalse tuttavia il parere dei più astuti e di coloro che erano convinti fosse meglio vendicare in qualunque modo le offese. Perciò, senza aver riguardo per i vecchi, per mezzo di ambasciatori fecero venire da terre remote la lontra. La belva, per sua natura feroce e quasi sfinita dalla fame, appena si accorse di essere arrivata in un paese molto ricco, ringraziò gli dei per averla colmata in maniera inattesa di tanti doni, si recò dal serpente e con lui divise il potere e stabilì questa legge: "Il serpente governi sulle rane, la lontra sui pesciolini". Una volta sancita la legge, i crudeli sovrani dalle maledette fauci, imperversarono con intollerabile arroganza e odiosa violenza sugli individui di ciascuno dei due gruppi. Cittadini onesti e coraggiosi per un motivo ignoto venivano sgozzati. Nessuno aveva un bene che a lungo poteva considerare come suo. Erano infine afflitti da tanti mali, che erano costretti a piangere sia le loro disgrazie che quelle dei concittadini rivali. Immersi in tanti mali non erano allietati dalla speranza di una migliore fortuna; e ogni giorno di più i tiranni spadroneggiavano e diventavano crudeli.

Gli infelici non sapevano a chi rivolgersi, tranne che a quei vecchi, i quali spiccavano ai loro occhi per saggezza e prudenza. E ormai ognuno era disposto a sopportare qualsiasi cosa dagli altri, pur di non assistere allo spaventoso annientamento dei migliori cittadini e delle famiglie più cospicue. Ma i vecchi, che non erano stati ascoltati quando erano stati consultati in tempi di prosperità (anche i vecchi dissennati, nello sconvolgimento generale, erano circondati da un fitto stuolo di gente che supplicava, compresi i dignitosi e gli intrepidi) bisbigliavano esitanti che essi erano vissuti abbastanza per la vita e per la gloria e che non potevano fornire soccorso nelle avversità, dopo essere stati ignorati nella buona sorte. Perciò rimandarono la folla da quei furbi, ad opera dei quali erano stati disattesi i loro ottimi consigli. Infine, sollecitati dai figli e dalle mogli e richiesti con grandi preghiere di aiuto e di perdono, i vecchi si convinsero di non rifiutare la loro collaborazione alla patria in pericolo e in difficoltà, se quella massa indocile li ascoltava e obbediva alle loro parole. La folla giurò che avrebbe sempre rispettato questi padri come divinità, poiché capiva che essi avevano saggezza e capacità di prevedere il corso degli eventi futuri; sempre perciò li avrebbe seguiti con devozione e rispetto e mai avrebbe infranto i loro comandamenti.

