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Leon Battista Alberti Momo o Del Principe IntraText CT - Lettura del testo |
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-16-Così raccontava Momo tra le risa di tutto quanto il cielo, ma Giove, quando ne ebbe abbastanza di ridere, interruppe il racconto di quelle spiritosaggini: «Ehi, Momo! Succede anche ai vagabondi d'invidiarsi l'uno con l'altro, come dicono che fanno i vasai ed i fabbri?». E Momo: «Ma chi dovrebbe invidiare uno che fa ostentazione della sua miseria?». Giove allora: «Se non sbaglio, chiunque potrebbe invidiare uno che è tanto miserabile, e vorrà sembrare degno di compassione anche lui. Se non è così, devo ammettere che questo tuo vagabondaggio non è solo privo d'inconvenienti, come dicevi tu, ma straordinariamente indicato per raggiungere la tranquillità e il massimo della felicità, al punto che lo preferirei alla beatitudine di noialtri dèi. Oh che grandissimo malanno l'invidia! Oh l'invidia, che grandissimo malanno!». Momo rispose: «Mi spingi ad accusare me stesso, Giove ottimo e massimo! Ne sentirai una bella. C'era tra i filosofi un raro esemplare di fannullone, uno che, se l'avessi visto, l'avresti senz'altro creduto il primo sciagurato di questo mondo: si faceva notare particolarmente, in mezzo ai vagabondi, per com'era combinato. Ora te lo descrivo bene: aveva la faccia schiacciata, il mento rugoso, la pelle screpolata, tutta pustole, che gli calava giù dalle guance come a un bue, il viso nero come il carbone, gli occhi gonfi e sporgenti all'infuori, uno pesto e l'altro mezzo cisposo, tutt'e due insieme storti e strabici; aveva un naso così grosso da far pensare a un naso ambulante. Camminava con la testa curva, inclinata sulla spalla sinistra, il collo allungato e ripiegato: avresti detto che non guardava il suolo con gli occhi, ma con un orecchio; una scapola gli si gonfiava in una gobba pesante; l'andatura era a passi lunghi e larghi, lentissima, eppure barcollava a ogni pie' sospinto per le gambe fiacche, come se una lunga malattia gli avesse rammollito le articolazioni. Non parliamo poi del vestito e di quel che si portava appresso, le bisacce tutte rattoppate, il tabarro antenato di tutti i tabarri, dove avevano fatto il nido mille topi con le doglie del parto; portava appesi a una spalla un sacchetto, un paniere e un vaso da notte zozzi e puzzolenti da morire. Devo ammettere di aver forse invidiato qualche volta quest'uomo, non perché era così conciato, ma perché mi accorgevo che a tanta gente sembrava degno di pietà, mentre si meritava odio più che pietà. Un'altra cosa che mi dava fastidio era vedere fin troppi vagabondi a passeggio in piazza. Però l'unica cosa del vagabondaggio che non riuscivo a mandar giù era quando i ragazzini scatenavano contro di me certi cagnetti latranti che si lanciavano coi denti in fuori sui miei calcagni scoperti. So che non è facile farvi capire quanto siano molesti quei monellacci, ma se fastidi del genere capitassero agli dèi massimi, non riuscirebbero a trovare nulla di più spiacevole in tutto l'universo. Comunque sorvoliamo, e torniamo al punto. Tra i mortali, dunque, non si può trovare una maniera di vivere più comoda di quella dei vagabondi, se è vero, com'è vero, che è facile e fornita di tutto, nessuna disgrazia li può colpire, nessuna cattiveria può portargli via qualcosa, non ci si può trovare nessun motivo per lamentarsi». «Sciocco che sei stato» intervenne Giove «a lasciare tante belle cose per salire tra i celesti! Cosa vai a raccontare, Momo, che non hanno potuto nulla contro di te sulla terra cose che fanno un gran danno quassù tra noi! Dove non arriva la cattiveria?». A questo punto Momo si mise a giurare che non era mai stato così poco toccato da preoccupazioni come quand'era un vagabondo, e che nel far quella vita non aveva mai avuto dolori se non una volta sola, per una storia futile in sé, ma che meritava comunque d'esser raccontata. Gli era capitato d'imbattersi in uno schiavetto uscito fresco fresco dall'ergastolo, che colpiva col bastone un asino che tirava calci e non ne voleva sapere di camminare. All'inizio era scoppiato a ridere di uno che montava su tutte le furie a quel modo, ma poi gli era tornato in mente quanti debiti hanno i poveracci con gli animali da soma: caso mai non ce ne fossero, andrebbe a finire che i ricchi si farebbero portare in spalla dai poveri. Allora, indignato, aveva incominciato a rimproverarlo così: «Selvaggio con due zampe, pecorone, la vuoi smettere di fare il matto? Non ti rendi conto di quanta riconoscenza si debba a questa razza d'animali, che se non ci fossero, tu e i tuoi pari portereste sacchi e bagagli al posto delle bestie da soma?». Questo aveva detto Momo; ma quello là, bestione com'era, lasciò perdere l'asino e si diresse contro chi lo rimproverava, dicendo: «E allora perché non le prendi tu al posto dell'asino?», e con lo stesso bastone con cui aveva battuto l'asino riempì Momo di botte. C'erano per fortuna alcune brave persone, che riuscirono a bloccare lo schiavo coi loro rimproveri, ed espressero a Momo il loro rammarico per l'accaduto; ma lui aveva risposto che se l'era andata a cercare, perché, dopo aver raggiunto l'indifferenza per le più grandi tribolazioni degli uomini, si era lasciato commuovere dai guai di un asino. |
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