Liber primus familie: de officio senum
erga iuvenes et minorum erga maiores et de educandis liberis.
Mentre che
Lorenzo Alberto nostro padre giaceva in Padua grave di quella ultima infermità
che ce lo tolse di vita, più dì aveva grandemente desiderato vedere Ricciardo
Alberto suo fratello, del quale sentendo che subito sarebbe a visitarlo, ne
prese grandissimo conforto e oltre all'usato si levò così in sul letto a sedere
monstrando in molti modi esserne assai lieto. Noi ch'eravamo al continuo
pressogli, insieme pigliammo conforto del piacere suo, ed eraci allegrezza così
avere donde ricevere buona speranza qual parea ci fusse porta, vedendo Lorenzo
più che l'usato rilevato. Ivi era Adovardo e Lionardo Alberti, uomini
umanissimi e molto discreti, a' quali Lorenzo quasi in simili parole disse:
- Non vi potrei
con parole monstrare quanto io desideri vedere Ricciardo Alberto nostro
fratello, sì per compor seco alcune utilitati alla famiglia nostra, sì ancora
per raccomandargli questi due miei figliuoli costì Battista e Carlo, e' quali
pur mi sono all'animo non piccolissimo incarco, non perch'io dubiti però in
niuno loro bene, quanto gli fia possibile, Ricciardo non vi sia desto e
diligente, ma pure e' mi pesava non assettar prima questa a noi padri
adiudicata soma, e spiacevami lasciare adrieto simile alcuna giusta e piatosa mia
faccenda. Uscirò di vita sanza quello incarco poich'io arò ciascuno di voi
molto e Ricciardo imprima pregato guidi costoro a diventar buoni uomini, e di
loro facci, per averli virtuosi, quanto vorrebbe al bisogno si facesse de'
suoi.
Allora rispuose
Adovardo, el quale era di più età che Lionardo: - E questo tuo dire, Lorenzo,
quanto m'ha egli commosso! Io scorgo in te quello amore e pietà inverso de'
figliuoli quale spesso in molti modi stimola ancora me. E ben veggio vorresti
che gli altri tutti avessero simile carità a ciascuno di casa, e tanta
diligenza e cura a tutto el bene e onore della famiglia nostra quale sempre
avesti tu. Poi mi pare giudichi come si debba della fede e integrità di
Ricciardo, el quale di sangue e veramente in ogni pietà, umanità e costume t'è
fratello. Niuno più di lui è mansueto, niuno più riposato, nessuno è quanto lui
continente. Ma non dubitare che noi altri, quanto ci fusse possibile, ciascuno
sta di questo animo: in quello apartenesse all'utile e onore del minimo di
casa, nonché a' tuoi figliuoli, e' quali ci sono non fra gli ultimi carissimi,
voremmo che ogni uomo ci conoscesse esserti buoni e fedelissimi parenti. E
s'egli ha più forza l'amistà che 'l parentado, il simile faremmo come e' veri e
dritti amici. Le cose care a te, le cose di Lorenzo, quale ciascuno di noi
quanto sé stesso ama, sarebbono a noi care e racommandate quanto tu vorresti, e
quanto a noi più fusse possibile. E per qualunque di noi bisognando si farebbe
per ogni rispetto volentieri, e per questo con molta più pronta opera perché ci
sarebbe leggiera e dilettosa cosa addurre in lode e onore questi giovani e'
quali da te hanno già ottimo principio ed essemplo ad acquistare fama e virtù.
E vediamoli d'intelletto e natura non inetti a farsi valere, donde a chi
n'averà avuta cura ne risulterà anche parte di grado e contentamento. Ma Dio ti
ci renda sano e lieto, Lorenzo. Non volere indurti così ad animo che tu istimi
non esserti questo e ogni altra simile ottima cosa quanto sino a ora licita. E'
mi pare vederti ralleggerito, e spero tu stessi potrai avere de' tuoi cura e
degli altri non minore ti sia sempre usato d'avere.
LORENZO Come?
Anzi sarei da inculpare s'i' non facessi, Adovardo, di te stima, e di te,
Lionardo, come debbo di cari parenti e veri amici. A chi m'è coniunto di sangue
e chi sempre in vita mi sono sforzato a giugnermelo di benivolenza e amore, in
che modo potre' io onestamente credere le mie cose gli fussero poco
racomandate? Bene mi sarebbe più grato non avere a lasciarvi ne' miei questa
fatica. Benché il morire non mi turbi troppo, pure questa dolcezza del vivere,
questo piacere d'avermi e ragionarmi con voi e con gli amici, questo diletto di
vedermi le cose mie, pur mi duole lasciarlo. Non vorrei inanzi tempo esserne
privato. Forse meno mi sarebbono grave e poco acerbe perderle, se io potessi di
me come solea Iulio Cesare di sé dire, sé alla età, alla felicità essere assai
vivuto. Ma né io sono in età che la morte non sia ancora in me pure acerba, né
sono in tanta felicità che vivendo non desideri potere vedermi in più lieta
fortuna. E quanto mi sarebbe desideratissima letizia, quanto mi riputerei ad
estrema felicità in casa del padre mio, nella patria mia potere, se non con
qualche pregio vivere, almanco morirvi, e poi giacere tra' miei passati! Se la
fortuna non me lo permette, o se la natura qui usa el corso suo, o se pure io
sono nato a patire queste miserie, stimo non sarebbe saviezza fare senza
pazienza quel che pure mi fusse forza fare. Ben sarei più contento, figliuoli
miei, in questa età non vi abandonare, e manco mi dorrebbe morire non giovane,
solo per afaticarmi come soglio in utile e onore di casa nostra. Ma se altro
destino richiede questo mio spirito, né debbo, né voglio averlo per male, né
piglio contro a mio animo quello che nulla mi gioverebbe non lo volere. Sia di
me quanto piace a Dio.
ADOVARDO Così
credo, a soperchiare ogni paura della morte, questo medesimo sia grande aiuto,
pensare che a' mortali el finire sua vita sempre fu necessario. Ma ben si vole
ancora nella infermità e debolezza non vi si adiudicare, ché benché e' giovi al
superare la paura e ombre della morte, pur credo questo nuoce alla quiete e
tranquillità dell'animo starsi colla mente in quella sollecitudine dalla quale
forse e io non saperei distormi sendo in quella tale affezione, pensando e chi
lascio, e come ordino, e a chi racomando le care mie e amate cose; alle quali
tutte cocentissime cure non so chi allora potesse non pendervi coll'animo, e
credo forse non gioverebbe a sostenere el carco della infermità. Però sarai da
lodarti, Lorenzo, se starai di miglior voglia. E così fa. Confòrtati, spera
bene e della fortuna e di te stesso in prima, e stima con noi insieme, se noi
non siamo troppo grandemente ingannati, questi tuoi figliuoli saranno di certo
tali che assai poteranno contentarti.
LORENZO
Figliuoli miei, alla virtù sempre fu questo premio non piccolo: ella per forza
fa lodarsi. Vedetelo come costoro vi pregiano e quanti e' vi promettono.
Saravvi onore, quanto più in voi sia, con ogni opera e arte sforzarvi d'essere
come essi vi sperano. E suole ogni lodata virtù ne' buoni ingegni crescere.
Forse dirò quello che in verità, Adovardo, e tu Lionardo, non è; ma sia licito
a' padri parergli le virtù de' figliuoli maggiori che le non sono, né sia in me
ascritto ad imprudenza se per incender costoro ad amar la virtù, in presenza
gli dimostro quanto m'agradi, e quanto mi piacerebbe vederli molto virtuosi,
poiché ogni loro picciola lode a me parerà grande. Vero è che io sempre con
ogni industria e arte mi sono molto ingegnato d'essere da tutti amato più che
temuto, né mai a me piacque apresso di chi mi riputasse padre volere ivi parere
signore. E così costoro sono stati da sé sempre ubidienti, riverenti, e hannomi
ascoltato molto e seguito i comandamenti miei, né in loro mai vidi alcuna
durezza o rilevato alcuno vizio. Hommi d'ogni loro buono costume preso piacere,
ed èmmi paruto potere meco meglio di dì in dì sperare e aspettare. Ma chi non
sa quanto sia dubbiosa la via della gioventù, nella quale se alcuno vizio era,
quello già o per paura o per vergogna de' padri o de' maggiori stava coperto e
ascoso, di poi in tempo si scopre e manifesta? E quanto el timore e reverenza
de' giovani manca, tanto in loro nascono di dì in dì e crescono vari vizii, ora
per proprio ingegno da sé a sé depravato e corrotto, ora per brutte
conversazioni e consuetudini viziato e guasto; e per mille ancora altri modi
sufficienti a fare scelerato qualunque buono, come abbiamo altrove e nella
nostra terra veduti figliuoli di valentissimi cittadini da piccioli porgere di
sé ottima indole, avere in sé aere e aspetto molto ornatissimo, pieno di
mansuetudine e costume, poi riusciti infami, credo per negligenza di chi no'
gli resse bene. Però qui mi ramenta di nostro padre messer Benedetto Alberto,
uomo di prudenza, autoritate e fama non vulgare, e come nelle altre cose
diligente, così al bene e onore della famiglia nostra affezionatissimo e
officiosissimo, el quale spesso con gli altri antichi Alberti confortandogli a
essere quanto egli certo erano in le cose desti e diligenti, solea dire queste
parole:
«Non è solo
officio del padre della famiglia, come si dice, riempiere el granaio in casa e
la culla, ma molto più debbono e' capi d'una famiglia vegghiare e riguardare
per tutto, rivedere e riconoscere ogni compagnia, ed essaminare tutte le usanze
e per casa e fuori, e ciascuno costume non buono di qualunque sia della
famiglia correggere e ramendare con parole più tosto ragionevoli che sdegnose,
usare autorità più tosto che imperio, monstrare di consigliare dove giovi più
che comandare, essere ancora severo, rigido e aspero dove molto bisogni, e
sempre in ogni suo pensiero avere inanti il bene, la quiete e tranquillità della
tutta universa famiglia sua, come quasi uno segno dove egli adrizzi ogni suo
ingegno e consiglio per ben guidare la famiglia tutta con virtù e laude; sapere
con l'aura, con favore e con quella onda populare e grazia de' suoi cittadini
condursi in porto di onore, pregio e autorità, e ivi sapere soprastarsi,
ritrarre e ritendere le vele a' tempi, e nelle tempestati, - in simili fortune
e naufragii miserandi, quali iniustamente patisce la casa nostra anni già
ventidue -, darsi a reggere gli animi de' giovani, né lasciargli agl'impeti
della fortuna abandonarsi, né patilli giacere caduti, né mai permettergli
attentare cosa alcuna temeraria e pazzamente, o per vendicarsi, o per adempiere
giovinile alcuna e leggiere oppinione; e nella tranquillità e bonaccia della
fortuna, e molto più ne' tempestosi tempi, mai partirsi dal timone della
ragione e regola del vivere, stare desto, provedere da lungi ogni nebbia
d'invidia, ogni nugolo d'odio, ogni fulgore di nimistà in le fronti de'
cittadini, e ogni traverso vento, ogni scoglio e pericolo in che la famiglia in
parte alcuna possa percuotere, essere ivi come pratico ed essercitatissimo
navichiero, avere a mente con che venti gli altri abbino navigato, e con che
vele, e in che modo abbiano scorto e schifato ciascuno pericolo, e non
dimenticarsi che mai nella terra nostra alcuno mai spiegò tutte le vele, benché
non superchie fussero grandi, il quale mai le ritraesse intere e non in gran
parte isdrucite e stracciate. E così conoscerà essere più danno male navigare
una volta, che utile mille giugnere a salvamento. Le invidie si dileguano dove
risplende non pompa ma modestia; l'odio s'atuta dove non alterezza cresce ma
facilità; l'inimicizia si rimette e spegne dove tu te armi e fortifichi non di
sdegno e stizza, ma di umanitate e grazia. A tutte queste cose debbono e'
maggiori delle famiglie aprire gli occhi e la mente, tendere el pensiero e
l'animo, stare da ogni parte apparecchiati e pronti a prevedere e conoscere el
tutto, durarvi fatica e sollecitudine, avervi grandissima cura e diligenza in
far di dì in dì la gioventù più onesta, più virtuosa e più a' nostri cittadini
grata.
«E sappino e'
padri ch'e' figliuoli virtuosi porgono al padre in ogni età molta letizia e
molto sussidio, e nella sollecitudine del padre sta la virtù del figliuolo. La
inerzia e desidia inrustichisce e disonesta la famiglia, i solleciti e
officiosi padri la ringentiliscono. Gli uomini cupidi, lascivi, iniqui, superbi
caricano le famiglie d'infamia, d'infortunii e di miserie. I buoni, per
mansueti, moderati e umani che siano, se non saranno molto nella famiglia
solliciti, diligenti, preveduti e faccenti in emendare e reggere la gioventù,
sappino che cadendo alcuna parte della famiglia, sarà forza a loro insieme
ruinare, e quanto e' saranno in la famiglia con più amplitudine, fortuna e
grado, tanto sentiranno in sé maggior fracasso. Le priete più che l'altre in
alto murate son quelle che cadendo più s'infrangono. Però siano e' maggiori al
bene e onore di tutta la famiglia sempre desti e operosi, consigliando,
emendando e quasi sostenendo la briglia di tutta la famiglia. Né però è se non
lodata, pia e grata opera con parole e facilità frenare gli apetiti de'
giovani, destare gli animi pigri, scaldare le volontà fredde a onorare sé stessi
insieme e magnificare la patria e la casa sua. Né anche a me pare opera se non
molto dignissima e facilissima nei padri delle famiglie a contenere con gravità
e modo, e ristrignere la troppa licenza della gioventù; anzi da qualunque di sé
stessi vorrà da' minori molto meritare serà cosa molto condecentissima
mantenersi il pregio in sé della vecchiezza, el qual credo sia non altro che
autoritate e reverenza. Né possono bellamente e' vecchi in altro miglior modo
acquistare, accrescere e conservare in sé maggiore autorità e dignità, che
avendo cura della gioventù, traendola in virtù, e renderla qualunque dì più
dotta e più ornata, più amata e pregiata, e così traendola in desiderio di cose
amplissime e supreme, tenendola in studii di cose ottime e lodatissime,
incendendo nelle tenere menti amore di laude e onore, sedando loro ogni
dissoluta volontà e ogni minima dislodata turbazione d'animo, e così
estirpandogli ogni radice di vizio e cagione di nimistà, ed empiendogli di
buoni ammaestramenti ed essempli, e non fare come usano forse molti vecchi dati
alla avarizia, e' quali ove e' cercano e' figliuoli farli massai, ivi gli fanno
miseri e servili, dove eglino stimano più le ricchezze che lo onore, insegnano
a' figliuoli arti brutte e vili essercizii. Non lodo quella liberalità quale
sia dannosa senza premio di fama o d'amistà, ma biasimo troppo ogni scarsità, e
sempre mi spiacque ogni superchia pompa. Stiano e' vecchi adunque come communi
padri di tutti e' giovani, anzi come mente e anima di tutto il corpo della famiglia.
E come avere il piè negletto e nudo sarebbe disonore al viso a tutto l'uomo e
vergogna, così e' vecchi e ciascuno maggiore in qualunque infimo di casa
negligente sappia sé meritare gran biasimo, se in parte alcuna lascia la
famiglia essere dissorevole o disonesta. Stia loro in mente essere de' vecchi
prima faccenda intraprendere per ciascuno di casa, come que' buoni passati
Lacedemoniesi che si riputavano padri e tutori d'ogni minore, e correggevano
ciascuno tutti i disviamenti in qualunque loro giovane cittadino si fusse, e
aveano i suoi più stretti e più congiunti carissimo e accettissimo fossero da
qualunque altri stati fatti migliori. Ed era lode a' padri render grazia e
merzè a chiunque si fusse, per far la gioventù più moderata e più civile, el
quale n'avesse intrapreso alcuna opera. E con questa buona e utilissima
disciplina de' costumi renderono la terra loro gloriosa, e ornoronla di fama
immortale e meritata. Però che ivi non era inimistà fra loro, ove gli sdegni e
le inimicizie subito erano nascendo svelte e regittate; ivi una sola volontà
fra tutti commune e operosa d'avere la terra ben virtudiosa e costumata. Alle
quali cose tutti s'afaticavano quanto in loro era studio, forza e ingegno, e'
vecchi con ammunire e ricordare e di sé stessi porgere lodatissimo essemplo, e'
giovani ubidendo e imitando».
Se queste e
molte più cose, quali soleva messer Benedetto recitare, tutte sono a' padri
delle famiglie necessarie; se la cura del reggere la gioventù non solo ne'
padri, ma negli altri ancora si conosce essere lodatissima, non sia adunque chi
stimi non essere debito come degli altri padri così mio procurare con ogni
argumento, ingegno e arte ch'e' miei a me figliuoli e carissimi rimangano
quanto più si può alla fede e pietà de' parenti e di ciascuno racomandatissimi
e gratissimi. E così, o figliuoli miei, veggo essere officio de' giovani amare
e ubidire e' vecchi, riverire l'età e avere e' maggiori tutti in luogo di
padre, e rendergli come è dovuto grandissima osservanza e onore. Nella molta
età si truova lunga pruova delle cose, ed èvvi el conoscere molti costumi,
molte maniere e animi degli uomini, e stavvi l'aver veduto, udito, pensato
infinite utilitati, e ad ogni fortuna ottimi e grandissimi rimedii. Nostro
padre messer Benedetto, del quale uomo, come fo in ogni cosa, però m'è debito
ricordarmi, perché in ogni cosa lui sempre cercò da noi essere conosciuto
prudentissimo e civilissimo, trovandosi con alcuni suoi amici in l'isola di
Rodi, introrono in ragionamenti delle inique e acerbe calamità della famiglia
nostra, e iudicavano avesse la nostra famiglia Alberta dalla fortuna ricevuta
iniuria troppo grande; e vedendo forse in qualcuno de' nostri cittadini qualche
fiamma d'invidia e d'ingiusto odio essere incesa, accadde a ragionamento che
messer Benedetto allora predisse alla terra nostra molte cose delle quali
medesime già n'abbiàno non poca parte vedute. Ivi parendo a chi l'udiva cosa
molto maravigliosa così apertamente predire quel che agli altri era udendo
difficile compreendere, pregorono gli piacesse manifestarli donde egli avesse
quel che così da lungi prediceva. Messer Benedetto, uomo umanissimo e
facilissimo, sorridendo si discoperse alto la fronte e monstròngli que' canuti,
e disse: «Questi capelli di tutto mi fanno prudente e conoscente».
E chi ne
dubitasse nella età lunga essere gran memoria del passato, molto uso delle
cose, assai essercitato intelletto a pregiudicare e conoscere le cagioni, il
fine e riuscimento delle cose, e sapere coniungere da ora le cose presenti con
quelle che furono ieri, e indi presentire quanto domani possa riuscirne, onde
prevedendo apparisca e conséguiti certo e accomodatissimo consiglio, e
consigliando renda ottimo rimedio a sostenere la famiglia in stato riposato e
rilevato, in qual sempre con fede e diligenza possa difenderla da qualunque
subita ruina, e con forza e virilità d'animo adirizzarla e ristituirla se già
fusse dagli urti della fortuna in parte alcuna commossa o piegata?
L'intelletto, la prudenza e conoscimento de' vecchi insieme colla diligenza
sono quelle che mantengono in fiorita e lieta fortuna e adornano di splendore e
laude la famiglia. A chi adunque può questo ne' suoi, mantenerli in felicità,
reggerli contro all'infelicità, sostenerli non senza ornamento a ogni fortuna,
qual possano e' vecchi, debbase loro non aver grandissima riverenza?