I vecchi furono soddisfatti; preoccupati quindi per la situazione presente, pretesero innanzitutto di riavere il favore e la benevolenza di una volta. Era questo il solo modo per poter recuperare e conservare la salvezza e l'incolumità della patria. La concordia dei cittadini era il mezzo più adatto per scacciare e abbattere ogni tirannide. Discussero a lungo su questa proposta e li esortarono a stringere patti di amicizia. E tutti, dal momento che l'acerbità della fortuna li aveva resi umili e miti, obbedirono. Pertanto, deposti gli odi, poiché la faccenda non si poteva in nessun modo risolvere con la violenza, cercarono di allontanare dalla loro vita tiranni tanto crudeli con l'intelligenza e la ragione. Alcuni capi dei pesciolini, che erano molto abili nell'eloquenza, colta l'occasione in cui la lontra era di animo più conciliante, le rivolsero questo discorso: "Rendiamo grazie agli dei e soprattutto a te, giustissimo principe, e doverosamente ci congratuliamo con la tua virtù e con la nostra fortuna, dacché nel nostro stato abbiamo ottenuto che venisse arginata l'antica insolenza della plebe e l'illimitata libertà di creare disordini grazie a te, che vi hai messo un freno. Infatti noi credevamo che quell'arroganza, della quale, per eccesso di libertà, si vantava la plebaglia dei pesciolini, sarebbe giustamente diventata odiosa agli dei; e nessuno era tanto stolto da non capire che la loro incostante natura, facilmente incline al piacere, avrebbe arrecato danno alla patria. Tu, o santo principe, hai evitato la disgrazia che stava per abbattersi su questa gente. E hai pensato che non facessero parte dello stato quei cittadini che passavano tutto il giorno tra gli scherzi e le frivolezze; e hai santamente introdotto la parsimonia, punendo i prodighi e i superbi, e la modestia, castigando i più ignavi. Per questo motivo, avendo tu dato alla repubblica l'incolumità e l'esempio, mai, per gli obblighi di gratitudine verso di te e per il nostro bene, cesseremo di pregare gli dei, affinché resti quanto più possibile duraturo e solido il tuo potere su di noi, che le tue leggi hanno reso più civili. E infatti se tutti esprimono la convinzione che tu sei il migliore dei principi possibili e che la salvezza dei sudditi è tutta nelle tue mani, avviene talvolta che ci permettiamo di pensare al benessere dei pesciolini. Riteniamo che questo può arrecare lode e vantaggio. Se il serpente, che, conscio del tuo potere (che abbiate il bene e la fortuna), non si facesse superare in giustizia e umanità da te, che invece non vuole superiore a sé per potere, prestigio e forza, certo, a nostro giudizio, non si potrebbe aggiungere niente alla felicità di questa nostra provincia. Se è infatti felice quello stato retto da leggi ottime e stabili e da miti costituzioni, molto più felice è quello in cui l'umanità la mitezza e la benignità dei governanti vengono temperate da una certa severità. Quando si verificano, o ottimo principe, situazioni diverse e, se ben ti conosciamo, contrarie alla tua volontà; quando le ottime leggi vengono violate da coloro che debbono tutelare il diritto; quando chi per primo dovrebbe praticare la pietà, è meno devoto del lecito; o nostro re, ti preghiamo di ascoltare con clemenza le parole che, pur malvolentieri, ti rivolgiamo. Non è giusto che un re solerte e vigile, che le genti tutte vantano con ammirazione come unico, ignori un solo particolare di quello che accade ai suoi sudditi. Abbiamo ritenuto quindi doveroso farlo, dal momento che noi stessi ci siamo messi nelle tue mani. Questi sono i nostri problemi: accade che nel tuo regno (che gli dei colmino di bene), che le norme fissate dalla sorte e dalle leggi (direi sotto la tua pace, con la tua mite pazienza), o principe benignissimo, per l'altrui, per così dire, sconsiderata libertà, vengono trasgredite ingiustamente e, se non ci inganniamo, empiamente. E non vorremmo (gli dei ci sono testimoni) rendere, ammesso che lo possiamo, qualcuno impopolare o infine, fra tante disgrazie, passar sotto silenzio l'iniqua sorte comune senza piangere e senza che ci sia possibile levare una protesta presso di te, mitissimo principe. Né ci è ignoto che si devono accettare, come si dice, con pazienza le iniziative dei principi verso gli infimi e deboli sudditi e con la sopportazione far intendere che abbiamo appreso ad obbedire ai superiori. Ma, per quanto desiderosi di obbedire senza riserve, siamo costretti a lamentarci, non comprendendo i motivi del nostro destino, o quando questo serpente cerca di acchiapparci mentre fuggiamo, o perché capisce che il tuo regno non vacilla in nessun modo. O sciagura! non posso trattenere le lacrime: da quando il serpente è salito al potere non c'è un sol giorno senza crudeltà. O cosa indegna, contraria agli ordinamenti degli antenati e alle leggi del santo potere: le rane vengono tormentate dal loro principe, oppresse, massacrate. Non hanno alcun valore per un principe adirato le preghiere e le lacrime degli afflitti; alle infelici rane non viene lasciato nessun nascondiglio per trovare un po' di scampo alla strage, né nel proprio né nell'altrui paese! Quello superbo, inesorabile, ardente