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Di che Ippolito, sentendosi
crescere l'amore e mancare la speranza, cominciò per la grande malinconia a
perdere il sonno, anzi sempre aveva ogni suo pensiero a Leonora. E già
essendogli venuto a noia il cibo, si mutò tutto di complessione in modo che,
dove egli era il più allegro, festivo, lieto, giocondo, faceto giovane di
Firenze, più bello, più fresco e universale, in breve tempo divenne
melanconico, magro, solitario, pallido, doloroso e saturnino più che altro
della città. E infine, mancandogli li sentimenti naturali, divenia di giorno in
giorno più simile ad uomo morto che vivo; della qual cosa 'l padre e la madre
erano molto dolenti. E cercato da' medici quale fusse la cagione di tanta
mutazione, non trovavano altro che continua malinconia che nocesse al giovane.
Di che non potendo sapere che gli gravasse, né donde la malinconia procedesse,
Ippolito cominciò fortemente a gravarsi nel male, intanto che pigliando poco di
conforto e consumandosi dallo affanno, i medici lo difidarono dicendo che, se
la cagione de' suoi pensieri non si trovava, non era possibile dargli rimedio,
e non rimediando, che in breve tempo se ne morirebbe. Di questo i suoi assai
furono dolenti, massime el suo padre e la sua madre, li quali non avevano altro
figliuolo né altro bene. E tanto più gli doleva quanto, non sapendo il male,
non lo potevano aiutare. Onde che la sua madre, la quale portava gran pena del
male del figliuolo, cercò con molti ingegni di sapere da lui quale fusse la
cagione di tanta malinconia. E infine, trovando il figliuolo duro e pertinace
nel negare e nel tacere, vinta da materno amore, in camera, sola col suo
figliuolo con molte lagrime cominciò così a parlare:
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