Debbano adunque
e' giovani riverire e' vecchi, ma molto più i propri padri, e' quali e per età
e per ogni rispetto troppo da' figliuoli meritano. Tu dal padre avesti l'essere
e molti principii ad acquistare virtù. El padre con suo sudore, sollecitudine e
industria t'ha condutto ad essere uomo in quella età, quella fortuna, e a
quello stato ove ti truovi. Se tu se' obligato a chi nella necessità e miseria
tua t'aiuta, certo a chi quanto poté mai te lasciò patire alcuno minimo
bisogno, a quello sarai obligatissimo. Se e' si debba ogni pensiero, ogni tua
cosa, ogni fortuna coll'amico communicare, sofferire sconcio, fatica e sudore
per chi ti porta amore, molto più pel padre tuo a chi tu se' più che alcuno
altro carissimo, e quasi più che a te stesso obligatissimo. Se dell'avere, del
bene, delle ricchezze tue, gli amici e conoscenti tuoi debbono in buona parte
goderne, molto più il padre, dal quale tu hai avuto se non la roba la vita, non
la vita solo ma il nutrimento tanto tempo, se none il nutrimento l'essere e il
nome. Adunque sia debito a' giovani referire co' padri e co' suoi vecchi ogni
volontà, pensiero e ragionamento suo, e di tutto con molti consigliarsi, e con
quegli in prima a' quali conoscono sé essere più che agli altri cari e amati,
udirgli volentieri come prudentissimi ed espertissimi, seguire lieti gli
amaestramenti di chi abbia più senno e più età. Né siano e' giovani pigri ad
aiutare ogni maggiore nella vecchiezza e debolezze loro; sperino in sé da' suoi
minori quella umanità e officio quale essi a' suoi maggiori aranno conferita.
Però siano pronti e diligentissimi cercando di dargli in quella stracchezza
della lunga età conforto, piacere e riposo. Né stimino a' vecchi essere alcuno
piacere o letizia maggiore quanto è in loro di vedere la gioventù sua ben
costumata e tale che meriti d'essere amata. E di certo niuno sarà maggior
conforto a' vecchi quanto di vedere quelli in chi lungo tempo hanno tenuto ogni
loro speranza ed espettazione, quelli per chi hanno avuti sempre i suoi
desiderii curiosi e solleciti, questi vederli per loro costumi e virtù esser
pregiati, amati e onorati. Molto sarà contenta quella vecchiezza quale vedrà
ciascuno de' suoi adritto e avviato in pacifica e onorevole vita. Sempre sarà
pacifica vita quella de' molto costumati; sempre sarà onorevole vita quella de'
virtuosi. Da cosa niuna tanto segue alla vita de' mortali gran perturbazione
quanto da' vizii.
Però sia vostro
officio, o giovani, con virtù e costumi cercare di contentare e' padri e ogni
vostro maggiore come nell'altre cose così in queste, le quali sono in voi lodo
e fama, e a' vostri rendono allegrezza, voluttà e letizia. E così, figliuoli
miei, seguite la virtù, fuggite e' vizii, riverite e' maggiori, date opera
d'essere ben voluti, fate di vivere liberi, lieti, onorati e amati. El primo
grado a essere onorato si è farsi voler bene e amare; el primo grado ad
acquistar benivolenza e amore si è porgersi virtuoso e onesto; el primo grado
per adornarsi di virtù si è avere in odio e' vizii, fuggire i viziosi. Volsi
adunque sempre aversi apresso de' buoni lodati e pregiati, né partirsi mai da
quelli onde abbiate essemplo e dottrina ad acquistare e appreendere virtù e
costume. E doveteli amare, riverire, e dilettarvi d'essere da tutti conosciuti
senza alcuno biasimo. Non siate difficili, non duri, non ostinati, non leggeri,
non vani, ma facilissimi, trattabili, versatili, e quanto s'appartenga nella
età pesati e gravi, e quanto in voi sia cercate con tutti essere gratissimi, e
inverso e' maggiori quanto molto si può reverenti e ubidenti. Suole la umanità,
mansuetudine, continenza e modestia ne' giovani non poco essere lodata; ma
verso e' maggiori la riverenza ne' giovani sempre fu grata e molto richiesta.
Non dirò per
millantarmi, ma ben per darvi domestici essempli, e' quali vi siano più ad
animo udirgli e più a mente a ricordarvene che gli strani. Non mi ramenta in
luogo alcuno, dove Ricciardo nostro fratello, o de' nostri altri di più età di
me fossero, ch'io mai volessi ivi essere veduto o sedere o starmi senza
rendergli grandissima riverenza. Mai fra più gente né in alcuno luogo publico
fu chi appresso de' miei maggiori mi vedesse se non ritto e aparecchiato se
cosa mi volessino comandare. Dovunque io gli avessi veduti, sempre levavo me
verso loro e discoprivami ad onorarli, e dovunque io gli trovassi, era mio
costume lasciare adrieto ogni mio sollazzo e compagnia per essere co' maggiori,
rendergli onore e acompagnarli. Né sarei mai ritrattomi da loro, né reduttomi
tra' giovani amici, se prima come da padre non avea impetrata licenza. Ed era
di questa mia osservanza e subiezione non da' vecchi tanto, ma da' giovani
ancora non biasimato, e a me parea averne fatto el debito mio, ché fare il
contrario, non aggradire, non pregiare, non sottoaversi a' maggiori arei
riputatomi a vergogna e biasimo. E più in ogni cosa a me sempre parse dovere
con Ricciardo come sempre feci, apertomi con lui, consigliatomi, riputatolo
come padre, tanto mi stava in animo essere debito degnare e onorare l'età.
Sarete adunque
quanto vi conforto verso e' maggiori molto riverenti, e quanto in voi stessi
potrete virtuosi. Né guardate, figliuoli miei, che la virtù in vista sia forse
duretta e aspretta, gli altri disviamenti in primo aspetto sieno proclivi e
dilettosi, imperoché adentro vi si truova questa tra loro grandissima
differenza: nel vizio abita più pentimento che contentamento, più vi surge
dolore che piacere, più vi truovi perdimento da ogni parte che utile. Nella
virtù tutto contra, lieta, graziosa e amena, sempre ti contenta, mai ti duole,
mai ti sazia, ogni dì più e più t'è grata e utile. E quanto in te saranno buoni
costumi e intere ragioni, tanto sarai pregiato e lodato, e da' buoni ben
voluto, e godera'ne fra te stesso. E se conoscerai te non essere non uomo, e
non vorrai umanitate alcuna essere da te lontana, certo arai non pochissima
parte di vera felicità in te stessi. Questo può la virtù per sé sola, rendere
beato e felice chi con tutto l'animo e tutte l'opere dedica sé a seguire e
osservare ogni erudimento e precetto col quale alontani sé da' vizii e fugga
ogni rio costume e cosa non lodata.
Io sono di quelli
che vorrei più tosto, figliuo' miei lasciarvi per eredità virtù che tutte le
ricchezze, ma questo non sta in me. Quello che in me stimai licito, sempre mi
sono operato darvi ogni principio, aiuto e modo con che voi conseguiate molta
lode, assai grazia e grande onore. A voi sta usare l'ingegno avete da natura,
credo non piccolo, né debole, e farlo migliore con studio ed essercizio di
buone cose, e con molta copia di buone arti e lettere. E la fortuna, la quale
io vi lascio, dovete adoperarla e distribuirla in que' modi tutti siano utili a
farvi grati come a' vostri, ancora simile a ogni strano. E' mi par ben potere
però dubitare che desiderarete qualche volta avermi in vita, figliuoli miei;
forse patirete degli affanni e necessità, quale essendoci io, manco vi
nocerebbono, ché a me non è nuovo quello possa la fortuna ne' deboli anni negli
animi inesperti de' giovani, a' quali manca e consiglio e aiuto. Ed èmmi
essemplo la casa nostra, la quale abonda di prudenza, ragione ed esperienza,
fermezza, virilità e constanza d'animo; pure conosce in queste nostre avversità
quanto con sua furia e iniquità la fortuna in qualunque saldo consiglio, e in
qualunque ferma e ben constituta ragione vaglia. Ma siate di forte e intero
animo. Le avversità sono materia della virtù. E chi è colui el quale di sua
fermezza d'animo, di sua constanza di mente, di sua forza d'ingegno, di sua
industria e arte vaglia di sé nelle seconde e quiete cose, nell'ozio e
tranquillità della fortuna, tanto meritare e acquistare laude e nome quanto
nella avversa e difficile? Però vincete la fortuna colla pazienza, vincete la
iniquità degli uomini collo studio delle virtù, adattatevi alle necessitati e
a' tempi con ragione e prudenza, agiugnetevi all'uso e costume degli uomini con
modestia, umanità e discrezione, e sopratutto con ogni vostro ingegno, arte,
studio e opera, cercate molto in prima essere, e apresso parere virtuosi. Né a
voi sia più caro, né prima desiderata alcuna cosa che la virtù, e in voi stessi
arete statuito sempre alla scienza e sapienza posporre ogni altra cosa, e indi
ogni utile della fortuna apresso di voi riputerete da non molto essere
pregiato. E ne' vostri desiderii lo onore solo e la fama si vendicaranno e'
primi luoghi, né mai posporrete le lode alle ricchezze e per asseguire onore e
pregio niuna cosa benché ardua e laboriosa mai vi parrà da nolla intraprendere
e proseguire, e delle fatiche vostre basteravvi aspettare non altro che grazia
e nome. Né dubitate che chi è virtuoso, quando che sia troverrà frutto
dell'opere sue, né vi sfidate con perseveranza e assiduità durare in studii di
buone arti, in pervestigazioni di cose rarissime e lodatissime, e in apprendere
e tenere buone dottrine e discipline, ché un tardo renditore spess'ora ne suole
venire con molta usura.
Né a me spiace
in voi che 'nsino da questa puerile e tenera età abbiate apparecchiata non
mezzana materia ad essercitarvi e ad imparare opporsi e sostenere gl'impeti
degli avversi casi umani. Lasciovi in essilio e senza padre, fuori della patria
e della casa vostra. Fievi lodo, figliuoli miei, ne' teneri e deboli anni, se
none in tutto, in parte almanco traiettarvi a superare la durezza e asprezza
delle necessitati, e nella ferma età a voi sarà quasi meritato in voi stessi
triunfo, se arete in ogni vita saputo poco temere la malignità e vincere
l'ingiuria della fortuna. E da ora stimate quanto in voi non mancherà
diligenza, sollecitudine e amore alle cose pregiate e oneste, tanto rarissimo
v'acaderà desiderare la presenza mia e molto meno l'aiuto degli altri mortali.
Chi in sé arà virtù, a costui pochissime altre cose di fuori saranno
necessarie. Troppo ampla ricchezza, troppo grande possanza, troppo singulare
felicità risiede in colui el quale saprà essere contento solo della virtù.
Beatissimo colui el quale si porge ornato di costumi, forte d'amicizie, copioso
di favori e grazia fra' suoi cittadini. Niuno sarà più in alta e più ferma e
salda gloria, che costui el quale arà sé stessi dedicato ad aumentare con fama
e memoria la patria sua, e' cittadini e la famiglia sua. Costui solo meriterà
avere il nome suo apresso de' nipoti suoi pien di lode e famoso e immortale, el
qual d'ogn'altra cosa fragile e caduca ne giudicherà quanto si debba, da nolla
curare e da spregiarla, solo amerà la virtù, solo seguirà la sapienza, solo
desiderrà intera e corretta gloria. Qui, figliuoli miei, nella virtù, nelle
buone arti, nelle lodate discipline sarà vostro officio essercitarvi, e dare
opera che per voi non manchi di venire tali quali costoro aspettano voi siate e
desiderano. Così fate, cercate in qualunque onesto modo, con tutte le fatiche,
con molto sudore, con ogni forza e industria meritare apresso di costoro lodo e
grazia, e insieme apresso degli altri benivolenza, dignità e autorità, e
apresso de' nipoti e di chi de' nipoti verrà memoria di voi, di vostri
singulari detti e fatti e opere.
E siate di
migliore animo. Qui è Adovardo, e Lionardo, e saracci Ricciardo, a' quali spero
sarete racomandati. Io conosco la natura di ciascuno di casa nostra Alberta
molto amorevole, e stimo non vorranno essere riputati sì duri, né sì spiatati
che non aiutassero e' suoi vedendo essercitarvi in virtù. Così vi priego,
Adovardo e tu Lionardo; voi vedete l'età di questi garzoni, conoscete el
pericolo della gioventù, gustate el bene e onore di casa; siate adunque
solliciti, pigliatene ciascuno di voi tutta la somma fatica. Egli è debito a
tutti studiare che nella casa crescano ingegni con virtù e fama. Perché piace
egli onorare chi già sia caduto di vita con sepulcri, ornarli con quelle
superchie e a' passati inutile pompe de' mortorii, se non perché la piatà e
officio de' vivi sia lodata e approvata? Se così credete, non serà egli
necessario molto più ornare e onorare e' vivi, contribuirvi, concorrere ove
bisogna a pignerli inanti e statuirli in luogo prestante e famoso a tutta la
famiglia. Non però voglio s'intenda questo esser ditto perché io stimi tanta
cosa in alcuno di costoro due miei, ma pure sarà vostra faccenda monstrare che
questo mio racomandarvegli, qual fo in presenza, doppo me gli sia giovato.
Così aveva
detto Lorenzo. Adovardo e Lionardo stavano muti, intenti, ascoltando. In questi
ragionamenti e' medici sopragiunsero e consigliorono Lorenzo alquanto si
riposasse. Così fece. Asettossi, e noi usciti fuori in sala: - Chi potrebbe
stimare, - disse Adovardo, - se none chi in sé stessi lo pruova, quanto sia
l'amore de' padri inverso a' figliuoli grande e veemente? Ciascuno amore a me
pare non piccolo. Sonsi veduti molti e' quali hanno esposto la roba, el tempo e
ogni suo fortuna, e sofferte ultime fatiche, pericoli e danni, solo per
dimonstrare quanto in sé sia fede e merito inverso dello amico. E dicesi essere
stato chi per desiderio delle cose amate, stimando sé già esserne privato, non
ha sofferto più restare in vita. E così sono le storie e la memoria degli
uomini piene di queste forze, le quali simili affezioni d'animo in molti hanno
provate. Ma per certo non credo amore alcuno sia più fermo, di più constanza,
più intero, né maggiore che quello amore del padre verso de' figliuoli.
Ben confesserei
a Platone que' suoi quattro furori essere nell'animo e mente de' mortali molto
possenti e veementissimi, quali e' ponea de' vaticinii, de' ministerii, de'
poeti e dell'amore. E così la passione venerea molto più in sé mi par feroce e
furiosissima. Ma vedesi quello non rade volte per disdegno, per disuso, per
nuova volontà, o per che altro si sia, scema, perisce e quasi sempre di sé
lascia inimistà. Né anche ti negherei la vera amicizia star legata d'uno amore
bene intero e ben forte. Ma non credo però ivi sia maggiore, né più officiosa e
ardente affezione d'animo che quella la quale da essa vera natura nelle menti
de' padri tiene sua radice e nascimento, se già a te altro non paresse.
LIONARDO A me
non acade giudicare quanto ne' padri verso de' suoi nati sia l'animo
affezionatissimo, perché io non so questo avere figliuoli, Adovardo, che
piacere o che dolcezza e' si sia. Ma quanto da lungi compreenda per coniettura,
ben mi pare giustamente potere essere di questa tua sentenza, e dire che
l'amore del padre per più rispetti sia troppo grandissimo; come d'altronde,
così vedendo da ora con quanta opera e con quanta tenerezza Lorenzo testé ci
racomandava questi suoi, non perché essistimasse necessario rendere a noi più
grati costoro, e' quali conosce ci sono gratissimi, ma credo quel fervore del
paterno amore lo traportava, e non gli parea che uomo alcuno, per
sollecitissimo, curiosissimo, prudentissimo che sia, possa abastanza negli
altrui figliuoli avere quanto riguardo e consiglio l'amore de' padri vi
desidera. E dicoti el vero, quelle parole di Lorenzo testé movevano me non più
là se non quanto mi pareva giusto e ragionevole avere pensiero e buona
diligenza de' pupilli e della gioventù di casa. Pure io non poteva alle volte
ritenere le lacrime. Te vedevo io stare tutto astratto; parevami pensassi fra
te stesso molto più oltre che io in me forse non faceva.
ADOVARDO Or
così era. Ogni parola di Lorenzo premeva me parte a pietà, parte a compassione.
Conoscermi ancora me essere padre, a' figliuoli d'un amico, parente buono
amorevole, a quelli che per sangue mi debbono essere cari, e tanto più poiché
e' sono a noi stati racomandati, non far quel medesimo loro che a' miei, non
essere inverso di loro animato come a' propri miei figliuoli, veramente,
Lionardo, sarei non buono parente né vero amico, anzi mi giudicaresti spiatato,
fraudulento e bene di cattivissima condizione, sare'ne biasimato, infame. E chi
non dovesse de' pupilli avere piatà? E chi non dovesse avere sempre inanzi agli
occhi quel padre di questi orfani, quel medesimo tuo amico, e quelle ultime
parole inscritte nel cuore, quali coll'ultimo spirito quel tuo, quel parente e
amico ti racomanda la più carissima cosa sua, e' figliuoli, fidasi di te,
lasciali nel grembo, nelle braccia tue? Quanto io, Lionardo mio, sono di questo
animo, che inanzi che io lasci costoro qui avere minimo disagio alcuno, prima
patirò che a' miei proprii ogni cosa manchi. Delle necessità de' miei io solo
n'ho a conoscere, ma de' mancamenti in chi m'è racomandato n'arà ogni buono,
ogni piatoso, ogni discreto a giudicare. E così a noi è debito satisfarne alla
fama, allo onore, al ben vivere e a' costumi. E stimo così: chi o per avarizia,
o per negligenza lascia uno ingegno atto e nato a conseguire pregio e onore
perire, costui merita non solo riprensione, ma ben grandissima punizione.
S'egli è poco lodo non custodire, non tenere pulito e in punto el bue, la
giumenta; e s'egli è biasimo, per inutile ch'ella sia, lasciare la bestia per
tua negligenza perire, chi uno umano ingegno terrà sommerso fra le necessitati
e malinconie, disonorato, arallo a vile, patirà per sua inerzia e strettezza
che manchi e perisca, non sarà costui degno di grandissima riprensione? Sarà
egli da nollo stimare ingiusto e inumanissimo? Ah! guardisi di tanta crudeltà,
tema la vendetta d'Iddio, oda quel publico espertissimo e verissimo proverbio
quale si dice: «chi l'altrui famiglia non guarda, la sua non mette barba».
LIONARDO Ben
veggio in parte quanto sia sollecita cosa l'essere padre. Le parole di Lorenzo
mi pare abbino te più a lungi tutto commosso che io non istimava. Questo tuo
ragionamento mi tira là, credo, dove sta l'animo a te sopra a' fanciulli tuoi.
E mentre che tu ragionavi, testé mi parse dubitare fra me stessi qual fusse più
o la cura e sollecitudine de' padri verso e' figliuoli, o il piacere e
contentamento in allevare e' nati. Della fatica non dubito io, ma credo però
essa sia non ultima cagione a voi padri farvi e' figliuoli più carissimi. Veggo
da natura quasi ciascuno ama l'opere sue, el pittore e il scrittore, e il
poeta; el padre molto più, stimo, perché più vi dura richiesta e più lunga
fatica. Tutti cercano l'opere sue piaccino a molti, sieno lodate, stiano quanto
sia possibile eterne.