d'ira e di furore le insegue, con un volto, o buoni dei, terribile; sconvolge, perturba tutte le cose pubbliche e private; ovunque il principe compie atroci misfatti; giungono alle orecchie frequenti e raccapriccianti i gemiti dei cittadini più autorevoli e dei moribondi. E ciò non senza nostra rovina. Infatti se qualche sostenitore del tuo partito e di te dichiara che questi fatti sono contrari alla legge, subito viene punito da quell'energumeno che giura di perseguitare con pari odio anche te, o nostro principe, se in qualche cosa lo intralcerai. Atterriti da questo spettacolo noi, sia per un senso di umanità sia anche calcolando i nostri danni, come è giusto, siamo convinti di essere in pericolo e assieme alle rane, nostre infelicissime concittadine, fuggiamo la vista di quel pazzo. E quale aiuto e conforto possiamo portare a esse? Abbiamo qualche altra risorsa? In tanti mali ci conforta soltanto che gli dei ci hanno dato un rifugio in cui porre la nostra salvezza: sia per necessità, sia per la tua benignità osiamo ricorrere a te, principe pietoso; e in nome dell'antica consuetudine per cui siamo uniti alle rane in una patria comune, ti chiediamo di voler salvare, come puoi, quelle innocenti da tante disgrazie e di provvedere opportunamente ai nostri mali, sebbene noi siamo felici, se stai bene tu, al quale non esitiamo ad affidare non solo la fortuna e il bene dei tuoi sudditi, ma anche l'altrui. Ma pur tralasciando i nostri mali, che neppure piccoli né rari riceviamo ogni giorno dal serpente, non pensiamo che si debba trascurare questo particolare: il male si è allargato e diffuso più di quanto si possa con pazienza e senza tuo danno sopportare. Infatti, senza contare il resto che nella tua accortezza vedrai e bene esaminerai, quanti danni pensi, o principe, che te ne verranno dalla crudeltà di uno solo? Nessuno è infatti sicuro dalla folle violenza di costui; perciò, abbandonati i beni domestici e tutta la famiglia, siamo costretti dalla sua crudeltà e dalla sua pazzia a fuggire e a nasconderci ad ogni momento nei deserti e sterili fiumi; e dobbiamo all'improvviso accantonare anche la cura della prole. Di conseguenza, giacché le parti del tuo regno sono minori di quanto è giusto e sono tranquille e pacifiche meno di quanto tu desideri nella tua giustizia e pietà, esse diventano ogni giorno di più meno fiorenti e popolose di quanto a te, ottimo principe, si addica. Nessuno dubita ormai che se con la tua sapienza (cosa che speriamo) non metterai un freno a questa disgrazia, la situazione arriverà in breve a un punto tale che, crollate le famiglie e infine messi in pericolo i patrimoni, la società sarà del tutto sconvolta e distrutta. Il popolo deve vivere nella quiete e nella pace in una città lieta e famosa per il gran numero di abitanti. E se tu ti affiderai a chi dà giusti consigli, non accetterai certamente con rassegnazione che la tua autorità, la tua dignità, la fortuna del tuo potere vengano diminuite dalla altrui insolenza. E se ti rammenterai nella tua sapienza che quei re, i quali non hanno castigato, pur potendolo, la tracotanza, l'empietà, l'arbitrio o non li hanno tenuti lontano dai loro sudditi, sono stati giudicati dalle persone oneste paurosi e fiacchi; poiché sappiamo che sei privo di entrambi questi difetti non negherai che è tuo compito, come crediamo, evitare che si giudichi il tuo modo di governare non onorevolissimo. Tutti ammirano te, o nostro re, perché sei pio e giusto e amante della pace, della tranquillità e della quiete e ti tributano grandi lodi; non c'è nessuna qualità utile a formare un perfetto governante, che non ti venga riconosciuta, ad eccezione di un particolare solo che non si accorda con le tue mirabili qualità: consentire al serpente folle e spietato, che non bada a preghiere e lacrime e non rispetta il diritto e gli dei, di imperversare ancora con tuo danno, in contrasto con la tua virtù e la tua saggezza nel governare. Forse alcuni, fidando nella tua forza e nella tua magnanimità, chiedono prove più impegnative di quanto noi pavidi e atterriti osiamo supplicare; essi allegano questi motivi e tanti altri sacrosanti e onesti e ti pregano di non permettere che costui, il quale disprezza te e i comuni vincoli, fino a quando è così violento, venga chiamato con lo stesso santo nome, compartecipe del sacro potere. Ma noi non rifiutiamo di averlo come re, se tu decidi così; e siamo disposti a rispettarlo come affine agli dei quasi come facciamo con te, se il suo potere diventa mite e legittimo. Sebbene, chi potrebbe pensare che le ragioni di questo principe hanno onesto fondamento e che egli è degno delle prerogative del comando, se è arrogante verso i suoi, superbo verso gli estranei, ingiusto, spietato e crudele? Poichè abbiamo deciso di parlare per un impegno morale e non per discutere della vita e del comportamento di chi capita, riprendiamo la discussione dal suo punto iniziale. In te, o saggio principe, è riposta tutta la speranza delle benemerite rane e la nostra; possiamo rifugiarci solo in te. Non abbandonarci, di nuovo ti supplichiamo, tu provvederai alla nostra salvezza, al nostro onore e alla tua fama".

