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Leon Battista Alberti Momo o Del Principe IntraText CT - Lettura del testo |
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-10-Giove, intanto, si rivolse a Minerva e a Pallade: «Perché non avete riportato assieme a voi anche Virtù? Che fine ha fatto? Cosa sta combinando?». Le dèe allora risposero che esse, secondo la prassi istituzionale delle delegazioni, nel corso della loro missione avevano badato solo ed esclusivamente al loro specifico incarico, e che avevano avuto anche troppo da fare andando in cerca del solo Momo, perché questi se ne stava nascosto in luoghi solitari e desolati, come fanno i poveracci caduti in disgrazia. Allora Giove passò a domandare a Momo se avesse visto Virtù sulla terra. A questo punto Momo, preso dal dubbio atroce che quella domanda alludesse alla porcheria che aveva combinato, sbiancò in viso e ammutolì; ma si riprese subito e, con l'aria distesa di uno sicuro del fatto suo, disse sorridendo: «Non sai di già, eccellentissimo principe degli dèi, quel che succede ogni giorno sulla terra?». E Giove: «Lascia perdere quello che so io, rispondi alla domanda!». Allora Momo riprese a tentennare e a spaventarsi, non sapendo di preciso a che mirassero quelle parole, ma, sollecitato ancora una volta da Giove a rispondere, ripreso il controllo di sé, tornò all'arte della dissimulazione, che aveva cominciato così brillantemente a esercitare, e disse: «Mercurio, che è il più sveglio di tutti, se lo conosco bene, sa di certo dove si trova quella lì, lui che a buon diritto è innamorato fedele di Virtù, la più bella fra le dèe; e tu, Mercurio, quanto tempo lascerai che il tuo dolce amore ti manchi?». Allora Mercurio si mise a ridere e assicurò che lui, Giove e tutti gli altri dèi erano stati così presi da quell'unico problema dei voti che non gli era stato possibile badare a nient'altro, occupatissimi com'erano; pensava che aveva fatto benissimo la dea a tenersi lontano dalla seccatura di tante pratiche da sbrigare. Quel discorso rinfrancò ancora una volta Momo, che fu preso di nuovo da una gioia incredibile; poi, vedendo che la dea Virtù non era lì in mezzo a Giove e agli dèi, da quel gran figlio di puttana che era diventato si dispone totalmente alla finzione, con abile scelta del tono della voce, dell'espressione e dei gesti, e rifà il racconto delle sue peripezie che abbiamo seguito in precedenza, ma in maniera tale che, mentre tirava fuori le porcherie degli uomini, si sarebbe detto che volesse soprattutto difendere la loro causa e strappare il perdono per i loro errori. Comincia a raccontare prendendola molto alla lontana, poi, come se non l'avesse fatto apposta, ma sospinto dal filo stesso della narrazione, racconta in che modo alcuni signori avessero fatto irruzione nel tempio, gli dèi ragazzini terrorizzati dalla baraonda fossero rimasti indietro rispetto alla madre e si fossero salvati dalla temeraria insolenza di quella masnada di criminali mutandosi in varie forme. Aggiunge proprio a questo punto che anche lui aveva subito pesantissimi oltraggi, ed era riuscito a fuggire dopo aver perduto mezza barba. E così, proprio con questa maniera di raccontare, non trascurò nessun particolare che potesse servire a suscitare odio contro gli uomini, e ci mise tutta la sua forza di persuasione oratoria perché gli dèi si convincessero che quella era stata un'autentica infamia. A sentire il racconto di Momo, Giove e gli altri dèi lì presenti si erano naturalmente commossi, soprattutto per l'indegna disgrazia toccata alla dea Virtù; d'altra parte, non potevano trattenersi dallo sghignazzare apprendendo le ridicole disavventure di Momo. Quando li vide cotti a puntino, Momo esclamò: «Starà a voi giudicare quanto sia grande il mio buon senso a proposito di ciò che sto per dire: dal canto mio, posso garantire che è la scrupolosità della mia coscienza che mi spinge a fare questo discorso. Vedo bene, o Giove fondatore del mondo, che hai sistemato proprio al posto giusto, nella maniera più brillante, tutto quanto può servire alla bellezza e all'ornamento del tuo regno, ma forse, per quel che m'è lecito osservare, una cosa ti manca: non hai nessuno che ti informi delle cose che succedono tra i mortali, e quella gente, credi a me, non va affatto sottovalutata». Quand'ebbe detto queste parole, Giove, un po' soprappensiero, fece un cenno d'assenso e affermò che avrebbe voluto provvedere a quest'unica carenza, ma purtroppo nella schiera così numerosa dei suoi non c'era nessuno, secondo lui, abbastanza ben disposto e capace a cui affidare la missione. «Ma sì che c'è» intervenne Momo «qualcuno a cui affidare con tutte le garanzie di sicurezza questo incarico, e non ne troveresti un altro più abile e adatto! C'è mia figlia Fama, la più sveglia di tutti, e, cosa che fa proprio al caso, velocissima a piedi e in volo come nient'altro; e poi lei è così affezionata a me, mi rispetta tanto che ti posso garantire una cosa, in cambio del beneficio che mi fai: lei porterà a termine rapidamente e con la massima fedeltà e precisione tutto quel che tu le ordinerai, soprattutto se è cosa che riguarda me». Giove ringraziò Momo per il suggerimento e l'impegno assunto. E allora Momo disse: «Devo chiederti una grazia, Giove clementissimo, se si deve ritener grazia e non piuttosto obbligo una cosa del genere verso un supplice sventurato come me: caso mai venga fuori che lei è il frutto di qualche mia colpa amorosa, metti sull'altro piatto della bilancia i dolori che ho passato quando mi hanno strappato la barba!». Scoppiarono a ridere e, appresa tutta la storia, si mostrarono indulgenti. |
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