ADOVARDO Sì
bene, quello in che tu se' affaticatoti più t'è caro. Ma pure egli è da natura
ne' padri non so come una maggior necessità, uno tale appetito d'avere e
allevare figliuoli, e apresso prenderne diletto di vedere in quelli espressa la
imagine e similitudine sua, dov'elli aduni tutte le sue speranze, e indi
aspetti nella sua vecchiezza averne quasi uno presidio fermo, e buono riposo
alla già stracca e debole sua età. Ma chi vorrà tutto ripensare seco e
considerare, troverrà che in allevare e' figliuoli sono sparse molte e varie
malinconie, e vederà come stanno e' padri sempre sospesi coll'animo, qual
faceva apo Terrenzio quel buono Mizio perché il figliuolo suo non era tornato
ancora. Che pensieri erano e' suoi? Che sospetti gli scorrevono per l'animo?
Quante paure lo premevano? Temea che il figliuolo non si trovassi caduto ove
che sia, o rotto o fiaccatosi qualche cosa. Va! ha! che alcuno uomo si metta in
animo a sé cosa cara più che sé stesso, e così c'interviene. Stiamo sempre
coll'animo al presente sollicito e timoroso, o col pensiero innanzi molto a
lungi desto e pauroso a scoprire ogni via per la quale noi pensiamo guidare e'
nostri a buona fortuna. E se la natura non richiedesse da' padri questa
sollicitudine e cura, credo sieno pochi e' quali non si pentissino avere
figliuoli. Vedi l'uccello e gli altri animali che fanno solo quanto in loro
comanda la natura, durano fatica in finire il nido, le cove, il parto, e stanno
obligati e faccendosi a guardare, difendere e conservare quello che è nato,
aggirano solleciti per pascere e nutrire que' deboli suoi picchini, e così
tutti questi e molti più altri affanni in sé grandi e gravi el debito della
natura ce gli alleggerisce. E quello che a te sarebbe spiacere e sconcio
incarco, pare che a noi padri sia grata, condecente e lieta soma, essendoci
quasi naturale necessità. E che però più de' figliuoli che d'ogni altra cosa?
Io nella vita de' mortali non so in che non sia tanto di male quanto di bene.
Le ricchezze sono riputate utili e da volerle, pur si pruova quanto sieno piene
di pensieri e malinconie. E sono le signorie riverite e temute, e pur si vede
manifesto quanto sieno cariche di sospetti e paure. E pare che ad ogni cosa
corrisponda il suo contrario; alla vita la morte, alla luce le tenebre; né
puossi avere l'uno senza l'altro. Così acade de' figliuoli, ne' quali sta niuna
speranza non accompagnata di molto desperare, né ivi truovi dolcezza alcuna o
letizia senza qualche tristezza e amaritudine. Quanto e' ti più crescono in
età, non nego, tanto e' ti portano allegrezza e' figliuoli, ma insieme
altretante maninconie ti s'aumentano. E negli animi umani si sentono più le
miserie che la felicità, meno le voluttà e letizie che e' dolori e acerbità,
però che queste più veementi pungono e premono, quelle più soavi ti
solleticano. E convienti avere de' figliuoli in ogni età pensiere e persino
dalle fasce; ancora e vie maggior sollecitudine quando e' ti crescono, e molta,
infinita più diligenza quando e' vengono più grandicelli, e molto più ancora e
più cura e opera quando e' vengono di più età. Però non dubitare, Lionardo, che
l'essere padre non sia cosa non solo sollicita, ma pienissima di maninconia.
LIONARDO Io
posso in voi padri credere così sia come altrove. Sempre veggo la natura da
ogni parte sollecita a provedere che ogni cosa procreata sé stessi conservi,
ricevendo da chi la produsse nutrimento e aiuto a perseverare in vita e a
porgere le sue utilitati in luce. Veggo nelle piante e arbuscelli quanto le
radici attraggono e distribuiscono alimento al tronco, el tronco a' rami, e'
rami alle frondi e a' frutti. Così forse sarà da stimare naturale a' padri che
nulla lascino adrieto per nutrire e mantenere quelli che sono di sé usciti e
per sé nati. E confesso a voi padri essere non se non debito avere cura e
sollecitudine per bene allevare i vostri nati. Né ora ti domando se quella così
fatta sollecitudine a' padri sia naturale necessità, o pure quasi come nato e
cresciuto amore da que' piaceri e da quelle speranze, quali si pigliano e'
padri dagli atti e presenza de' figliuoli; già che non rarissimo si vede uno
amerà questo più che quello suo figliuolo, e di cui forse gli parerà possa più
sperarne, in questo tale sarà più curioso a ornarlo, più liberale e facile a
compiacergli. E ancora si vede tutto il dì chi poco cura il suo figliuolo vada
in lontani e strani paesi stracciato fra le stalle, fra' disagii, in mezzo a'
pericoli, e dove, qual più gli debba dispiacere, forse diventi vizioso e
incorrigibile. Ma non sia per ora nostra contenzione investigare che principii,
crescimenti o fini in sé abbia ciascuno amore. Né anche cerchiamo onde ne'
padri verso i suoi nasca alcuna disparità d'amore, ché mi potresti rispondere
l'essere vizioso viene da corrotta natura e depravato ingegno. Però la natura
medesima, la quale in tutte le cose cerca convenienza e perfezione, disiunge e
priva e' viziosi figliuoli dal vero amore e dalla intera carità de' padri. E
anche forse hanno e' padri una o un'altra lode più cara ne' figliuoli che
tenersegli in mezzo a' domestichi ozii e vezzi, o quello ti paresse rispondermi
credo sarebbe lungo ragionamento.
E qui, non per
contradirti, ma solo per certificarmi ove tu dicevi che sino dalla fascia e'
padri truovano ne' figliuoli sì gravissime maninconie, non mi persuade che uno
savio padre debba pigliarsi ad animo nonché tristezza, ma né incarco alcuno di
molte altre cose, e di questo in prima quale s'appartiene alle femmine, alla
nutrice, alla madre più troppo che al padre. Stimo tutta quella età tenerina
più tosto devuta al riposo delle donne, che allo essercizio degli uomini. E
quanto io, sono di quelli che vorrei mai né trassinare e' picchini, né vederli
troppo da' padri, come talora li veggo, palleggiare. Stolti, che poco stimano
con quanti infiniti pericoli e' puerelli stiano nelle dure braccia de' padri,
a' quali piccola cosellina sconcia e distorce quelle ossicine tenerucce, e raro
si può stringerli o maneggiarli senza grandissimo modo che non si gli travolga
e disvolghi qualche membro, come per questo talora si ritruovano bistorti e
bilenchi. Adunque sia questa prima età in tutto fuori delle braccia de' padri,
riposisi, dorma nel grembo della mamma.
Quella età poi
che a questa segue, ne viene con molto diletto, col riso di tutti, e già
cominciano a proferire e con parole in parte dimonstrare le voglie sue. Tutta
la casa ascolta, tutta la vicinanza riferisce, non manca ragionarne con festa e
giuoco, interpetrando e lodando quel fece e disse. E già si vede gemmare e
apparire in quella come primavera di quella età, nel viso, nell'aria, nelle
parole e ne' loro modi infinite buone speranze, grandissimi segni di
sottilissimo intelletto e di profondissima memoria, e così per tutti se ne dice
ch'e' putti sono conforto e giuoco a' padri e a' suoi vecchi. Né credo si
truovi sì obligato di faccende, né sì carco di pensieri padre alcuno a chi non
sia la presenza de' fanciulli suoi molto sollazzosa. Catone, quel buono antico,
qual fu per sopranome savio chiamato, e riputato quanto era in tutte le cose
constantissimo e severissimo, si dice spesso interlassava l'altre grandissime e
publice e private sue faccende el dì, tornando molte volte a rivedere que' suoi
piccinini, tanto gli parea non acerbo e doglioso avere figliuoli, ma dolce e
dilettoso vedere el riso, udire le parole, godere di tutti que' vezzi pieni di
molta simplicità e suavità, quali sono sparti nella fronte di quella pura e
dolce prima età. Se adunque così è, Adovardo, se le sollecitudine de' padri
sono e piccolissime e con molto diletto, tutte piene d'amore e di buona
speranza, di riso, di festa e giuoco, queste vostre maninconie in che sono
elle? Gioverammi saperne ragionare.
ADOVARDO A me sarebbe
molto caro tu, come in parte so io, per pruova sapessi ragionarne. Ben mi duole
di voi non pochi giovani Alberti, e' quali vi trovate senza eredi, senza avere
quanto potresti accresciuta la famiglia e fattola molto populosa. Che è questo
a dire? - che io annoverava pochi dì fa non meno che venti e due giovani
Alberti vivere soli senza compagna, non aver moglie, niuno manco che sedici,
niuno più che anni trenta e sei. Duolmene certo e veggo quanto sia danno
grandissimo alla famiglia nostra se tanto numero di figliuoli, quanto da voi
giovani si richiede, mancherà; ché giudico da volere prima sostenere ogni
sconcio e ogni dispiacere che patire qui la famiglia rimanga sola, senza vedere
chi succeda nel luogo e nome de' padri. E perché io vorrei che tu in prima fra
gli altri fussi uno di quelli el quale, come fai di fama e nome, così di
figliuoli simili a te riempiessi e aggrandissi la famiglia Alberta, però mi
ritemo persuaderti cosa alcuna onde tu avessi da dubitare e ritrarti. Ché credo
assai da presso ti monstrerrei le maninconie de' padri per ogni età essere non
poche, né poco acerbe e dure, e vederesti negli affezionatissimi padri da
quella prima età nascere non sempre giuoco e riso, ma spesso tristezza e
lacrime. E anche non negheresti a' padri stare grande affezioni, grande
sollecitudini, molto prima ch'e' figliuoli ci portino riso o sollazzo alcuno.
Convienci pensare molto innanzi a ritrovare buona balia, cercarne con molta
opera per averla a tempo, investigare ch'ella non sia inferma né scostumata, e
porvi mente e diligenza ch'ella sia vacua, libera e netta di que' vizii e di
quelle macule quali infettano e corrompono il latte e il sangue; e più abbiamo
da procurarla tale che in casa seco porti né scandolo né vergogna. Sarebbe
lungo racontare quanto riguardo qui sia a noi padri necessario, quanta fatica
per ciascuno in tempo vi si duri prima che truovi quanto si conviene onesta,
buona e faccente balia. Né forse crederresti quanto sia maninconia, ripetio e
rimordimento d'animo nolla trovare a tempo, o nolla avere poi sufficiente, le
quali cose pare che ne' maggiori bisogni più sempre manchino. E sai quanto sia
nella inferma e scostumata balia pericolo come di lebra, epilenzia, e così di
tutte quelle gravissime infermitati, quali si dice possono venire dalla poppa;
e anche sai quanto siano rare le buone nutrice e da molti richieste.
Ma che vado io
pure racontando ogni minima cosa? Poiché m'è più caro stimi e' figliuoli siano,
come a dire il vero sono, a' padri grandissimo sollazzo, que' piccini vederli
lieti atornoti, maravigliarti d'ogni loro atto e parola, riputarla da grande
sentimento, prometterti fra te stesso assai buona speranza. Una cosa forse può
far piccole queste dolcezze e renderti molto maggiori e più cocente cure
all'animo. Stima tu a chi duole vederli piangere se forse cadendo un poco si li
percuotono le mani, quanto gli sarà molesto pensare che più fanciulli di quella
età che d'ogni altra periscono. Pensa quanto gli sia acerbità aspettare d'ora
in ora essere privato di tanta voluttà. Anzi mi pare questa età prima esser
quella che da ogni parte sparge le molte e grandissime maninconie, e quasi solo
questa si vede piena di vaiuoli, fersa e rosolia, né mai sta senza crudezze di
stomaco, al continuo giace deboluzza, e sempre langue carca di molte altre
infermità, quali né tu conosci, né quelli picchini ti sanno dirle, onde in te
stimi ogni loro piccolo male essere grandissimo e tanto maggiore quanto ti
sfidi come a non conosciuta malattia vi si possa dare vero e utile rimedio. Però
ogni minima dogliuzza de' figliuoli nell'animo de' padri tiene grandissimo
tormento.
LIONARDO Troppo
aresti tu caro, Adovardo, ch'io non potessi più come colui dire quello che si
riputa felicissima cosa: «mai ebbi moglie». Ben sai tu se io vi sono di buono e
ardente animo, e credo non fastidia te che a me siano da molti, quanto troppo
spesso sono, l'orecchie riscaldate. E veggo non t'è a odio che chi non ha che
dirmi, chi altrimenti si truova povero di parole, mancandogli ogni altra trama
a ragionare, entri a cinguettare a darmi moglie, e qui effunda grandissimi
fiumi d'eloquenza in demonstrarmi e lodarmi el coniugio, la società constituta
da essa primeva natura, la procreazione de' successori eredi, l'accrescimento e
amplificazione della famiglia, comandandomi «to' questa o quella nella quale
non hai da disiderarvi o più dota, o maggior bellezze, o migliore parentado». E
così spesso con troppa loro presunzione, ove cercano incendermi volontà di non
starmi libero come mi sto, incendono in me qualche iusta indegnazione. E pur
vorrei anch'io testé non trovarmi senza moglie, e arei caro aver figliuoli,
acciò che in te non fusse tanto avantaggio più che a me che io non potessi
refutare l'autorità tua per pruova quanto con argomenti. E sallo Dio e anche tu
quanto io vi sia d'animo fervente, e come spesso e teco e con altri abbiamo
ricercato trovare cosa ci s'affaccia. Ma che disaventura sia la nostra certo mi
pesa. Quelle vergine quale gusterebbono a te dispiaceno a me. Quelle che a me
forse non sarebbono moleste, a voi altri mai pare si condicano, e così mi si
rimane l'animo ardentissimo, non tanto d'avere nella famiglia el luogo e il
nome mio doppo me non ispento e anullato, ma anche molto più mi sta el volere
omai uscire di tanta seccaggine di tutti gli amici e conoscenti a chi, non so
per che invidia, la libertà mia del starmi senza femmina dispiace. Ma io temo a
me non intervenga come si scrive apo gli antichi di quel fonte sacro in Epiro,
nel quale un legno infiammato si spegne, e uno spento e freddo vi si raccende.
Però forse sarà il meglio voi lasciate me da me stesso infiammato satisfarvi, o
se pure credete il vostro dire in me faccia utile opera alcuna, consigliovi
aspettiate questo mio ardente desiderio del tôr donna si rafreddi.
Ma noi abbiamo
riso assai. Quanto se io avessi fanciugli, io non mi piglierei quella fatica di
cercare altra nutrice che la loro medesima madre. E' mi ramenta Favorino, quel
filosofo d'Aulo Gelio, e tutti gli altri antichi quanto e' lodan più el latte
della madre che alcuno altro. Forse questi medici appongano che dare el latte
le indebolisce e falle talora sterile. Ma pure io posso credere dalla natura
sia bene a tutto proveduto, e debbasi stimare non sanza cagione, ma bene con
gran ragione quanto si vede insieme colla grossezza ivi nascere in copia e
multiplicarsi el latte, quasi come la natura stessa ci apparecchi al bisogno e
dicaci quanto a' figliuoli dalle madri aspetti. Piglierei questa licenza se la
donna per sinistro alcuno fusse diventata debole: io provederei, come tu di',
d'avere balia buona, esperta e costumata, non per lasciar più ozio alla donna,
non per torgli quella verso de' figliuoli devuta faccenda, ma per dare meno
tristo nutrimento al fanciullo. E credo il vero che, oltre a quelle infermità,
quali tu dicevi potevano dal corrotto latte venire, ancora più la nutrice non
onesta, non costumata, sarà sufficiente ne' costumi del fanciullo nuocere e
inclinallo a' vizii ed empierli l'animo di furiosi e bestiali passioni come
d'iracundia, timidità, spaventi e simili mali. E credo se la balia o da sé fia,
o per uso di vini troppo fumosi e pretti, o per altri riscaldamenti d'animo
focosa, e arà il sangue suo infiammato e riarso, forse sarà facile in colui, el
quale arà da costei preso nutrimento così acceso e adusto, conseguirli l'animo
proclive e incitato ad ira, immanità e bestialità. E così ancora può la
lattatrice male contenta, piena di rancore e gravezza d'animo, rendere quel
fanciullo pigro ed enervato e timido, e così tali simili cagioni possono assai
ne' primi tempi. Vedesi uno arborcello non avendo donde e' pigli nutrimento
appropriato a sé e ne' primi bisogni quanto si doveva copia d'aere e umidità,
lo fa di poi stare sempre languido e seccuccio. E pruovasi che piccola piagolina
a uno tenero rampollo più nuoce che due grandi squarciature a uno annoso
tronco. Pertanto si vuole molto provedere che a quella tenerina età sia
nutrimento quanto si può ottimo. Però si proccuri al bisogno avere la balia
lieta, netta, senza alcuno riscaldamento o turbazione di sangue o d'animo;
faccia vita modesta, né sia immoderata in cosa alcuna, né scostumata; le quali
cose sì, come tu dicevi, raro si truovano nelle nutrice, però ti resta da
consentirmi che certo le proprie madri sono come più che l'altre baliacce
modestissime e costumatissime, così più atte e molto più utili a nutrire e'
suoi proprii figliuoli. Né starò raccontando qui quale con più amore, con più
fede, diligenza e assiduità governerà el fanciullo, o quella condutta per
pregio, o la propria madre. Né ancora mi stenderò a provarti quanto l'amore
verso del figliuolo si conservi e confermi alla madre quando el figliuolo sarà
nel suo seno cresciuto e nutrito. E quando pure bisognasse, che raro non
mancando la madre accade, cercare la balia e avere in queste tali dette cose
sollecitudine, non pare a me faccenda troppo grave. E forse veggo molti uomini
con diletto affaticarsi in utilitati minori che non è per salute de' figliuoli,
cosa lodevole e molto devuta.
Ma ben sai,
stare in paura come tu mi parevi e dubitare di quella prima età periscano
molti, a me questo non pare da lodare. E' si vuole, mentre che ne' fanciulli si
sente spirare qualche anima, più tosto sperarne meglio che dubitarne. Né sono
talora sì grande le dogliuzze de' fantini quanto elle paiono. Vedevilo ieri
giacere languido e tutto quasi fuori di vita: oggi tutto vivo, tutto forte ti
s'apresenta, per tutto transcorre. E quando a Dio fusse in qualche età piaciuto
che a' figliuoli tuoi el corso de' giorni suoi fusse finito, stimo sia officio
de' padri più tosto ramentarsi e rendere grazia de' molti piaceri e sollazzi,
quali e' figliuoli hanno loro dati, che dolersi se chi te gli prestò se gli ha
in tempo rivoluti. Lodasi quella antiqua risposta d'Anassagora, el quale come
prudente e savio padre udendo la morte del figliuolo, quanto dovea con paziente
e ragionevole animo disse, sapea sé avere generato un uomo mortale, e non gli
parea intollerabile se chi era nato per morire già fusse morto. Ma qual si
truova rustico sì imperito e sciocco, el quale in sé non sia certissimo come
nulla cosa può dirsi morta qual prima fusse stata non viva, così nulla essere
in vita che non aspetti quanto era dovuta a morte?
E forse ti dirò
tanto, Adovardo, ch'e' padri lo dovrebbono avere, non voglio dire caro, ma
certo molto meno a molestia s'e' figliuoli muoiono senza maggior vizii e senza
sentire quanti molti affanni siano in questa vita de' mortali. Niuna cosa si
truova più faticosa che 'l vivere; e beati coloro che uscirono di tanti stenti
e finirono i dì suoi giovinetti in casa de' padri nella patria nostra! Felici
loro che non sentirono le miserie nostre, non sono iti errando per le terre
altrui senza dignità, senza autorità, dispersi, lontani da' parenti, dagli amici
e da' cari suoi, sdegnati, spregiati, scacciati, odiati da chi riceveva onore e
cortesia da noi! O infelicità nostra per tutte le terre altrui trovare nelle
avversità nostre aiuto e qualche riposo, in tutte le genti strane la nostra
calamità trovare pietate e compassione, solo da' nostri proprii cittadini già
tanto tempo non potere impetrare misericordia alcuna! Senza cagione proscritti,
senza ragione perseguiti, senza umanità negletti e odiati!