Con questa orazione i pesciolini, non senza l'intervento degli dei che sempre hanno avuto particolare avversione per la crudeltà e il rigore dei principi, portarono a termine il piano orchestrato dalle rane. Infatti suscitarono nella lontra tanto odio contro il serpente che essa, mentre ancora i pesciolini peroravano la causa, ebbe l'animo pronto alla vendetta.

Contemporaneamente le rane subornano dei delatori, per denunciare al serpente la boria di molte rane doviziose, che rifiutavano il suo potere e conducevano nelle dimore dei pesciolini una vita sfaccendata, senza minimamente rispettare la maestà del potere e le leggi della patria. Per questo, a parere di tutti, si doveva deplorare la malvagità delle rane, ma anche quella dei pesciolini e la si doveva in qualsiasi modo castigare. Infatti, offrendo la loro ospitalità, essi violano le leggi e provocano chiaramente un danno allo Stato, in quanto, accogliendoli, offrono ai rei la possibilità di trasgredire. Chi ignora che questi atti sono molto gravi e offensivi verso un tale principe, il più giusto e rispettoso della legge? E si deve lodare chi interviene con severità tanto che i trasgressori abbiano a pentirsi della loro intemperanza. Se infatti non vengono soffocate la licenza degli arroganti e l'alterigia degli insolenti, se infine le inclinazioni dei cittadini insofferenti di ogni disciplina, le loro smodate passioni, i loro ardenti appetiti non vengono arginati con la severità e la paura, di certo accadrà che, declinando la forza del potere, tutto lo Stato crollerà. Si deve perciò provvedere non solo alla salvezza, ma anche alla dignità, alla fama, alla grandezza dello Stato; ed è giusto, inoltre che, per suo dovere verso i cittadini, un principe sia preoccupato che i malvagi non ardiscano trasgredire e che gli altri imitino chi è rimasto impunito. Un principe deve essere costante e forte nel vigilare; e deve perciò evitare la permissività, per non sembrare un custode pigro, svogliato e poco zelante delle sue cose. La diligenza di un principe viene come non mai apprezzata, allorché egli si vanta e si adopera affinché i suoi sudditi, sbagliando di meno, diventino sempre più degni di approvazione. E ciò può bene avvenire, se egli farà in modo che i rei si pentano dei loro misfatti e gli innocenti si pregino delle lodi e dei premi della virtù. Non si deve tollerare l'irresponsabile supremazia della folla; questo stato di cose ha indotto gli oziosi a credere che il potere sta nell'ostentazione, nella boria, nelle vesti sgargianti e nel vagare per la città, nel non temere le leggi, nel disprezzare gli ordini dei principi. In conseguenza di ciò sono state accantonate le arti dell'operosità e le altre attività pubbliche e private e sono state sacrificate solo al fasto, per cui giorno dopo giorno, a causa dell'ozio e della superbia, il potere è diventato fragile e inconsistente.

