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Così Momo. Intanto Pallade e
Minerva avevano deciso di lasciare alla libera scelta di Giove la decisione se
si dovesse concedere o meno il sacro distintivo divino a un tipo ribelle e
facinoroso come Momo. Per il momento, comunque, si mettono a parlare con
l'esule con la massima amabilità, lo rinsaldano nelle sue speranze e gli
consigliano di accettare l'insegna divina dalle mani del sommo re degli dèi
piuttosto che da quelle di suoi delegati. Momo non si sottrae ad alcuna
condizione pur di sfuggire ai terrestri, ed entra all'istante nel ruolo che si
era imposto recitando brillantemente e con diligenza la sua parte con le
ambasciatrici: simulando così ingenuità e bontà d'animo, si mette a piangere, e
dichiara a capo chino di saper bene che valore abbia essere reintegrato
nell'onore per mano del re degli dèi ottimo e massimo; ammette di sentirsi
indegno di un premio così grande, comunque ce l'avrebbe messa tutta per
dimostrare a Giove e agli altri dèi che lui non era affatto immemore e ingrato
del beneficio ricevuto; pensava proprio di farcela, dal momento che aveva
fermamente deciso di andare molto al di là delle aspettative delle persone
buone con il suo comportamento retto, e sperava di sventare tutti i tentativi
d'attacco degli invidiosi e dei suoi avversari con la pazienza e con tutte
quelle buone qualità che inducono a sentimenti amichevoli e benigni;
addomesticato dalla lunga disgrazia, prostrato dalle sventure, egli aveva
imparato a sopportare le avversità e a rimanere calmo e rassegnato se qualche
contrarietà veniva a intralciare i suoi progetti e i suoi desideri: ecco perché
era diventato capace, senza più doverselo imporre, di non raccogliere le
provocazioni e di dimenticare del tutto le offese ricevute; la sua massima
aspirazione, insomma, era che gli venisse concessa l'opportunità di obbedire
ossequiosamente ai buoni consigli di persone migliori di lui.
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