Ma che volevo
io dire? A ogni età non mancano spesse infermità grandi e gravi non meno che
nella prima infanzia, se già e' grandi e atempati ti paressino colle sue gotti,
scese, fianchi e sciatiche più che gli altri leggieri e liberi, o vero
giudicassi che le febbri, dolori e morbi non potessero a' robusti e fermi
giovani nuocere quanto a' fanciulli. E quando ben qualche età fusse più
percossa dall'ultime infermità, sarae però da non biasimare quel padre, el
quale non tenga sé quanto si richiede moderato e prudente? E part'egli poca
stultizia pure averti coll'animo pauroso e sollicito dove a te non sia licito
prendervi altro alcuno rimedio?
ADOVARDO Io non
voglio però contender teco, né disputare le cose sì a sottile. Sono contento
giudichi poco savio chiunque teme quello a che non si può rimediare. Con questo
o tu non riputare me pazzo, benché io in molte cose non sia e inverso de'
fanciulli miei sanza paura, o tu ditermina che tutti i padri sieno stoltissimi,
poiché niuno si truova el quale non molto procuri e tema di non perdere que'
che gli sono carissimi. La qual cosa se alcuno biasima, insieme vitupera
l'essere padre. E qui me conduco, Lionardo. Sieno, s'egli è possibile, e' padri
certi ch'e' figliuoli persino all'ultima vecchiezza rimarranno in sanità e
prosperità; aspettino e' padri veder e' nipoti de' suoi nipoti, qual si scrive
vidde a sé nati divo Augusto Cesare; non temano in loro alcune gravissime
malattie, le quali talora sono non meno che la morte acerbe e intollerabili, e
speri ciascun padre sé essere simile a Dionisio tiranno siracusano, quale in
età d'anni sessanta né de' figliuoli di tre sue mogli, né de' molti suoi
nipoti, mai acadde farne essequie alcuna; e stia in arbitrio de' padri la vita
e la morte de' figliuoli, la lunga età e la breve vita, come stette ad Altea,
alla quale concessero gli dii che tanto il suo figliuolo Meleagro vivesse,
quanto durava salvo e intero quel tizzone quale essa gittò crucciata in mezzo
il fuoco, onde consumato il legno fu la vita a Meleagro finita: dico ch'e'
figliuoli non sarebbono però a' padri se non pieni di maninconia.
LIONARDO A me
cotesto pare più da confessarlo a te, el quale non vuoi contendere, che da
crederlo a uno altro da cui mi paresse a quel che dice domandarne ragione. Ma
forse io scorgo dove tu potresti riuscire, come interviene a molti pochi savi
padri che si straccano e scalpestano la sua vita tutta in arti faticosissime,
in viaggi e travagli grandissimi, e vivono in disagii e servitù per lassare gli
eredi suoi abondanti d'ozio, delizie e di pompa.
ADOVARDO Tu so
non riputi me di quelli così fatti che io stia molto tempo pe' miei figliuoli
occupato a congregare quello che in uno minimo momento può la fortuna, nonché a
chi e' si lascia, ma a chi l'acquista, torlo. Ben dico che mi sarebbe caro
lasciare e' miei ricchi e fortunati più che poveri, e molto desidero, e molto,
quanto in me sta, m'adopero lasciarli in tale fortuna che poco abbino ad
arivare alle merzè d'altrui, ché non sono ignorante quanto sia miseria ne' suoi
bisogni non potersi aiutare senza le mani d'altrui. Non credere però, s'e'
padri non temono morte e povertà ne' figliuoli, che siano senza maninconia. E
dove sta il peso di fargli costumati? Apresso il padre. Dove sta la soma di
fargli imparare lettere e virtù? Appresso il padre. Dov'è quel carico smisurato
di fargli apprendere una e un'altra dottrina, arte, scienza? Pure appresso il
padre, ben sai. Agiugni a queste la grandissima sollecitudine che hanno i padri
in scegliere quale arte, quale scienza, qual vita più si confaccia alla natura
del figliuolo, al nome della famiglia, al costume della terra, alle fortune, a'
tempi e condizione presenti, alle occasioni, alle espettazioni de' cittadini.
Non patisce la terra nostra che de' suoi alcuno cresca troppo nelle vittorie dell'armi.
Savia, perché sarebbe pericoloso alla nostra antichissima libertà, se chi have
adempiere nella republica le sue voluntà con favore e amore degli altri
cittadini, potesse con minacce e forza d'arme aseguire quanto l'animo il
traporta, quanto la fortuna si gli porge, quanto il tempo e condizioni delle
cose gli accede e persuade. Né anche fa la terra nostra troppo pregio de'
litterati, anzi più tosto pare tutta studiosa al guadagno e cupida di
ricchezze. O questo il paese che lo dia, o pure la natura e consuetudine de'
passati, tutti pare crescano alla industria del guadagno, ogni ragionamento
pare che senta della masserizia, ogni pensiero s'argomenta ad acquistare, ogni
arte si stracca in congregare molte ricchezze. Non so se in noi Toscani questo
fusse o da' cieli, come diceano gli antichi che, perché Atene avea il cielo
puro e leggiero, però ivi erano uomini sottili e d'ingegni acuti; Tebe avea il
cielo più grasso, però erano e' Tebani più tardi e meno astuti. Alcuni
affermavano perché i Cartaginesi si trovavano il paese sterile e arido, per
questo a loro era forza ne' suoi bisogni avere conversazione e ospizio con
molte vicine ed estranee genti, onde riveniano esperti e dotti in molta astuzia
e inganni. E anche forse si può credere ne' cittadini nostri l'uso e
consuetudine de' passati abbia amminicolo e possanza. Come scrive Platone, quel
principe de' filosofi, che ogni costume de' Lacedemoniesi era infiammato di
cupidità di vincere, così stimo alla terra nostra il cielo produce gl'ingegni
astuti a discernere el guadagno, el luogo e l'uso gl'incende non a gloria in
prima, ma ad avanzarsi e conservarsi roba, e a desiderare ricchezze, colle
quali e' credono meglio valere contro alle necessità, e non poco potere ad
amplitudine e stato in fra i suoi cittadini. E se così fusse, quanto saranno
solliciti e' padri quali stimeranno il figliuolo più atto alle lettere o arme
che a racogliere o coadunare denari! Non gli combatterà egli nell'animo uno
volere seguire el costume della terra contro a uno desiderare d'adempiere le
sue grandissime speranze? Sarà egli poco stimolo a' padri così avere a posporre
l'utile e onore de' figliuoli e della famiglia sua? Non gli sarà egli
gravissimo all'animo, per schifare odio e invidia de' suoi cittadini, esserli
non licito quanto vorrebbe e gioverebbe, dirizzare il figliuolo a una o
un'altra virtude o lode? E testé non occorrono a me in mente tutte le nostre
doglie, e forse sarà troppo lunga opera e troppa esquisita fatica volertele a
una a una tutte racontare. Basti a te quinci vedere ch'e' figliuoli sono a'
padri pieni di lagni e maninconie innumerabili.
LIONARDO
Quanto, Adovardo, se io ti dicessi ch'e' padri non avessino a sofferire delle
fatiche, sendo ogni vita, come dicea Crisippo, grieve e laboriosa. Nessuno si
truova mortale a chi el dolore non tocchi. Le infermità, la paura e le
maninconie lo premano; sotterrare figliuoli, amici e parenti; perdere e di
nuovo rifare; aspettare e proccurare quanto bisogna ad infinite nostre
necessitati. E questa pena pare data a chi ci vive, che reiterate le piaghe
della fortuna, nelle case s'invecchi con lacrime, merore, e in veste nera. Sì
che, se i padri fussero più che gli altri mortali sciolti da queste leggi a noi
date dalla natura, e securi da queste incursioni e impeti delle cose, e liberi
da tante a tutti gli uomini necessarie cure e pensieri, quali al continuo
l'animo di chiunque si sia non stolto avolgono, credo sarebbono e' padri più
che gli altri felici e beati. Non ti niego però ch'e' padri sopratutto più che gli
altri debbano colle mani e co' piedi, con tutti e' nervi, con ogni industria e
consiglio, quanto possono sforzarsi ch'e' figliuoli sieno costumati e
onestissimi, sì perché fanno l'utile de' suoi, - il costume in uno giovane si
stima certo non meno che la ricchezza, - sì etiam perché rendono
ornamento e pregio alla casa e alla patria sua e a sé stesso. I figliuoli
costumati sono testimoni e lodo della diligenza de' loro padri. E stimasi
meglio essere alla patria, s'i' non erro, e' cittadini virtudiosi e onesti che
i ricchi molto e possenti. E di certo e' figliuoli non costumati debbono essere
a' padri non insensati e stolti grandissimo dolore, non tanto perché a loro
dispiacciono le bruttezze e spurcizie de' figliuoli, quanto ché niuno dubita
ogni scorretto figliuolo rendere al padre in molti modi non piccola vergogna,
ove certo ciascuno conosce e giudica quanto stia ne' padri delle famiglie fare
la gioventù sua onesta, costumata e virtudiosa. Né credo sarà chi nieghi
questo, che tanto possono e' padri ne' loro figliuoli quanto e' vogliono. E
come uno buono e sollecito scorgitore farà uno puledro mansueto e ubidiente,
quale un altro men destro e negligente non arà potuto imbrigliarlo, così e'
padri ne' suoi con diligenza e modo gli renderanno civilissimi e modestissimi.
Onde non senza grandissimo biasimo di negligenza saranno e' padri quali aranno
e' figliuoli non corretti, ma disviati e scelerati.
Però in questo
sarà la prima cura e pensiere de' maggiori, come dianzi diceva Lorenzo, in
provedere che la gioventù sua quanto si può sia ornatissima di virtù e costume.
Del resto consiglierei io e' padri che ne' figliuoli seguissero piuttosto il
ben della famiglia che il giudicio del volgo, già che si vede questo, alla
virtù mai quasi manca ricetto e luogo, per tutto truova dove essere lodata la
virtù e amata. Però farei come faceva quello Apollonio alabandese retorico
quale, se i giovani non gli pareano bene atti alla eloquenza, gli traduceva a
quegli mestieri da natura più si gli afaceano, e non se gli lasciava apresso
perdere tempo. E scrivesi di quelli Ginnosofiste, populi orientali, riputati
fra gl'Indii savissimi, che allevavano e' nati non a voglia e desiderio del
padre, ma secondo el ditto e sentenza di que' publici savi, a' quali era officio
notare il nascimento e l'effigie di ciascuno. Indi giudicavano quanto e a che
cosa fussero meglio atti, e in quelle come da questi prudenti vecchi era
commendato, sé essercitavano. E se fussero stati a' buoni essercizii deboli e
disadatti, non era chi volesse perdervi né spese né fatiche: dicesi gli
gittavano e talora gli anegavano. Così facciano e' padri a quello ch'e'
figliuoli sono atti, ascoltino l'oraculo d'Apolline, quale rispuose a Cicerone:
«segui coll'opera e colla industria là dove la natura e lo 'ngegno tuo ti
tira». E s'e' figliuoli sono pronti e accomodati alle virtù, a' fatti virili,
alle scienze e arti prestantissime, alla vittoria e gloria delle armi,
ponganvisi, faccianvisi essercitare e apprenderle, e diesi opera che insino
dalla prima età vi si avezzino. Qualunque uso pigliano e' minori, con esso
crescono. E se forse non fussero o per ingegno, o per intelletto, o per
fermezza o prosperità, sufficienti alle cose maggiori, diesi loro minori e più
leggieri essercizii, e sempre se gli preponga essercitazioni quanto a loro sarà
possibile essequirle, magnifice, virili e onorate. E se non fussero idonei e
abili a quelle lodatissime, e se fussero inutili ad altro, facciano e' padri
simile a que' Ginnosofiste, aneghino i figliuoli nelle cupidità, facciangli
cupidenarii, incendino ne' giovani volontà non ad onore e gloria, ma all'auro,
ricchezza, al quattrino.
ADOVARDO E
questo ci duole ancora, Lionardo, che noi non sappiàno il certo, qual via sia
più a' nostri facile, né bene scorgiamo a quale buon corso la natura gl'invii.
LIONARDO Quanto
io, stimo a uno padre diligente e desto non sarà questo molto difficile,
conoscere a che essercizio e a che laude e' figliuoli suoi sieno proclivi e
disposti. Quale più sempre fu incerto e dubbioso che il ritrovare quelle cose,
le quali in tutto voleano starsi nascose, le quali la natura si serbava molto
entro coperte sotto la terra? Pur questo si vede, gl'industriosi artefici
l'hanno ritrovate e agiunte. Chi disse all'avaro e cupido là sotto fussero
metalli, argento e auro? Chi gl'insegnò? Chi gli aperse la via sì difficile e
ambigua ad andarvi? Chi lo fé certo fussino minere più tosto di preziosi
metalli che di piombo? Furono gl'indizii, furono e' segni per li quali si
mossono ad investigare, e co' quali investigando conseguirono, e addussorli in
notizia e uso. E tanto potette la industria e diligenza degli uomini che nulla
cosa di quelle occultissime più a noi sta non conosciuta. Ecco ancora gli
architetti vorranno edificare el pozzo o la fonte. Prima cercano gl'indizii, né
però cavano in ogni luogo, perché sarebbe inutile spesa cavare dove non fusse
buona, netta e presta vena. Però pongono mente sopra terra onde possano
conoscere quello che sta sotto, entro, dalla terra nascoso. E dove e' veggono
el terreno tuffoso, arido e arenoso, ivi non perdono opera, ma dove surgano
virgulti, vinci e mirti, o simile verzure, ivi stimano porre sua opera non
indarno. E così non, senza indizio, si danno a seguire quanto allo edificio
sarebbe accommodato, ma dispongono lo edificio a meglio ricevere quel che
gl'indizii gli prescrivono.
Simile adunque
faccino e' padri verso de' figliuoli. Rimirino di dì in dì che costumi in loro
nascono, che volontà vi durino, a che più spesso ritornino, in che più sieno
assidui, e a che peggio volentieri s'induchino. Imperoché di qui aranno copiosi
e chiari indizii a trarne e fermarne perfetta cognizione. E se tu credessi
nell'altre cose ascosissime avere e' segni manco fallaci che ne' costumi e nel
viso degli uomini, e' quali sono da essa natura congregabili, e volentieri e
con studio si congiungono, e fra gli uomini lieti convivono, fuggono, spiacegli
e attristagli la solitudine; se tu in costoro credessi trovare meno indizio e
meno certezza che in quell'altre cose copertissime e in tutto dal necessario
uso, presenza e giudicio de' mortali rimotissime, certo erreresti. La natura,
ottima constitutrice delle cose, volle nell'uomo non solo che viva palese e in
mezzo degli altri uomini, ma certo ancora pare gli abbia imposto necessità che
con ragionamento e con altri molti modi comunichi e discopra a' medesimi uomini
ogni sua passione e affezione, e raro patisce in alcuno rimanere o pensiero o
fatto ascoso, e non da qualcuno lato saputo dagli altri. E pare che la natura
stessa dal primo dì che qualunque cosa esce in luce abbia loro iniunte e
interserte certe note e segni patentissimi e manifesti, co' quali porgano sé
tale che gli uomini possano conoscerle quanto bisogna a saperle usare in quelle
utilità sieno state create. E più nell'ingegno e intelletto de' mortali have
ancora inseminato la natura e inceso una cognizione e lume di infinite e
occultissime ragioni di ferme e propinque cagioni, colle quali conosca onde e a
che fine sieno nate le cose. E agiunsevi una divina e maravigliosa forza di
sapere distinguere ed eleggere di tutte qual sia buona e qual nociva, qual
mala, qual salutifera, quale accommodata e qual contraria. E vedi sì tosto come
la pianta si scopre sopra della terra, così allora il pratico e diligente la
conosce, e chi meno fusse pratico, colui alquanto più tardi la conoscerebbe.
Ma certo ogni
cosa prima è conosciuta che scemata, prima redutta ad uso che mancata. E così
stimo la natura negli uomini faccia il simile. Né a' fanciulli diede sì coperte
e oscure operazioni, né a' padri sì rozzi e inesperti iudicii che non possano
di molti luoghi compreendere a che i figliuoli suoi più s'adirizzino. E vederai
dal primo dì che 'l fanciullo comincia a dimonstrare suo alcuno appetito,
subito si scorge a che la natura lo 'nchina. Ramentami udire da' medici ch'e'
parvuli, quando e' ti veggono così grillare colle mani, allora se vi badano, se
vi si destano, dimonstrano essere composti alli essercizii virili e all'arme. E
se più loro piace que' versi e canti co' quali si sogliono ninnare e
acquietare, significa che sono nati all'ozio e riposo delle lettere e alle
scienze. E un diligente padre di dì in dì compreenderà e penserà per meglio
iudicare ne' figliuoli ogni piccolo atto, ogni parola e cenno, come si scrive
fece quel ricco agricoltore Servio Oppidio canusino: perché e' vedea uno de'
suoi figliuoli sempre avere el seno suo pieno di noci, giucare e donare a
questo e a quello, l'altro vedea egli tutto quieto starsi e tristerello, anoverandole
e per le bucherattole transponendole, conobbe per questo solo indizio in
ciascuno di loro che ingegno e animo vi fussi. Però, morendo gli chiamò, e
disse dividea loro la eredità, perché e' non volea, se alcuna pazzia toccasse
loro, avessero insieme materia d'adirarsi. E feceli certi come e' vedea non
erano di una natura, ma l'uno sarebbe stretto e avaro, l'altro prodigo e
gittatore. E non voleva dove in loro fusse tanta contrarietà d'ingegno e di
costumi, ivi fussero simili e' loro animi oppositi e contrarii. E dove nella
masserizia e spese non fussero d'una opinione e volere, provedeva fra loro
venisse ira niuna, né vi cadesse dissidio alcuno di ferma benivolenza e amore.
In costui adunque fu buona e lodata diligenza. Fece come è officio a' padri di
fare: stare curioso e cauto a provedere ogni atto ne' figliuoli e ogni indizio,
e con questi misurare che volontà e che animi si scuoprono, e a quel modo
scorgere a che ciascuno più sia da natura cinto e pronto.
E possono di
molti luoghi e' padri assai bene scorgere a che ciascuno fanciullo s'adirizzi.