Non si deve perciò ammettere che i sudditi alzino tanto il capo fino a schiamazzare per tutti i cantoni di essere schiacciati da un'ingiusta servitù e di giurare che non mancheranno i vendicatori della libertà, se si presenterà l'occasione. Osano salutare la lontra come il solo re amico del popolo e maledire il serpente senza nessuna vergogna. Se egli ha ben chiare le sue responsabilità, se non è dimentico delle sue virtù e attentamente rifletterà su quello che gli si addice, certamente dovrà convenire che in questa vicenda ha il doveroso ruolo del punitore. E deve agire con severità esemplare ora verso l'uno ora verso l'altro, per abituare la moltitudine in preda alla paura, all'obbedienza delle leggi e al timore del principe. Le rane che stanno sulla spiaggia aspettando il comando del principe, sempre saranno considerate conformi alla sua volontà; quelle che, invece, fuggiasche e ostinate, preferiscono per un ambizioso disegno vivere in un'altra regione piuttosto che nella propria, quelle che hanno abbandonato i figli e i penati per non obbedire al principe, quelle che arrecano danni gravissimi allo Stato, si devono punire con ogni sorta di castigo.

Dopo tali insinuazioni il serpente, già per sua natura incline all'ira, acceso da irrefrenabile furore, proruppe in una collera tanto grande che con uno spaventoso giuramento gridò, chiamando a testimoni gli dei del cielo e degli inferi, che tutti erano colpevoli e che si sarebbe severamente vendicato del potere abbattuto. E arrivò fino a compiere improvvise incursioni in tutti gli anfratti di quel lago, scandagliando, sconvolgendo, insozzando ogni cosa. Nel frattempo era giunto allo stesso lago l'altro re, la lontra, che per il precedente discorso era entrata in grande agitazione. Accortasi del grande scompiglio e vedendo che la folla dei pesciolini era preoccupata (si erano infatti accordati di fingere una grande paura), in preda ad un'ira senza limiti si precipitò nel lago e con tutte le sue forze assalì il serpente. Questi, poiché il lago gli sembrava sfavorevole per il combattimento, venuto fuori da esso, strisciò verso un posto all'asciutto. L'altra lo insegue mordendolo: nei campi vicini si svolge la battaglia tra quei re. I pesciolini e le rane attendono atterriti l'esito della mischia, facendo in silenzio dei voti. Quelli combattono con spaventosa energia e questa fu la fine della contesa, che, sembra, venne decisa dagli dei, per eliminare due crudelissimi tiranni. La lontra afferrò il serpente in mezzo alla gola; in risposta il serpente con molti morsi velenosi lacerò la gola della lontra e morì stritolando tra le sue spire l'altra che moriva.

Dapprima le rane, strepitando allo spettacolo, gridarono: "Viva il re"; i pesciolini impararono a recitare per gioco quella specie di duello che aveva contrapposto i re nel lago; per tutto il resto della loro esistenza ripresero l'antica e del tutto libera condotta di vita. E, per quanto è possibile, conservano fino ad oggi quest'uso senza mai violarlo; e cantano nei loro versi che la libertà senza troppe regole è, secondo l'uso ereditato dai padri, più utile di un'adorna servitù.

Sono felice se con questa favola ho arrecato piacere al lettore; di sicuro, se non mi sbaglio, ho presentato molti elementi utili per governare lo Stato.

 

 




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