Nessuno uomo è di così compiuta e pratica età, né di tanta malizia, né di sì
artificioso e astuto ingegno a occultare e' suoi appetiti, voglie e passioni
d'animo, che se tu più dì v'arai l'intelletto e l'occhio desto a mirare suoi
cenni, atti e maniere, nel quale tu non compreenda ogni suo vizio per occulto
che sia. Scrive Plutarco per solo un guardo quale a certi vasi barbari fé
Demostene, che subito Arpallo conobbe quanto e' fusse avaro e cupido. E così un
cenno, uno atto, una parola spesso ti scuopre e apre a vedere per tutto dentro
l'animo d'uno uomo, e molto più facile ne' fanciulli che ne' più saggi per età
e per malizia, già che questi non sanno coprirsi bellamente con fizioni o simulazioni
alcune. E ancora credo così che uno gran segno di buono ingegno ne' fanciulli
sia quando raro si stanno ociosi, anzi vogliono fare ciò che fare veggono; uno
grande segno di buona e facile natura quando presto si rachetano e la ricevuta
iniuria si dimenticano, né sono nelle cose ostinati, ma rimettono e cedono
senza troppa durezza e senza vendicarsi, e senza vincere ogni voluntà. Uno
grande segno d'animo virile sta in uno fanciullo quando egli è a risponderti
desto e pronto, presto, ardito a comparire tra gli uomini, e senza
salvatichezza e sanza rustico alcuno timore. E in questo molto pare l'uso e
consuetudine gl'aiuti. Però sarebbe utile, non come alcune madri usano sempre
tenerseli in camera e in grembo, ma avezzargli tra le genti e ivi costumargli
essere a tutti riverenti, né mai lasciargli soli, né sedere in ozio femminile,
né ridursi covando tra le femmine. Platone solea riprendere quel suo Dione di
troppa solitudine, dicendo che la solitudine era compagna e coniunta alla
pertinacia. Catone vedendo un giovane ozioso e solo, lo domandò quello che
facesse. Questo gli rispose, favellava da sé a sé. «Guarda», disse Catone, «che
tu non parli testé con uomo alcuno cattivo». Prudentissimo, che sapea e per uso
e per età quanto ne' giovenili intelletti umani più possa la volontà incesa e
corrotta di libidine, iracundia, o malvagia alcuna opinione e pensiere che la
vera e intera ragione. E però conoscea che a costui, occupato ad ascoltare e
rispondere a sé stessi, più era facile consentire all'apetito e volontà che
alla onestà, e manco credere alla continenza e fuga delle cose voluttuose che
a' desiderati e aspettati suoi piaceri e diletti. Diventasi adunque così per
solitudine coniunta con ozio, pertinace, vizioso e bizzarro.
Voglionsi adunque
e' garzoni dal primo dì usarli tra gli uomini ove e' possino imparare più virtù
che vizio, e fino da piccioli cominciarli a fare virili usandogli ed
essercitandogli in cose quanto nella loro età si possa magnifice e ample,
storli da tutti i costumi e maniere femminile. E' Lacedemoniesi facevano andare
e' fanciulli loro la notte al buio sopra e' sepulcri per asuefarli a non temere
né credere le maschere e favole delle vecchie. Conoscevano, quanto uomo
prudente niuno dubita, l'uso in tutta l'età valere assai, e nella prima
adolescenza più quasi avere forza che in tutte l'altre. Chi da piccolo sarà
allevato nelle cose virili e ample, a costui ogni lode non supprema e di più
peso che alla età sua non s'appartenga, parrà se non leggiere, e stimeralla non
difficile ad intraprenderla. Però si vuole cominciare usare e' fanciulli in
cose laboriose e ardue, ove con industria e fatica cerchino e sperino vera
laude e molta grazia. E in questo giova essercitargli la persona e l'ingegno;
né si potrebbe facilmente lodare quanto sia in ogni cosa l'essercizio utile e
molto necessario. Dicono e' fisici, e' quali lungo tempo hanno con diligenza
notato e conosciuto quanto ne' corpi umani vaglia, l'essercizio conserva la
vita, accende il caldo e vigore naturale, schiuma le superflue e cattive
materie, fortifica ogni virtù e nervo. Ed è l'essercizio necessario a' giovani,
utile a' vecchi; e colui solo non faccia essercizio, el quale non vuole vivere
lieto, giocondo e sano. Solea Socrate, quel padre de' filosofi, per essercitarsi
non rarissimo e in casa e, come lo descrive Senofonte, in conviti ballare e
saltellare, tanto stimava licito e onesto per essercitarsi quello che certo
altrove sarebbe lascivo e inetto. Ed è l'essercizio una di quelle medicine
naturali, colle quali ciascuno può sé stesso senza pericolo alcuno medicare,
come il dormire e il vegghiare, saziarsi e astenere, star caldo e fresco,
mutare aere, sedersi quieto ed essercitarsi più e manco ove bisogna. E soleano
gl'infermi, uno tempo, solo colla dieta e collo essercizio purgarsi e
rafermarsi. A' fanciulli che sono per età sì deboli che quasi sostengano sé,
più si loda el giacere in quiete molta e in lungo ozio, però che costoro stando
troppo ritti e sofferendo fatica s'indeboliscono. Ma a' fanciulletti più forteruzzi
e agli altri tutti troppo nuoce l'ozio. Empionsi per l'ozio le vene di flemma,
stanno acquidosi e scialbi, e lo stomaco sdegnoso, i nerbi pigri e tutto il
corpo tardo e adormentato; e più l'ingegno per troppo ozio s'apanna e ofuscasi,
e ogni virtù nell'animo diventa inerte e straccuccia. E per contrario molto
giova l'essercizio. La natura si vivifica, i nervi s'ausano alle fatiche,
fortificasi ogni membro, assottigliasi il sangue, impongono le carni sode,
l'ingegno sta pronto e lieto.
Né acade per
ora referire quanto sia l'essercizio utilissimo e molto necessario a tutte
l'età, e in prima a' giovani. Vedilo come sieno e' fanciulli allevati in villa
alla fatica e al sole robusti e fermi più che questi nostri cresciuti nell'ozio
e nella ombra, come diceva Columella, a' quali non può la morte agiugnervi di
sozzo più nulla. Stanno paliducci, seccucci, occhiaie e mocci. E però giova
usarli alle fatiche, sì per renderli più forti, sì ancora per non lassarli
summergere dall'ozio e inerzia, usargli a ogni cosa virile. E anche lodo coloro
e' quali costumano e' figliuoli sofferire col capo scoperto e il pié freddo,
molto vegghiare adrento alla notte, levare avanti el sole, e nell'avanzo dar
loro quanto richiede la onestà, e quanto bisogna a imporre e confermarsi la
persona; assuefarli adunque in queste necessitadi, e così farli quanto si può
virili, però che le giovano più molto non nocendo che elle non nuocono non
giovando. Scrive Erodoto, quello antico greco nominato padre della istoria, che
doppo la vittoria di Cambise re de' Persi avuta contro agli Egizii, furono
l'ossa de' molti morti ivi ragunate, le quali poi a tempo benché mescolate
insieme, facile si conosceano, però che e' teschi de' Persi con minima percossa
si sgretolavano, quegli vero degli Egizii erano durissimi e a ogni gran
picchiata reggevano; e dice di questo esserne cagione ch'e' Persi più dilicati
usavano el capo coperto, quelli Egizii persino da fanciulli sé adusavano a star
sotto la vampa del sole e sotto le piove, e la notte al vento e sereno sempre
col capo discoperto. Certo adunque molto da considerare quanto questo uso
vaglia, che dice de' Persi per questo mai quasi niuno si vede esser calvo. Così
volse Licurgo, quello prudentissimo re de' Lacedemoni, ch'e' cittadini suoi s'ausassino
da piccoli non con vezzi, ma nelle fatiche, non in piazza co' sollazzi, ma nel
campo coll'agricultura e colli essercizii militari. E quanto bene conoscea
potere assai l'essercizio in ogni cosa! Non sono eglino pure tra noi alcuni
destri e forti diventati, quali prima erano deboli e disadatti, e alcuni per
veemente essercizio sono riusciti ottimi corridori, saltatori, lanciatori,
saettatori, quali prima a tutte queste cose erano rozzissimi e inutilissimi?
Demostene ateniese oratore, non fec'egli collo essercizio la lingua agile e
versatile, il quale avendo le parole da natura pigre e agroppate, si empieva la
bocca di calculi, e apresso de' liti con molta voce declamava? Giovògli questo
essercizio tanto che niuno poi era più di lui soave a udirlo, niuno quanto lui
netto e spiccato a proferire.
Può adunque di
certo l'essercizio assai non solo nel corpo, ma nell'animo ancora tanto potrà
quanto vorremo con ragione e modo seguire. E potrà certo l'essercizio non
solamente d'uno languido e cascaticcio farlo fresco e gagliardo, ma più ancora
d'uno scostumato e vizioso farlo onesto e continente, d'un debole ingegno
possente, d'una inferma memoria farla tenacissima e fermissima. Nessuno sarà
vezzo sì strano né sì indurato che in pochi dì una ferma diligenza e
sollecitudine nollo emendi tutto e rimuti. Scrivono che Stifonte megaro
filosofo da natura era inclinato ad essere ubriaco e lussurioso, ma con
essercitarsi in scienza e virtù vinse la sua quasi natura, e fu sopra gli altri
costumatissimo. Virgilio, quello nostro divino poeta, da giovane fu amatore, e
così di molti altri si scrive, e' quali prima in sé avevano qualche vizio, poi
con studio essercitandosi in cose lodatissime sé corressero. Metrodoro, quel
filosofo antiquo, el quale fu ne' tempi di Diogene cinico, tanto acquistò con
uso ed essercitazione della memoria, che non solo referiva cose insieme dette
da molti, ma ancora con quel medesimo ordine e sito profferiva le medesime loro
parole. Che diremo noi di quel sidonio Antipar, el qual soleva per molta
essercitazione e uso essametri e pentametri, lirici, comici, tragedi e ogni
ragion di versi, ragionando di qualunque proposta materia, esprimere e
continuato proferirgli senza punto prima avergli pensato? A costui, per molto
avervi l'ingegno essercitato, fu possibile e facile fare quello quale a' meno
essercitati eruditi oggi con premeditazione e spazio si vede essere fatigoso.
Se in costoro in cose difficili l'essercitarsi tanto valse, chi dubita quanto
sia grandissima la forza dell'essercizio? Ben lo conoscevano e' Pitagorici, e'
quali fermavano con essercizio la memoria riducendosi ogni sera a mente
qualunque cosa fatta il dì. E forse questo medesimo giovarebbe a' fanciulli,
ascoltare ogni sera quello che il giorno avessono imparato. E' mi ramenta che
nostro padre spesso non bisognando ci mandava con imbasciate a più persone,
solo per essercitarci la memoria, e spess'ora di molte cose voleva udire il
parere nostro per acuirci e destarci l'intelletto e l'ingegno, e molto lodava
chi meglio avesse detto per incenderci a contenzione d'onore.
E così sta
bene, anzi debito a' padri in molti modi provare l'ingegno de' suoi, star
sempre desto, notare in loro ogn'atto e cenno, quelli che sono virili e buoni
trargli innanzi e lodarli, quelli che sono pigri e lascivi emendarli, farli
essercitare secondo e' tempi quanto bisogna. Essercitarsi colla persona subito
drieto al pasto si dice che nuoce. Muoversi innanzi al cibo e afaticarsi
alquanto non nuoce, ma straccarsi non giova. Essercitare l'ingegno e l'animo in
virtù in qualunque ora, in ogni luogo, in tutte le cose mai fu se non
lodatissimo. Piglinsi e' padri questa faccenda, adunque, none a maninconia, ma
più tosto a piacere. Tu vai alla caccia, alla foresta, affatichiti, sudi, stai la
notte al vento, al freddo, el dì al sole e alla polvere per vedere correre, per
pigliare. Ett'egli manco piacere vedere concorrere due o più ingegni ad
attingere la virtù? Ett'egli manco utile con tua lodatissima e iustissima opera
vestire e ornare il tuo figliuolo di costumi e civilità, che tornare sudato e
stracco con qualunque salvaggiume? Adunque e' padri con piacere incitino e'
figliuoli a seguire virtù e fama, confortingli a concorrere ad attignere onore,
festeggino chi vince, godano d'avere e' figliuoli presti e avidi a meritare
lode e pregio.
ADOVARDO
Dilettami certo, Lionardo, questa tua copia, e piacemi ogni tua sentenza, e
lodo assai questo essercitarsi, e confesso che lo essercizio emenda e' vizii e
conferma la virtù. Ma per certo, Lionardo, o io non so dirlo, o io non posso
bene esprimere quello che io sento in me. In questo essere padre non sono e'
pensieri e le fatiche né sì rare, né sì leggieri, né sì grati e dilettosi
quanto tu forse credi. E che so io? E' fanciugli crescono; segue il tempo di
fargli, quanto di', apprendere virtù. E' padri non sanno, forse per maggiori
occupazioni non possono, hanno el pensiero e l'animo occupato altrove, non gli
è licito lasciare l'altre cose publice e private per dirozzare e instruire e' fanciulli.
E così bisogna il maestro, bisógnati udirli stridire, vedili lividi,
vergheggiati, e spesso se' necessitato tu stessi darli, gastigarli. Ma queste
so ti paiono nulla, che non sai l'amore e la pietà de' padri quanto ella sia
tenera e condogliosa. Apresso poi e' fanciulli possono riuscire golosi,
capresti, bugiardi e viziosi. Né ora voglio, né potrei senza dolore ricordarmi
d'ogni nostro incarco.
LIONARDO Tu
forse per far ch'io più ti creda quanto mi di' che 'l troppo lungo mio ragionare
non ti dispiace, però testé mi porgi nuova trama ove io pigli licenza ad
estendermi in un altro più molto lungo favellare. Accetto questa occasione, ché
per ora non so come meglio usufruttare questo ocio che conferendo di simili
cose utilissime. E piacerammi o dilettarti, se così aspetti, o trarti
dell'animo questa mala opinione, se così forse bisogna. E dimmi, Adovardo,
quale dee pesare più al padre, o la bottega, lo stato, la mercatantia, o il
bene e salvamento del figliuolo? Solea dire Crates, quello antiquo e
famosissimo filosofo, se a lui fusse licito, salirebbe in sul più alto luogo
della terra e griderebbe: «O cittadini stolti, dove ruinate voi? Seguite voi
con tante fatiche, con tanta sollecitudine, con tante innumerabili arte e
infinito afanno questo vostro coadunare ricchezze, e di quelli a cui avete e le
volete lasciare non vi curate, non ne avete pensiero alcuno né diligenza?»
De' figliuoli
adunque si vuole avere cura in prima, e poi delle cose le quali noi proccuriamo
perché siano utile e commode a' nostri figliuoli. E sarebbe non sanza stultizia
non far che questi, per chi tu acquisti roba, meritino d'averla e possederla, e
sarebbe poca prudenza volere ch'e' figliuoli tuoi avessero a trassinare e
governare cose quali e' non conoscessero, né sapessino quanto si debba
maneggiare. Né sia chi stimi le ricchezze se non faticose e incommode a chi non
sa bene usarle, e sarà se non dannosa ogni ricchezza a colui el quale nolla
saprà bene usare e conservare. Né a me piacerebbe chi donasse un cavallo
gagliardissimo e generosissimo a un che non bene lo sapesse cavalcare. E chi
dubita gl'impedimenti e istrumenti da far il vallo, da contenere l'essercito,
da sostenere gl'impeti ostili, l'arme da propulsare e seguire fugando
gl'inimici, e così simili altre molte cose essere allo essercito non meno utili
che necessarie? Ma quale isciocco non conosce lo essercito ivi essere inutile,
ove o d'arme o d'impedimenti sia troppo grave? E qual prudente non giudica
tutte quelle medesime cose le quali moderate giovano, allora nuocere quando
sian immoderate? Sono l'arme quanto basta utilissime a difendere la salute
propria e a offendere el nimico. Le troppe armi certo ti convien o gittarle per
vincere, o perdere per serbarle. Adunque era meglio venire a vincere sanza
quello pericoloso incarco, che dubitando perdere convenirtene iscaricare. Né
mai nave alcuna stimo io si potrà riputare sicura, quando di cose benché al
sicuro navigar utilissime, remi, sartie, e vele, sia superchio carica. Suol in
ogni cosa non meno essere dannoso quel che v'è troppo, che utile quel che
basta.
Né sarà poca
ricchezza a' figliuoli nostri lasciarli che da parte niuna cosa necessaria
alcuna loro manchi. E sarà di certo ricchezza lasciare a' figliuoli tanto de'
beni della fortuna, che non sia forza loro dire quella acerbissima e agli
ingegni liberali odiosissima parola, cioè: «io ti prego». Ma certo sarà
maggiore eredità lasciare a' figliuoli tale instituzion d'animo che sappino più
tosto sofferire la povertà, che indurse a pregare o servire per ottenere
ricchezze. Assai ti sarà grande eredità quella la qual satisfarà, non tanto a
tutte le tue necessitati, ma e alle voglie. Chiamo qui io voglia sol quella che
sia onesta. Le voglie inoneste a me sempre parsero più tosto furore di mente e
vizio d'animo corrotto che vera volontà. Cioè che tu lasci troppo a' figliuoli
rimane loro incarco. Non è amore paterno caricare i suoi di fatica, ma
alleggerirli. Ogni superchio carco sta difficile a reggere. Quello el quale non
si può reggere, facile cade, né cosa alcuna più si pruova fragile quanto la
ricchezza. Né chiamerò dono degno dal padre verso el figliuolo quello dono el
quale porti seco molestia e servitù a servarlo. Daremo le cose moleste e gravi
a' nostri inimici. Agli amici daremo letizia e libertà. Né confesserò sia
ricchezza quella la qual abbia in sé servitù e maninconie, come per certo hanno
le superchie ricchezze. Manco nuocerà a' figliuoli procacciarsi al bisogno, che
insieme col superfluo e isconcio incarco perdere quella parte la qual era utile
e commoda, come sanza dubbio aviene a chi non sa reggere e usufruttare e' beni
della fortuna. Tutto quello el qual e' tuoi figliuoli non sapranno maneggiare e
governare, tutto quello sarà loro superfluo e incommodo. Però si vuole
insegnare a' tuoi virtù, farli imparare reggere sé in prima ed emendare gli
apetiti e le volontà sue, instituirli che sappino acquistare lodo, grazia e
favore molto più che ricchezze, ammaestrarli che sieno dotti come nell'altre
cose civili, così a conservarsi onore e benivolenza.
Già però chi
non sarà ignorante in questo modo ad essornarsi di fama e dignità, per certo
sarà saputo e dotto a conquistare e conservare ogni altra minor cosa.
E se i padri da
sé non sono atti, o per altri maggior faccendi (se alcuna n'è maggiore che
avere cura de' figliuoli) saranno troppo occupati, abbino ivi persona dalla
quale e' figliuoli possano imparare dire e fare le cose lodate bene e
prudentemente, come diceano di Pelleo, el quale ad Achille suo avea dato in
compagnia quello Fenix prudentissimo ed eloquentissimo, a ciò che da questo el
figliuol suo Achilles imparasse essere buono oratore di parole e buono fattore
delle cose; o vero darlo a chi più sappia, porlo apresso di chi e' possa
apprendere buone instituzioni al vivere, e buoni erudimenti al conoscere e
sapere le pregiate cose. Marco Tullio Cicerone, quel nostro principe degli
oratori, fu dal suo padre dato a Quinto Muzio Scevola iurisconsulto, che mai si
gli partisse dal lato. Prudente padre. Voleva che 'l figliuolo fusse apresso di
chi lo potea rendere dotto ed erudito molto più che lui forse non potea. Ma chi
può e' suoi con sua opera ornarli di virtù, lettere e scienza, come puoi tu
Adovardo, perché non debb'egli lasciare ogn'altra faccenda per averseli più
litterati, costumati, savi e più civili? Catone, quel buono antiquo, non si
vergognava, né gli pareva fatica insegnare al figliuolo, oltre alle lettere,
notare, schermire, e simili tutte destrezze militari e civili, e stimava in sé
officio de' padri insegnare a' figliuoli tutte le virtù qual fusse degno sapere
a liberi uomini, né gli pareva giustamente da chiamare libero alcuno in chi si
disiderassi virtù alcuna; però di tutte volle a' figliuoli non altri che lui
stesso ne fusse instruttore, né gli parse da preporsi alcuno in simile opera,
né stimava si trovasse chi dovesse essere nelle cose sue più che lui stesso
sollicito, né giudicava e' figliuoli con quello amore imparassino da altri
quanto e' faceano dal proprio padre. E più giova la fede, lo studio e la cura
del padre in fare e' figliuoli suoi virtuosissimi, che non farebbe ogni maggior
dottrina di qualunque altro litteratissimo. E quanto a me in questo piacerebbe
seguire Catone e gli altri buoni antiqui, e' quali erano a' figliuoli in quello
che sapeano maestri e dottori, e sopratutto volevano essere quelli che a' suoi
emendassero ogni vizio rendendogli molto virtuosi; e più agiugnevano e'
figliuoli apresso di quelli savi e litterati, ove con maggiore uso e dottrina e'
divenissero d'ingegno espertissimi e di virtù ornatissimi.
Così farei io,
se io fussi padre. Ogni mia prima e propria cura sarebbe fare e' figliuoli miei
molto costumati e riverenti; e se pure e' fanciulli sdrucciolassino in qualche
vizio, penserei che l'errare qualche volta si è cosa comune della fanciullezza.
E vogliono e' fanciulli essere corretti con modo e ragione, e anco talora con
severità. Non vi si acanire però suso, come alcuni rotti e furiosi padri fanno;
ma lodo io gastigarli sanza ira, senza passione d'animo, fare come si dice fece
Archita, quel tarentino el quale disse: «Se io non fussi crucciato, io te ne
pagherei». Savio detto. Non gli parea da pigliarne punizione in altrui, se
prima non deponeva in sé la sua ira. Né può l'ira colla ragione bene stare
insieme; e correggere senza ragione a me pare cosa da stoltissimi. E chi non sa
con senno correggere, credo merita essere né maestro, né padre. Però correggano
e' padri coll'animo sedato e vacuo d'ogni iracundia, ma sempre piaccia loro più
vedere e' figliuoli piangere e continenti, che ridere e viziosi. E de' loro
vizii sopratutto a me pare si voglino emendare e gastigare di tutti, e prima di
questi vizii communissimi a' fanciulli, ma più che gli altri nocivi e molto
dannosi, e in questo più avervi che non sogliono e' padri cura e diligenza
ch'e' fanciugli non creschino provani e caparbii, e che non sieno né bugiardi
né fallaci. Suole chi è provano e ostinato in dire e fare l'oppinioni sue, mai
dare orecchi ad altrui buoni consigli, sempre in sé stesso troppo fidarsi e più
credere alle oppinioni sue che alla prudenza e ragione di qualunque altro
approbatissimo ed espertissimo; e vedilo stare superbo, gonfiato, pieno di
veneno e di parole odiose e incomportabili, onde leggiermente da tutti si rende
malvoluto. Onde qui a me piace la sentenza di Gherardo Alberto, al quale ogni
durezza troppo dispiaceva, uomo liberalissimo, facilissimo e umanissimo, a cui
solea parer che 'l capo dello ostinato e provano uomo fusse non altrimenti che
di vetro; e dicea come in sul vetro niuna punta, per acuta e forte ch'ella sia,
può né segnarlo né penetrarlo così l'uomo duro e nelle sue opinioni confermato
e immobile mai aconsente a niuna sottile e forte ragione che proposta gli sia,
non consiglio d'amico, non certo e vero disegno d'alcuno, mai contro a' suoi
duri propositi si ferma; e sì come el vetro medesimo per ogni minima picchiata
si spezza e fracassa, così lo indurito e incaparbito sé stessi rompe ad ira,
versasi con parole pazze e furiose, sparge e transcorre in cose ove dipoi gli è
forza pentirsi e soffrire molta pena della durezza sua.
Però proveggano
e' diligenti e prudenti padri e maggiori, estirpino delle menti e consuetudini
de' suoi sino dalla prima infanzia questo massime e ogni altro simile vizio, né
lassino nelle menti e uso de' suoi invecchiare alcuna mala radice, però che il
mal vecchio poi disteso e abarbicato sta con radici troppo grandi e troppe
tenaci. E come a chi scamozza il tronco annoso e indurato per le radici, poi si
vede rampollare più e più astili e rami, così el vizio negli animi degli uomini
aradicato e per uso offirmato, che solea stendersi e ampliarsi quanto la
volontà lo pingeva, ora circumstretto e rimesso dalle acerbità de' tempi e
dalle necessità, pare che da molte parti rampolli altri assai vizii. Vedesi chi
era prima in larga e libera fortuna vivuto prodigo e lascivo, poi per nuove
avversitati impoverito, per cupido aseguire alcuna antica e a lui consueta
voluttà; per satisfare a' suoi appetiti e voluntà diventa furone, decettore,
rattore, e dassi a bruttissimi essercizii e a vilissime arti e infame, e
bruttamente cerca riavere quelle ricchezze quali bruttamente perdette. Così si
truova chi già in sé stesso abituato a non patire se non quanto gli agradi, e
in ciò che a lui piace sarà consueto molto volersi contentare e di tutte le sue
opinioni e imprese agli altri soprastare, costui, se caso alcuno se gli oppone
e interrompe le voglie e concertazioni sue, pare non curi dare sé stessi in
precipizii e ruine maravigliose; non stima robba, non onore, non amistà; ogni
lodata e da' mortali desiderata cosa pospone alla opinione sua; solo per
adempiere la sua impresa soffra rimanere e senza fortuna, ancora e senza vita.
E così chi di sé stessi poco fa cura, molto manco curerà della quiete e bene
della famiglia sua. Però a' padri sta molto debito a buona ora cominciare a
resecare e sverglier ne' suoi tanto e sì pericoloso vizio qual si vede questa
provanità essere, non solo a chi ne sia vizioso, ma a tutta la famiglia
pestifero e mortale. Adunque in cosa alcuna, per minima che ella sia, mai
patischino e' maggiori a' suoi fanciulli indurarvi alcuna ostinata volontà o
proposito non onestissimo. E tanto loro più ogni gara dispiaccia quanto in sé
la veggano men lodevole.
E così ancora
molto proccurino che i suoi figliuoli sieno in ogni cosa molto veritieri, e
stimino quanto egli è troppo più dannoso che brutto vizio essere bugiardo. Chi
s'avezza a fingere e negare la verità, leggiermente per onestarsi molte volte
pergiura, e chi spesso giura con animo fitto e fallace, costui di dì in dì
s'avezza a men temere Dio e a spregiare la religione. E chi non teme Dio, chi
nell'animo suo have spenta la religione, questo in tutto si può riputare
cattivo. Agiungi qui che uno bugiardo si truova in tutta la vita sua infame,
sdegnato, vile, schifato ne' consigli, sbeffato da tutti, senza avere amistà,
senza alcuna autorità. Né sarà virtù alcuna, per grande ch'ella sia, in uno
bugiardo riputata mai o pregiata, tanto sta sozzo e laido questo vizio che
immacola e disonesta ogn'altro splendore di lode. E perché noi qui toccammo
della religione, si vuole empiere l'animo a' piccoli di grandissima reverenza e
timore di Dio, imperoché l'amore e osservanza delle cose divine tiene mirabile
freno a molti vizii. E se a' padri duole quella cura di correggere e gastigare
e' figliuoli, facciano come diceva Simonides poeta ad Ierone apresso Senofonte:
«Le cose grate a' figliuoli facciangli loro, e le ingrate lascinle fare ad
altri; onde sia benivolenza prendansela, onde nasca odio deferìscallo ad
altri». Abbino e' figliuoli tuoi chi e' temano, el maestro da chi e' siano
gastigati più tosto con paura che con busse. E sia il precettore più sollicito
a non lasciare e' suoi discepoli errare che a gastigarli. Ma e' sono molti
padri che per troppa ignavia più che per piatà perdonano ogni cosa a'
figliuoli, e pare loro che basti dire: «non lo fare più». E, sciocchi babbi, se
'l fanciullo arà scalfito il piè, subito si manderà per lo medico, tutta la
casa s'infaccenda, ogni altra cosa si lascia adrieto; ma se el fanciullo cade
coll'animo in quella superbia di fare e rispondere se non quello che gli pare,
se ruina in quella golosità, se profonda in quella ostinata e caparbia pruova,
onde né con ragione, né con argomento alcuno si può cavarlo, perché non volere
el medico che gli emendi e guarisca l'animo tanto corrotto, e che gli rassetti
la mente malcomposita, che gli fasci e leghi gli apetiti e volontà bestiali con
ragioni, ammonimenti e correzioni, che a lui con onestate e tema saldi quella
piaga e apertura di licenza, onde e' riusciva così dissoluto e disubbidiente, e
così a sua voglia scelerato? Quale stolto padre dirà non volere udire el suo
figliuolo piangere, non gli patire l'animo vederlo gastigato, o non potere
attendere a tanto suo officio? Saresti tu di quegli che stimassi essere più
officio del maestro gastigare e' tuoi figliuoli che tuo? Saresti tu di quegli a
chi manco dispiacesse el vizio de' figliuoli tuoi che ogni altra fatica? Certo
stimo no, però che ti sarebbe scritto a grande errore, ove conosci quanto da'
vizii e lascivia di chi per tua negligenza sia fatto vizioso aresti aspettare,
oltre alla vergogna, dolori assai, come si vede un vizioso figliuolo essere
l'ultimo tormento de' padri.
Adunque
gastigarli, averne cura e opera in farli dotti e virtuosi sarà proprio debito
al padre. E vuolsi come suole nel campo fare l'ortolano. Non si cura di
calpestrare qualche buona e fruttifera erba per isverglierne le triste e
nocive. Così el padre non curi, facendo il figliuolo migliore, aspreggiare un
poco più che la natura e tenerezza non gli patisce. Ma sono forse alcuni non
che gli svegliano da' giovani e' sozzi costumi, ma e' vi seminano mille vizii.
Che credi tu quanto a' minori nuoca vedere il padre scostumato e nel parlare e
ne' fatti altiero e bestiale, a ogni parola salire in voce e in superbia,
iurare, garrire sanza fine, bestemiare, furiare? E' pare a' minori ne' costumi
quanto a' maggiori o dovere o potere. E siamo venuti a tanto, colpa, vizio e
negligenza di chi regge la gioventù, ch'e' fantini prima ghiotti domandano el
cappone e la starna che sappino come le cose abbiano nome, prima richieggano
rari cibi ed eletti che possano con tutti e' denti masticargli. El padre
adunque in sé stesso goloso e lascivio, e per questo alle voluttà de' suoi cari
piatoso e facile, gliele consentirà. Costoro così fatti, così dissoluti padri,
arei io per iscusati se per fare e' suoi onesti e costumati non s'attentassino
di fargli piangere, perché aspettano, come poi acade, che' figliuoli facciano
piangere loro. E se pure truovi di questi a chi non piace in altri quel vizio
che a sé in sé non dispiace, questi essendo lecconi aodiano e' ghiotti, essendo
pergiuri sdegnano e' cianciatori, essendo in ogni cosa ostinati biasimano e'
gareggiatori, e per questo troppo severi gastigatori, correggendo ne' suoi
figliuoli que' vizii in quali sentano sé essere quasi infami, battono,
picchiano e' figliuoli, e sfogano altri suoi crucci e sdegni sopra de' suoi.
Iniustissimi, che non emendano sé prima di quello che tanto gli spiace in
altri! A costoro si può dire: «O stolti, o pazzi padri, come volete voi che
quelli picchini non abbino imparato quello che la vostra canuta gola
gl'insegna?». Siano adunque solleciti e' padri in ogni modo; prima con essemplo
di sé stessi insegnando, e con parole ammonendo, e colla scopa gastigando, al
tutto cavino e' vizii degli animi che ora verziscono, sementingli di buone
virtù, rendano e' figliuoli suoi da ogni parte culti e ornati di fioritissimi
costumi, stolgangli dagli ozii, dalla cucina, facciangli essercitare in cose
lodate e magnifice, e sappino che poco altro merita laude se non quello che sia
faticoso a fare.
ADOVARDO Quanto
m'è caro che noi, non so come, siamo entrati in questi ragionamenti certo
giocondi e utili. Molto mi piace, Lionardo, faccia meco come alcuna volta alle
nozze in villa mi ramenta che uno si traina drieto due rami di persone che
ballano. Così fai tu, Lionardo; a uno suono di parole tu insieme mi pruovi
l'essere padre sia cosa dilettosa e dolce, e anche m'insegni come sieno fatti i
veri buon padri. E sino a qui, s'i' t'ho bene inteso e nel ragionar ben
compreso, tu vuoi ch'e' padri siano più diligenti che piatosi; e molto mi piace
questa tua sentenza, e molto m'è a grato questo nostro ragionamento. Né mai si
vorrebbe ragionare se non di cose buone e mature, come è tua usanza, quanto
facciamo testé noi. Seguiamo adunque questa tua incominciata, come dissi,
danza. E io voglio, Lionardo, essere teco un poco malizioso, e come quegli che
ne' cerchi voglino essere più che gli altri riputati, ogni non netto e atto
detto apuntano. Ecco testé, Lionardo, tu dicevi ch'e' figliuoli si voglino
giudicare là dove la natura gli chiamava; dipoi dicesti che giovava collo
essercizio svolgergli altrove, e con uso guidargli a una virilità maggiore e a
una tale fermezza d'animo quanto si può intera e ampla. Tutte queste cose a te
paiono forse leggieri, e se quegli filosafi tanto in sé stessi poterono, tu
forse credi che ancora per nostra opera e aiuto a' nostri fanciugli quel
medesimo sia non difficilissimo, o a noi padri molto ne' nostri possibile? E se
quegli maturi tanto poterono in sé statuire e seguire, stimi tu ora che a noi
non sia molta difficultà e quasi impossibile prima scorgere l'ambigue e oscure
inclinazioni de' nostri, poi emendargli e intorcergli ad altra nuova via
contraria a quella per la quale incitati e tratti seguivano sua natura? E
quando tutto fusse a noi aperto a intrarvi colla industria e sollecitudine, e
non oscuro a provedervi colla discrezione e vigilanza, credi tu sia poco
affanno a' padri ove non sanno de' due propositi beni nel figliuolo deliberare,
e pigliarne il migliore? E non dubitare ch'e' padri sofferrano grandissimo dolore
de' conosciuti mali ne' suoi, ove loro non sia quanto vorrebbono licito
schifargli e discacciarli. Chi desidera che sieno in prima ben litterati, chi
solo si contenta sappiano scrivere e contare quanto nel vivere civile sia utile
e necessario, chi goderebbe vedergli robusti, forti in arme ed essercitati. Io
ne' miei so bene assai quello che me ne fare, ma io odo spesso degli altri
padri in questa maninconia, che non sanno in molte cose deliberarsi, e temono
troppo non pigliare partito non utile.
LIONARDO Così
mi fa, Adovardo: segui, assettami queste mie mal composite parole, come se noi
in presenza di molti nelle pubblice e famose scuole disputassimo, ove sogliono
non meno curare di parere sottili e acuti d'ingegno, che copiosi di lettere e
di dottrina. Qui tra noi sia licito questo parlare più libero, non tanto
pesato, non ridutto a sì ultima lima quanto forse altri desidererebbe. Già
questo fra noi è stato uno ragionare domestico e familiare, non per insegnarti
cosa in che tu più di me se' esperto e dotto; ma non però, poiché tu mi tiri,
mi vergognerò seguirti ragionando quanto vorrai. Fiemi piacere qui come altrove
averti compiaciuto.
Dicono, come tu
sai, e' litterati che la natura in tutte le cose molto sé adopera quanto sia
dovuto e conveniente produrle compiute di membra e potenza, sanza mancamento o
vizio, tali che le possino sé stessi in sua età conservare e all'altre
procreate cose in molta parte giovare; e dimonstrano quel si vede in ogni
animante da essi primi naturali suoi principii tanta forza, ragione e virtù in
lui essere innata, quanta basti per conseguire sue necessitati e riposo, e
quanta giovi per fuggire e propulsare quel che a sé fusse contrario e nocivo.
Vedesi questo, quasi da innata ragione a ciascuno uomo non stultissimo in
altrui dispiace, e biasima ogni vizio e disonestà, né si truova chi non riputi
in uno vizioso esservi mancamento. Pertanto, se la sentenza di costoro non è da
biasimare, e' quali con ancora molte altre ragioni pruovano ogni cosa da prima
intera natura venire quanto per sé possa perfetta, a me certo parrà potere
affirmare questo, che tutti e' mortali sono da essa natura compiuti ad amare e
mantenere qualunque lodatissima virtù. E non è virtù altro se none in sé
perfetta e ben produtta natura.
Pertanto stimo
mi sarà licito potere dire el vizio nelle menti e animi de' mortali sia
scorretta consuetudine e corrotta ragione, la quale viene da vane opinioni e
imbecillità di mente. Ben forse confesserei qualche stimolo più e meno da
natura fusse congiunto alle cupidità e appetiti degli uomini, come, se ben mi
ramenta, già intesi che e' sanguinei sono naturalmente più ch'e' maninconici
amatori, e' collerici subiti ad ira, ne' flemmatici sta una desidia e pigrizia,
e sono e' malenconici quasi più che gli altri timidi e sospettosi, e per questo
avari e tegnenti. Se adunque ne' tuoi apparirà naturale alcuna ottima
disposizione d'ingegno, intelletto e memoria, sarà da seguire in loro con ogni
industria dove la natura la dirizza, alle scienze suttilissime, alle lettere e
dottrine elegantissime e prestantissime. E se gli vedrai robusti, altieri
d'animo, volenterosi e più atti ad essercizii militari che all'ozio delle
lettere, in questo ancora sarà da seguire la natura, usarli in prima a
cavalcare, armare, saettare, e nelle altre destrezze lodate negli uomini
d'arme, e così in ogni buona disposizione seguire amaestrando quanto e' giovi,
ma nelle male inclinazioni vincerle con studiosa cura e assidua diligenza. E
qui giudicano e' prudenti più nel vizio possa l'uso e consuetudine lascivo e
immoderato, che naturale alcuno appetito o incitamento. Tutto il dì si pruova
questo, per disonesta compagnia, per trovarsi non rarissimo ne' luoghi poco
casti, e' giovani, e' quali da natura erano riposati, rimessi e vergognosi, ivi
diventano immodestissimi, sbardellati e avventatacci. E così nell'altre simile
cose si vede qualche consuetudine più valere in noi che e' naturali nostri
appetiti a farci viziosi, come abondare di troppi apparecchiati cibi fa l'uomo
libidinoso. Onde nacque lo antiquo proverbio: «Senza Cerere e Bacco giace
fredda Venere».
Così adunque
statuiremo, el male uso corrumpe e contamina ogni bene atta e bene composita
natura: la buona consuetudine a tempo vince ed emenda ogni appetito non
ragionevole e ogni ragione non perfetta. Pertanto a me pare officio a' padri,
se il fanciullo declina a desidia, a troppa iracundia, ad avarizia e simili,
trarlo su a virtù con studio ed essercizio di buone e lodate cose; e se da sé
il figliuolo fusse nella via adritto a virtù e lode, confirmarvelo e reggervelo
con documenti ed essempli. E come benché uno sia per la buona e dritta via a
'ndare al tempio, al teatro pure può fermarsi e badare e perdere tempo, così
benché la via ad acquistare fama e laude li sia da natura aperta e facile, pure
in molti modi può ritardarsi e smarrirla. Però saranno e' padri desti e
previdenti in conoscere l'animo e volontà de' figliuoli, nelle laudevoli
aiutarli, e contrario storgli da ogni dissoluta maniera e brutto vezzo. Né
credo io a' padri diligenti e maturi sia molto difficile conoscere quanto e'
figliuoli sieno bene animati e volontorosi a farse valere e pregiare. Né stimo
troppo gran fatica, se in parte alcuna sono scorretti, emendarli, né giudico
molto spesso acaggia che ti s'aparecchi più cose utili, alle quali tu non abbia
qualche disparità da preporne qualcuna. E io son di quelli che sempre
desidererei ne' miei prima l'onore, poi quanto con onore si potesse utile.
ADOVARDO Sono
anche io in questa tua sentenza, Lionardo, ma parmi forse da stimare però pur
difficile questo conoscere ed emendare e' vizii nella gioventù. Segue la
gioventù sempre volubile le voluntati; gli appetiti dei giovani sono infiniti,
sono instabilissimi, e credo io sia quasi impossibile in un animo giovenile
fermare certa alcuna instituzione. E chi potrebbe in tanto mutamento d'animo
affermare qual sia buono e qual non buono? Chi potrebbe in tanta incertezza
tenere certo ordine e modo a correggere ed emendare e' vizii innumerabili quali
d'ora in ora nella gioventù ti pare vedere?
LIONARDO E chi
potrebbe essere teco buon massaio del ragionare, Adovardo? A me qui teco
interviene come a coloro che ricevono in dono qualche picciola ma molto preziosa
cosa, e quella sì a tempo e sì in luogo atta, che volendoli satisfare convien
chi ricevette esponga molto e molto delle copie sue domestice. Così testé sento
a me teco in questo nostro conferire acade. Tu con poche brevi parole a me dài
molta o necessità o cagione di risponderti forse prolisso troppo e ampio. Ma
così veggo el mio molto favellar a te pur piace, ove così attento e volentieri
me ascolti.
Dico adunque
che io riputerei assai buono essere colui in cui non fusse manifesto vizio
alcuno, e chiamerei costui perfetto in cui si vedesse molta virtù sanza minimo
alcuno vizio. Manco che mezzani in virtù a me sogliono parere coloro in quali
sono le virtù con qualche scelerato e manifesto vizio. E' vizii si fanno chiaro
conoscere, e sono di natura che sempre fanno come solea dire Vespasiano Cesare:
«La volpe muta il pelo ma nonne il colore». El vizio sempre a tutti parerà pur
vizio, sempre sarà presto a scoprirsi e monstrarsi più noto. E ponvi mente,
benché sopravenga o maninconie, o povertà, o altri disagii, pe' quali el
ghiotto e lascivo non può empiere le brutte sue volontà, pure quando gli sia
permesso satisfarsi, ivi le voglie sue rinascono, e così lui subito torna al
primo suo ingegno. Però lodava io stare desto e preveduto, e non aspettare che
'l vizio si fermi all'animo de' giovani. E in questo si vuole seguire il
consiglio qual si dice diede Annibal ad Antioco re di Siria. Disseli ch'e'
Romani non si potevano vincere più facile se non in Italia colle medesime armi
e terre latine. E come dal fonte prima si vuole svolgere el rivo, chi cerca
dirivarlo altrove, e non aspettare che a lungo corso sia fatto maggiore, così
facciano e' padri. Subito ogni gorellina d'indizio vizioso che a' suoi surge,
ristagnino emendando, ricoprendola di virtù; non patiscano che 'l vizio si
sparga in più amplo rivo, però che poi quando fosse aumentato, molto più gli
sarebbe fatica a disvolgerlo, e in lui sarebbe non minimo biasimo starsi o
cieco a nollo scorgere, o pigro a non aver con miglior cura emendatolo. E se
pure il vizio abbonda, vuolsi dirivare il corso delle giovinili volontà non per
mezzo il campo dove si semina la virtù, non interrompere gli ordinati virili
essercizii, ma da lato concederli qualche loco, in modo che quelle abbino il
corso suo senza nuocere alla cultura tua. E così coll'arme medesime, co'
viziosi stessi giova molto vincere l'animo fermato già nel vizio, vorrassi
porgli la vita degli altri viziosi avanti quasi come uno specchio ove e' si
rimiri e vegga la bruttezza e spurcizia de' scelerati, onde a quel modo impari
avere a odio ogni cosa non onesta e pregiata. E stimo io gioverà molto
monstrargli e aricordargli quanto siano e' non virtuosi e inonesti sviliti,
odiati da ogni buono, e schifati da qualunque onesto, e quanto e' lascivi mai
non sieno né apresso gli altri con grazia riceuti, né in sé stessi contenti,
non lieti, mai senza affanni, sempre pieni di stimoli e molestie d'animo.
L'animo de' viziosi sempre sta disordinato e infermo: e niuna pena si truova
alla mente maggiore che quella quale a sé stessi prieme l'animo non regolato e
ragionevole.
Testé m'acade
in memoria udire da messer Cipriano Alberti quanto poi ponendovi più mente
veggo per effetto: in chi sono e' vizii, mai nell'animo sentano requie né
riposo. Che credi tu stia in mente degli omicidii, latroni e sceleratissimi
uomini? Credo certo ogni ora che si racolgono a ripensare in che infamia, in
che peccato e' siano caduti, tristi non ardiscano da terra levare gli occhi,
temeno meschini la vendetta di Dio, hanno a vergogna la presenza degli uomini,
sempre pensano il loro maleficio da tutti essere biasimato, sempre stimano sé
essere dagli altri uomini odiati, spesso desiderano la morte. Ma diciamo degli
altri forse minori, perché men rari vizii negli uomini. Uno giucatore, uno
barattiero mai pare si possa riposare coll'animo. Vedilo, se vince, stare in
agonia e bramare più di vincere almeno tanto che basti per riscuotere el
vestire, per comprare il cavallo, per satisfare al creditore; sempre allo
spendere più sono le voglie ch'e' danari; e così, se perde, si consuma di
dolore, e arde di voglia di riscuotersi. Simile uno goloso ancora mai si sente
nell'animo lieto, sempre gli rode quel goloso pensiero, né infra 'l vino e
l'ubbriachezze si reputa contento, ma vergognasi d'essere veduto disonesto, e
teme le sue lascivie non si risappiano, e poi molto si pente aversi
disonestato. Demostene oratore rispuose a quella meretrice che in premio
domandava diecimilia denari: «Io non compero tanto il pentirmi». Così ogni vizio
e ogni lascivia, ogni cosa fatta e detta senza ragione e modestia lascia
l'animo pieno di pentimento. E come diceva Archita tarentino filosofo, niuna
pestilenza si truova più capitale che la voluttà. Questa in sé conduce e'
tradimenti inverso la patria, produce eversione della republica; de qui sono e'
colloqui colli inimici.
Simili e molti
altri ricordamenti a' giovani giovano a mettere in odio el vizio. Ma insieme si
vogliono inanimare i giovani ancora alla virtù, in ogni ragionamento lodargli
e' virtuosi, monstrar loro come ciascuno bene ornato di virtù da tutti merita
molto essere amato, in molti modi gloriare i virtuosi, e fare sì che s'e'
nostri non possono essere in suppremo luogo virtuosi, almanco desiderino
agiungere in alto e preclarissimo grado di lode e dignità, e insieme molto
stimino in sé stessi e onorino in qualunque sia la virtù. Soleano gli antichi
ne' conviti solenni e nelle feste rinumerare cantando le lode de' fortissimi
uomini ne' quali erano state virtù singularissime e utilissime a molti populi,
onde fu Ercules, Esculapio, Mercurio, Ceres e gli altri simili
concelebratissimi e chiamati dii; e questo sì per rendere premio a' meriti
loro, sì ancora per incendere agli uomini uno ardore a virtù e a meritare in sé
stesso pari lode e gloria. Vedi prudentissima e utilissima consuetudine! Vedi
essemplo ottimo da seguitare! Non restino i padri in ogni loro ragionamento in
presenza de' figliuoli estollere la virtù degli altri, e così molto vituperare
qualunque sia vizio in altrui. Pare a me che in ciascuno non in tutto freddo e
tardo d'intelletto, da natura sia immessa molta cupidità di laude e gloria, e
per questo e' giovani animosi e generosi più che gli altri desiderano essere
lodati. E pertanto molto gioverà e con parole incendere ne' figliuoli molto
amore alle cose lodate, e in loro confermare odio grandissimo contro alle cose
disoneste e brutte. Ma se ne' figliuoli nostri fussero alcuni vizii, vorrei
vedere e' padri con ogni modestia biasimarli, monstrando condolersi de' loro
errati come di proprii figliuoli, e non come inimico vituperarli, o con parole
acerbissime perseguitarli, però che chi si sente svilire indurisce con sdegno e
odio, o vero sé stessi abandona, disfidasi e casca in una servitù d'animo ove
più non cura onestarsi; e così, se ne' figliuoli sono virtù, bellamente
lodarli, però che pelle troppe lode spesso si diventa superbo e contumace. E
posso arbitrare che a niuno padre non inerte e supino doverà questa parere
ambigua o incerta ragione a rendere il suo figliuolo emendatissimo, ove con
simili facilissimi e ottimi modi subito purgherà ogni minimo vizio quale
scorgerà ne' figliuoli insurgere, apresso e instituiralli di buone lode e di
molti ornamenti d'animo e di virtù.
ADOVARDO Non ti
niego, Lionardo, ch'e' padri quanto tu vorresti diligentissimi potranno in gran
parte giovare a' costumi de' suoi, e con suo cura e studio potranno emendarli e
farli migliori. Ma non so come uno infinito amore vela e offusca gli occhi de'
padri, per modo che rari veggono ne' figliuoli e' vizii se non poi che sono ben
scoperti e ampli. Ivi pensa tu quanto sia difficile sbarbicare uno già per uso
confirmato vizio. E anche pure in quegli che sono modesti e ben costumati
figliuoli, pare ch'e' padri non sappiano in tutto da che si principiare per
condurli ove e' desiderano lode e fama.
LIONARDO E chi
non sa la prima cosa ne' fanciugli utile debbono essere le lettere? Ed è in
tanto la prima, che per gentiluomo che sia, sanza lettere sarà mai se non rustico
riputato. E vorrei io vedere e' giovani nobili più spesso col libro in mano che
collo sparviere. Né mai mi piacque quella commune usanza d'alcuni, e' quali
dicono assai basta sapere iscrivere il nome tuo, e sapere asommare quanto a te
resti di ritrarre. Più m'agrada l'antica usanza di casa nostra. Tutti e' nostri
Alberti quasi sono stati molto litterati. Messer Benedetto fu in filosofia
naturale e matematice riputato, quanto era, eruditissimo; messer Niccolaio
diede grandissima opera alle sacre lettere, e tutti e' figliuoli suoi non
furono dissimili al padre: come in costumi civilissimi e umanissimi così in
lettere e dottrina ebbono grandissimo studio in varie scienze. Messer Antonio
ha voluto gustare l'ingegno e arte di qualunque ottimo scrittore, e ne' suoi
onestissimi ozii sempre fu in magnifico essercizio, e già ha scritto l'Istoria
illustrium virorum, insieme e quelle contenzioni amatorie, ed è, come
vedete, in astrologia famosissimo. Ricciardo sempre si dilettò in studii
d'umanità e ne' poeti. Lorenzo a tutti è stato in matematici e musica
superiore. Tu, Adovardo, seguisti buon pezzo gli studii civili in conoscere
quanto in tutte le cose vogliano le leggi e la ragione. Non ramento gli altri
antichi litteratissimi, onde la nostra famiglia già prese il nome. Non mi
stendo a lodare messer Alberto, questo nostro lume di scienza e splendore della
nostra famiglia Alberta, del quale mi pare meglio tacere poiché io non potrei
quanto e' qui merita magnificarlo. E né dico degli altri giovinetti, de' quali
io spero alla famiglia nostra qualche utile memoria. E sonci io ancora il quale
mi sono sforzato essere non ignorante.
Adunque a una
famiglia, massime alla nostra la quale in ogni cosa, imprima e nelle lettere
sempre fu eccellentissima, mi pare necessario allevare e' giovani per modo che
insieme coll'età crescano in dottrina e scienza, non manco per l'altre
utilitati quali alle famiglie danno e' litterati, quanto per conservare questa
nostra vetustissima e buona usanza. Seguasi nella famiglia nostra curando che i
giovani con opera e ricordo de' maggiori acquistino in sé tanto grandissimo
contentamento, quanto loro porgono le lettere a sapere le cose singularissime
ed elegantissime; e godano e' padri rendere i giovani suoi molto eruditi e dotti.
E voi, giovani, quanto fate, date molta opera agli studii delle lettere. Siate
assidui; piacciavi conoscere le cose passate e degne di memoria; giovivi
comprendere e' buoni e utilissimi ricordi; gustate el nutrirvi l'ingegno di
leggiadre sentenze; dilettivi d'ornarvi l'animo di splendidissimi costumi;
cercate nell'uso civile abondare di maravigliose gentilezze; studiate conoscere
le cose umane e divine, quali con intera ragione sono accomandate alle lettere.
Non è sì soave, né sì consonante coniunzione di voci e canti che possa
aguagliarsi alla concinnità ed eleganza d'un verso d'Omero, di Virgilio o di
qualunque degli altri ottimi poeti. Non è sì dilettoso e sì fiorito spazio
alcuno, quale in sé tanto sia grato e ameno quanto la orazione di Demostene, o di
Tullio, o Livio, o Senofonte, o degli altri simili soavi e da ogni parte
perfettissimi oratori. Niuna è sì premiata fatica, se fatica si chiama più
tosto che spasso e ricreamento d'animo e d'intelletto, quanto quella di leggere
e rivedere buone cose assai. Tu n'esci abundante d'essempli, copioso di
sentenze, ricco di persuasioni, forte d'argumenti e ragioni; fai ascoltarti,
stai tra i cittadini udito volentieri, miranoti, lodanoti, amanoti.
Non mi stendo,
ché troppo sarebbe lungo recitare quanto siano le lettere, non dico utili, ma
necessarie a chi regge e governa le cose; né descrivo quanto elle siano
ornamento alla republica. Dimentichianci noi Alberti, - così vuole la nostra
fortuna testé -, dimentichianci le nostre antiche lode utili alla republica e
conosciute e amate da' nostri cittadini, nelle quali fu sempre adoperata molto
la famiglia nostra, solo per la gran copia de' litterati, prudentissimi uomini
quali sopra tutti gli altri al continovo nella nostra famiglia Alberta
fiorivano. Se cosa alcuna si truova qual stia bellissimo colla gentilezza, o
che alla vita degli uomini sia grandissimo ornamento, o che alla famiglia dia
grazia, autorità e nome, certo le lettere sono quelle, senza le quali si può
riputare in niuno essere vera gentilezza, senza le quali raro si può stimare in
alcuno essere felice vita, senza le quali non bene si può pensare compiuta e
ferma alcuna famiglia. E' mi giova lodare qui a questi giovani, Adovardo, in
tua presenza, le lettere, a cui quelle sommamente piacciono. E per certo,
Adovardo, così stimo le lettere sono come piacevole a te, così grate a' tuoi,
utili a tutti, e in ogni vita troppo necessarie.
Facciano
adunque e' padri ch'e' fanciulli si dieno alli studi delle lettere con molta
assiduità, insegnino a' suoi intendere e scrivere molto corretto, né stimino
averli insegnato se none veggono in tutto e' garzoni fatti buoni scrittori e
lettori. E sarà forse quasi simile qui mal sapere la cosa e nolla sapere.
Apprendano dipoi l'abaco, e insieme, quanto sia utile, ancora veggano
geometria, le quali due sono scienze atte e piacevoli a' fanciulleschi ingegni,
e in ogni uso ed età non poco utile. Poi ritornino a gustare e' poeti, oratori,
filosofi, e sopratutto si cerchi d'avere solleciti maestri, da' quali e'
fanciulli non meno imparino costumi buoni che lettere. E arei io caro che e'
miei s'ausassero co' buoni autori, imparassino grammatica da Prisciano e da
Servio, e molto si facessino familiari, non a cartule e gregismi, ma sopra
tutti a Tullio, Livio, Sallustio, ne' quali singularissimi ed emendatissimi
scrittori, dal primo ricever di dottrina attingano quella perfettissima aere
d'eloquenza con molta gentilezza della lingua latina. Allo intelletto si dice
interviene non altrimenti che a uno vaso: se da prima tu forse vi metti cattivo
liquore, sempre da poi ne serba in sé sapore. Però si vogliono fuggire tutti
questi scrittori crudi e rozzi, seguire que' dolcissimi e suavissimi, averli in
mano, non restare mai di rileggerli, recitarli spesso, mandarli a memoria. Non
però biasimo la dottrina d'alcuno erudito e copioso scrittore, ma ben prepongo
e' buoni, e avendo copia di perfetti mi spiace chi pigliassi e' mali. Cerchisi
la lingua latina in quelli e' quali l'ebbono netta e perfettissima; negli altri
togliànci l'altre scienze delle quali e' fanno professione.
E conoscano e'
padri che mai le lettere nuocono, anzi sempre a qualunque si sia essercizio
molto giovano. Di tanti litterati quanti nella casa nostra sono stati certo singulari,
niuno per le lettere mai all'altre faccende fu se none utilissimo. E quanto la
cognizione delle lettere sia a tutti sempre nella fama e nelle cose giovata,
testé non bisogna proseguire. Né credere però, Adovardo, che io voglia ch'e'
padri tengano e' figliuoli incarcerati al continuo tra' libri, anzi lodo ch'e'
giovani spesso e assai, quanto per recrearsi basta, piglino de' sollazzi. Ma
sieno tutti e' loro giuochi virili, onesti, senza sentire di vizio o biasimo
alcuno. Usino que' lodati essercizii a' quali e' buoni antichi si davano. Gioco
ove bisogni sedere quasi niuno mi pare degno di uomo virile. Forse a' vecchi se
ne permette alcuno, scacchi e tali spassi da gottosi, ma giuoco niuno senza
essercizio e fatica a me pare che a' robusti giovani mai sia licito. Lascino e'
giovani non desidiosi, lascino sedersi le femmine e impigrirsi: loro in sé
piglino essercizii; muovano persona e ciascuno membro; saettino, cavalchino e
seguano gli altri virili e nobili giuochi. Gli antichi usavano l'arco, ed era una
delicatezza de' signori uscire in publico colla faretra e l'arco, ed era loro
scritto a laude bene adoperarli. Truovasi di Domiziano Cesare che fu sì perito
dell'arco che, tenendo uno fanciullo per segno la mano aperta, costui faceva
saettando passare lo strale fra tutti gl'intervalli di que' diti. E usino e'
nostri giovani la palla, giuoco antichissimo e proprio alla destrezza quale si
loda in persona gentile. E solevano e' suppremi principi molto usare la palla,
e fra gli altri Gaio Cesare molto in questo uno degnissimo giuoco si dilettò,
del quale scrivono quella piacevolezza, che avendo con Lucio Cecilio alla palla
perduto cento, davane se non cinquanta. Adunque disseli Cecilio: «Che mi
daresti tu, se io con una sola mano avessi giucato, quando io mi sono adoperato
con due, e tu solo a una satisfai?». Ancora e Publio Muzio, e Ottaviano Cesare,
e Dionisio re di Siracusa, e molti altri de' quali sarebbe lungo recitare
nobilissimi uomini e principi usoro colla palla essercitarsi. Né a me
dispiacerebbe se i fanciulli avessero per essercizio il cavalcare e imparassino
starsi nell'arme, usassino correre e volgere e in tempo ritenere il cavallo,
per potere al bisogno essere contro gl'inimici alla patria utili. Soleano gli
antichi, per consuefare la gioventù a questi militari essercizii, porre que'
giuochi troiani quali bellissimi nelle Eneida discrive Virgilio. E trovossi
tra' principi romani miracolosi cavalcatori. Cesare, si dice, quanto poteva
forte correva uno cavallo tenendo le mani drieto relegate. Pompeo in età d'anni
sessantadue, benché el cavallo quanto potea fortissimo corresse, lanciava
dardi, nudava e riponeva la spada. Così amerei io ne' nostri da piccoli si
dessino e insieme colle lettere imparassino questi essercizii e destrezze
nobili, e in tutta la vita non meno utili che lodate: cavalcare, schermire,
notare e tutte simili cose, quali in maggiore età spesso nuocono non le sapere.
E se tu vi poni mente, troverrai tutte queste essere necessarie all'uso e
vivere civile, e tali ch'e' piccoli senza molta fatica bene e presto
l'imparano, e a' maggiori forse tra le prime virtù richieste.
ADOVARDO Io non
con poca voluttà e diletto, in verità, Lionardo, te ho ascoltato, e benché
qualche volta m'acadesse, non però volsi interromperti, tanto da ogni parte a
me piaceano e' tuoi ricordi. Ma guarda non avere a noi padri dato troppe
faccende. Tutti e' giovani, Lionardo, non sono dello intelletto tuo. Pochi si
troverebbono volesseno in sé avere tanta fermezza agli studi, e mai forse vidi
altri che te uno tanto compiuto di tutte le virtù quali tu vuoi sieno ne'
nostri giovani. E qual padre, Lionardo mio, potrebbe a tante cose provedere? E
qual figliuolo mai s'inducerebbe apprendere ogni cosa qual ci disegni?
LIONARDO Io
potrei facile stimare, Adovardo, esserti ogni mio ragionamento stato sollazzo e
piacere, se io non vedessi testé che, dove prendesti poca voluttà ove io
chieggo da voi padri tante quante certo sono necessarie faccende, tu per
vendicarti a me dài nuova fatica, come se tu non sapessi quanto studio
dell'uomo possa in ogni cosa. Se la sollecitudine d'uno mercennario insegna a
una bestia far cose umane, a uno corvo favellare, come fu quello el quale in
Roma disse: «Kere Cesar»; e perché Cesare qui rispose: «A me stanno in
casa molti salutatori», di nuovo ridisse: «Operam perdidi»; se questo in
una bestia può el nostro studio, stimi tu che possa manco in uno umano
intelletto, el qual si vede atto e sufficiente a qualunque difficilissima cosa?
Né voglio io però e' tuoi figliuoli sappiano se non quanto sia mestiere a
liberi uomini sapere. E credo questo, in casa nostra siano pochissimi e' quali
per ingegno e per intelletto a ogni cosa non molto più di me vagliano. Di tanta
gioventù quanta vedi la casa nostra essere non poco gloriosa, a me non pare
vedere alcuno non compariscente, non atto, non destro, non tutto gentile. Ma
sempre così fu la famiglia Alberta copiosa e abondante di leggiadri ingegni e
d'animi prestantissimi. E quando bene fusse il contrario, uno simile a te studioso
e ben diligente padre può con sua opera rendere infinita utilità. Scrive
Columella, s'io ben mi ricordo, che uno chiamato Papirio veterense, avendo alla
prima delle tre sue figliuole dato in dota el terzo d'un suo campo avignato,
con tanta diligenza governava e' due restati terzi che ne traea quel medesimo
frutto qual solea trarre di tutto el campo. Dipoi, ancora sopragiunto el tempo,
maritò l'altra seconda sua figliuola, e dotolla della metà di questo campo a
lui doppo la prima dota rimaso. E, Dio buono, quanto può la cura e diligenza!
Quanto in ogni cosa vale così essere sollecito! Niuna cosa sarà tanto ardua e
laboriosa che l'assiduità non la convinca. Questo Papirio veterense con assidua
cura e sollecita diligenza fece che questa terza parte di tutto il campo, quale
doppo la seconda dota restò, a sé testé quanto prima tutto lo 'ntero campo
rendea.
Non si potrebbe
dire a mezzo quanto abbia grandissima forza lo studio, la sollerzia in ogni
cosa massime quella de' padri inverso de' figliuoli, e' quali con amore e fede
proccurando l'onore e il bene de' figliuoli si sentono in premio amare e
pregiare, e godono rendere e' suoi migliori e aspettano maggiori lode. E pure
piaccia a' padri ne' suoi meritare che tanto potranno quanto e' vorranno. Ma
pare chi è desidioso in sé, chi non cura emendare e correggere sé stesso, si
porge desidioso anche negli altri, e poco cura ove ne' suoi manchi virtù. Ma
tu, Adovardo, che se' quanto sia possibile sollecito, che mai fuor di casa ti
vidi sì occupato che tu non avessi cura della famiglia, né mai in casa ti vidi
sì ozioso che tu non sollecitassi le cose di fuori, tutto il dì ti veggo
scrivere, mandare fanti a Bruggia, a Barzalona, a Londra, a Vignone, a Rodi, a
Ginevra, e d'infiniti luoghi ricevere lettere, e ad infinite persone al
continuo rispondere, e fai sì che essendo tu coi tuoi, ancora t'inframetti in
molti altri luoghi, e senti e sai quello che per tutto si fa; Adovardo, se tu
puoi questo, quanto puoi nelle cose lontane, ben potranno e' padri sostenere
quella minore e dilettosa faccenda alle cose quali loro sono al continuo inanzi
agli occhi, a' figliuoli, a tutta la casa.
ADOVARDO Da te
mi lascio volentieri vincere, Lionardo. Tu m'hai condotto in luogo che mi pare
vergogna omai dire ch'e' figliuoli sieno a' padri non dilettosi, e troppo ben
veggo la ragione tua conchiude ch'e' padri negligenti sono quelli che hanno le
molte maninconie. E confessoti ch'e' diligenti padri sono quegli e' quali de'
loro figliuoli si truovano contenti e lieti. Ma dimmi, Lionardo, se tu avessi
fanciugli, tu, quando e' fussero grandicelli e quanto tu volessi modesti e
ubidienti, solo dubitassi, come spesso adiviene, ch'el figliuolo tuo non fussi
quanto desideraresti cinto e destro a queste prime virtù e lodati essercizii
ove, come diceva Lorenzo, possono rendere la famiglia ornata e fortunata,
allora che pensieri sarebbono e' tuoi? Non può ciascuno essere Lionardo, o
messer Antonio, o messer Benedetto. Chi può trovarsi del tuo intelletto a tutte
le cose lodate atto e accommodato? Molte cose meglio si dicono che non si
fanno. E credi a me, Lionardo, ne' padri stanno dell'altre maggiori. E questa
forse può parere piccola, ma per certo ella ci è non leggiere maninconia e
peso, perché pare sempre ti sfidi di non eleggere e cappare piggior consiglio.
LIONARDO Se io
avessi figliuoli, io di loro arei, sia certo, pensiero, ma sarebbono e' miei
pensieri senza maninconia. Solo in me sarebbe prima opera fare ch'e' miei
venissero crescendo con buoni costumi e con virtù, e qualunque essercizio loro
gustasse piacerebbe a me. Ogni essercizio che sia sanza infamia, a uno gentile
animo sta non male. Sono gli essercizii quali acquistano onore e laude propri
de' gentili e nobili uomini. Ben ti confesso che ciascuno non può quanto e'
padri vorrebbono, ma chi segue quanto a lui sia lecito, a me più piace che chi
cerca cosa, quale seguire non possa. Apresso credo sia più da lodare, benché in
tutto non se gli avenga, chi quanto in sé può s'adopera in qualunque cosa, che
chi vive vacuo d'essercizii, inerte e ozioso. Antiquo detto e molto frequentato
da' nostri: «l'ozio si è balia de' vizii». Ed è cosa brutta e odiosa vedere chi
sempre istia indarno, come facea quel ocioso, el qual, domandato che cagione ti
tiene tutto il dì quasi dannato a sedere e giacerti per le panche, rispose: «Io
attendo a ingrassare». E chi costui udì lo biasimò, e pregollo più tosto desse
opera d'ingrassare un porco, però che almeno ne ritrarrebbe qualche utile. Così
onestamente gli mostrò da quel che fusse un ozioso, da men che un porco.
E dicoti più,
Adovardo, per ricco e gentile che sia il padre, sempre si doverebbe ingegnare
che il figliuolo oltre alle degne virtù sapesse qualche mestiero non servile,
ma col quale, se maligna fortuna acadesse, potesse con sua industria e mani
onestamente vivere. Le fortune di questo mondo son elle sì piccole o sì rare
che noi possiamo de' casi avversi non dubitare? El figliuolo a Persio re di
Macedonia non fu egli veduto in Roma sudare tutto tinto alla fabbrica, e così
mercennario, delle proprie sue fatiche e a grande stento, a tutte le sue
necessitati satisfacere? Se la instabilità delle cose può così, uno figliuolo
d'uno prestantissimo e potentissimo re tradurlo in una sì infima povertà e necessità,
ben sarà in noi privati quanto ne' superiori da provedere a ogni fortuna. E se
in casa nostra mai fu chi a que' tali mestieri operarii si desse, ringraziànne
la fortuna, e procuriamo per l'avenire che non bisogni. El nocchiero savio e
proveduto, per potersi nella avversa tempesta sostenere, porta sarti, àncore e
vele più che alla bonaccia non si richiede. Adunque e' padri così proccurino
che a' figliuoli piaccia qualche in prima lodato e utile essercizio. E in
questo prima seguitino l'onestà, apresso s'adattino a quanto conoschino el
figliuolo con opera meglio possa e con ingegno conseguire a molto lodo.
ADOVARDO E
questo medesimo, Lionardo, è una delle cose la quale spesso a' padri perturba
l'animo, che conoscono e' loro giovani e minori a quanti casi e pericoli sieno
sottoposti, e vorrebbono a tutto avere compiuto e ottimo rimedio. Ma non raro
interviene ch'e' figliuoli contro ogni opinione riescono contumaci e superbi,
per modo che niuna diligenza de' padri giova. E molto spesso acade per subite
avversità, per povertà, ch'e' padri convengono di storre e' suoi da quelle
buone arti ed essercizii in quali con lode e fama crescevano. E quindi al
continuo a noi padri istà nell'animo tanta paura, o che il garzone già non
recusi seguire le buone dottrine per essere negli anni maggiori e nelle sue
volontà più fermo e nelle cose desiderate più baldanzoso, o che la fortuna non
interrumpa il corso loro incominciato ad acquistare lode e amplitudine. Chi
adunque al continuo in sé soffra questi tanti sospetti, e chi sempre della
fortuna instabile e de' costumi poco costanti ne' giovani dubita quanto fanno
e' padri ne' figliuoli, costui come si potrà egli crederlo lieto, o chiamarlo
non infelice?
LIONARDO Io non
so vedere, Adovardo, a che modo uno diligente padre possa avere e' figliuoli
contumaci e superbi, se già tu non volessi che cominciasse non prima a essere
diligente se non quando el figliuolo in tutto sia fatto vizioso. Se 'l padre
serà sempre desto, e provederà prima a' vizii che sieno nati, e sarà officioso
estirpandoli quando gli vederà nati, e serà preveduto e cauto in non aspettare
che 'l vizio abbia a diventare tanto e sì sparso che colla infamia egli adombri
e oscuri tutta la casa, certo costui credo non arà ne' figliuoli da dubitare
alcuna contumacia o inobedienza. E bene per sua negligenza e inerzia sendo il
vizio cresciuto e alcuno de' suoi rami steso, per mio consiglio el padre mai lo
taglierà in modo che da parte alcuna ruini sopra le sue fortune o fama. Non dividerà
el figliuolo da sé, né lo scaccerà come alcuni rotti e iracundi fanno, in modo
ch'e' giovani pregni di vizio, pieni di licenza, carichi di necessitati, si
danno a far cose sozze, pericolose, infame a sé e a' suoi. Ma starà prima el
padre della famiglia curioso e sollecito a scorgere ogni vizio quanto negli
apetiti di ciascuno de' suoi s'incenda, e subito darà opera di spegnere le
faville d'ogni viziosa cupidità, per poi non avere con più fatica, dolore e
lacrime a 'morzare le fatte maggiori fiamme.
Dicesi che la
buona via si piglia dal canto. Cominci el padre in sul primo entrare della età
a discernere e notare dove il figliuolo s'invii, né mai lo lasci trascorrere in
strada poco lodata o mal sicura. Non patiscano seco i figliuoli vincere alcuna
pruova, non assuefarsi a disonesto e lascivio alcuno costume. Facciano e' padri
sempre riputarsi pur padri, porgansi non odiosi, ma gravi, non troppo
familiari, ma umani. E ricordisi ciascuno padre e maggiore che lo imperio retto
per forza sempre fu manco stabile che quella signoria quale sia mantenuta per
amore. Niuna paura può troppo durare: l'amore dura molto assai. La paura in
tempo scema: l'amore di dì in dì sempre cresce. Chi adunque sarà sì pazzo che
stimi in ogni cosa necessario monstrarsi severo e aspro? La severità senza
umanità acquista più odio che autorità. L'umanità quanto sarà più facile e più
segiunta da ogni durezza, tanto più meriterà benivolenza e grazia. Né chiamo
diligenza, quale par costume più di tiranni che de' padri, monstrarsi nelle
cose troppo curioso. E fanno queste austeritati e durezze più volte diventare
gli animi contro e' maggiori molto più sdegnosi e maligni che ubbidienti. E
hanno e' gentili ingegni in sé per male ove siano non come figliuoli ma come
servi trattati. E passino alcuna volta e' maggiori non volendo conoscere ogni
cosa, più tosto che non correggendo quello qual monstrano di conoscere. E nuoce
manco al figliuolo in qualche cosa stimar il padre ignorante, che provarlo
negligente. Chi s'avezza a ingannare il padre, meno stima romper fede a
qualunque altro si sia istrano. In ogni modo adunque si sforzino e presenti e
assenti essere da' minori pure riputati padri. Alla qual cosa in prima gioverà
la diligenza. Sarà la diligenza quella che sempre el farà da' suoi amato e
riverito. Sì bene testé, s'e' padri per premio della passata negligenza loro si
truovano avere uno cresciuto cattivo, dispongano l'animo più tosto non lo
volere chiamare figliuolo che vederselo disonesto e scelerato. Le nostre leggi
ottime, l'usanza della terra nostra, el giudicio di tutti i buoni in questo
permetteno utile rimedio. Se il figliuolo tuo non ti vuole per padre, nollo
avere per figliuolo. Se non ti ubbidisce come a padre, sia in lui alquanto più
duro che in uno obbediente figliuolo. Piacciati prima la punizione d'uno
cattivo che la infamia della casa. Dolgati manco avere uno de' tuoi rinchiuso
in prigione e legato, che uno inimico in casa libero, o fuori una tua publica
infamia. Assai a te sarà inimico chi ti darà dolore e maninconia. Ma certo,
Adovardo, chi a tempo ne' suoi, come tu ne' tuoi, sarà diligentissimo, costui
già mai s'abbatterà in alcuna età se non ricevere da' suoi molta riverenza e
onore, sempre ne riceverà contentamento e letizia. Sta la virtù de' figliuoli
nella cura de' padri; tanto cresce ne' figliuoli costumi e tema quanto vogliono
e' maggiori e padri. Né stimi alcuno ne' suoi verso e' maggiori scemare
osservanza e subiezione, se ne' maggiori non cresce desidia e ignavia.
ADOVARDO O
Lionardo, se tutti e' padri ascoltassino a questi tuoi ricordi, di che
figliuoli si troverebben essi contenti, quanto si troverrebbono felici e beati!
Tutto, veggo, tutto, confesso, non può la fortuna tôrci, né dare costumi,
virtù, lettere o alcuna arte; tutto sta nella diligenza, nella sollecitudine
nostra. Ma quello il quale si dice sottoposto alla fortuna, ricchezze, stati e
simili cose commode nella vita, e quasi necessarie con esse ad acquistare virtù
e fama, se la fortuna di queste serà con noi avara, se inverso de' padri
diligenti la fortuna sarà ingiusta come spesso la proviamo, - e le più volte
proviamo ch'ella più nuoce a' buoni che a' meno lodati, - allora, Lionardo, che
affanno sarebbe il tuo, sendo tu padre, non potere satisfare a' principiati ed
espettati onori, non esserti licito quanto vorresti e colla fortuna potresti,
condurre e' tuoi in quella prestante fama e laude ove ti persuadevi e
instituisti guidarli?
LIONARDO
Domandimi tu se io mi vergognassi essere povero, o se io temessi che la virtù
non sdegnasse e fuggisse la povertà nostra?
ADOVARDO Che
non ti dorrebbe egli la povertà? Non ti sarebbe grave esserti interrutto ogni
tua onesta trama? Lionardo, che nuovi pensieri sarebbono e' tuoi?
LIONARDO Che
stimi? Di vivere quanto io potessi lieto. E non mi dorrebbe troppo con giusto
animo, senza molestia sofferire quello che spesso, come tu dici, sofferano e'
buoni. E non è egli già sì brutta cosa essere povero che io me ne vergognassi,
Adovardo. Credi tu che io pensi la povertà in me sì cattiva, sì perfida e
inumana, ch'ella non dia qualche luogo alle virtù, che ella non renda qualche
premio alle fatiche dell'uomo studioso e modesto? E se tu annoverrai bene, più
troverrai virtuosi poveri che ricchi. La vita dell'uomo si contenta di poco. La
virtù è troppa di sé stessa contenta. Assai sarà ricco chi viverà contento.
ADOVARDO Or
ben, Lionardo, non m'essere testé meco così in tutto stoico. Tu potresti ben
dire, non però che mai io ti confessi la povertà in ogni e più ne' padri non
essere molto brigosa e misera. Ben son contento stare in quella tua sentenza
ch'e' diligenti padri da' figliuoli ricevano vere allegrezze, ma questo più mi
piacerà se io vederò che tu dia modo di tutte queste cose come con suttilissimi
argomenti così ancora per lunga pruova poterne ragionare. E vuolsi, Lionardo,
dare modo che tu e gli altri abbiate compagna e figliuoli, pigliate moglie,
amplificate la nostra famiglia Alberta, e con questa tua ottima disciplina
allevate con diligenza molta gioventù, acciò che nella casa nostra cresca gran
numero d'uomini, tali quali testé diceva Lorenzo, famosi e immortali. Né
dubito, seguendo que' tutti tuoi quali hai insegnatomi erudimenti, la casa
nostra di dì in dì si farà molto gloriosa e compiuta di prestantissima
gioventù.
LIONARDO In
questo nostro ragionamento a nulla manco m'è stato l'animo che ad insegnarti
essere padre. E qual sì pazzo si pigliasse questa gravezza di rendere in alcuna
cosa te più dotto, il qual in ogni singular dottrina sopra agli altri sei
perito, e in questa per pruova, e apresso degli antichissimi scrittori quanto
hai veduto se' eruditissimo? Quale stolto cercasse questa ottima quale chiamano
educazione de' liberi insegnarti, o di quella ragionando contrastarti? Ma tutta
l'astuzia grande è stata tua, che biasimandomi l'avere figliuoli, tu hai
condottomi ch'io ho gittato e perduto ogni mia antica scusa al non tôr moglie,
né ora m'è rimaso con che più potere schifare questa molestia. Sono contento,
Adovardo, poiché sì me hai convinto, a te stia licenza e arbitrio ove ti parerà
d'amogliarmi. Ma sappi che a te starà debito rendermi opera. S'io a te ho
levato dell'animo quelle malinconie quali dicevi essere a' padri, tu così
inverso di me proccurerai non mi caricare di guai e di continua recadia, la
qual cosa dubito non mi sarà facile né ben licito fuggire, s'io per contentarti
seguirò el tuo consiglio in farmi marito.
Sorrisono, e in
queste parole sopragiunse uno famiglio dicendo che Ricciardo era là fuori
giunto colla barca, ove aspettava cavagli per subito venire a vedere Lorenzo
suo fratello. Adovardo uscì per ordinare quanto bisognava. Era Ricciardo
suocero d'Adovardo, però gli parse ancora debito e deliberò cogli altri cavalcare.
Partissi. Noi rimanemmo, se Lorenzo ci comandasse.
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