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Leon Battista Alberti
Momo o Del Principe

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  • LIBRO SECONDO.
      • -19-
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-19-

 

Momo si sentì prendere da una rabbia feroce, ma, risoluto a simulare e dissimulare in ogni occasione, si liberò di Minerva con poche parole blande e moderate, assicurandole, fra l'altro, di non voler raccogliere assolutamente l'offesa, soprattutto per non andarsi a cercare quel fastidio che di solito accompagna il desiderio ansioso di prendersi la rivincita; si augurava che da allora in poi i suoi nemici e denigratori avessero sentimenti più buoni, e se poi non avessero smesso di attaccarlo, lui comunque avrebbe ritenuto suo preciso dovere mostrarsi tollerante con gli avversari, facendo così vedere a tutti com'era diventato buono e caro il povero Momo dopo tante disgrazie. Ricevuta questa risposta, Minerva se ne andò, ma era quasi appena uscita dal palazzo quando Pallade, spinta dagli stessi presentimenti, spuntò davanti a Momo e cercò di convincerlo che erano state le astuzie di Minerva a trascinarla a non comportarsi bene con lui: era enormemente pentita di questa mancanza e chiedeva perdono. Continuando a dissimulare, Momo si comportò con Pallade non diversamente da prima con Minerva; si sentiva però bruciare talmente di dolore e di rabbia che tratteneva a stento le lacrime. Il dolore di Momo fu sollevato dall'arrivo di Temi, messaggero degli dèi, che era venuto per ordine di Giove a invitare Momo al banchetto per la festa di Ercole. Giove infatti desiderava rendere piacevolissima con l'umorismo di Momo anche la cena di Ercole, come parecchie altre precedenti. Ma andò a finire in modo molto diverso dalle sue intenzioni: durante la cena, infatti, i commensali si scambiavano un sacco di battute, ed Ercole in particolare raccontò alcune barzellette, quando a un certo punto fu chiesto a Momo di raccontare quella vecchia storia di come fosse scappato via in mezzo ai filosofi con la barba strappata. Momo, vedendoli pronti a ridere alle sue spalle, perse la pazienza; non poteva sopportare che non fosse bastato, a Giove e agli dèi, ascoltare quella storia un paio di volte, riassunta in breve, ma la volevano sentire di nuovo, in un banchetto a cui partecipava il fior fiore delle autorità divine, per spassarsela con Momo come fosse una pietanza anche lui, il piatto forte della serata! Così, lui che fin'allora con la sua disponibilità si era prestato ad essere il passatempo di tutte le categorie di dèi, adesso considerava una grave mancanza di rispetto il fatto che lo invitassero non per rendergli onore, ma per farsi quattro risate. Inoltre, da un po' aveva fatto indossare al suo animo una personalità nuova, messa via la precedente: da quando si era reso conto, infatti, di essere portato in palmo di mano dalla massa degli dèi per via del favore del principe, montato dal successo (capita così!), aveva cominciato a nutrire ambizioni più alte e, lasciato da parte quel suo modo di fare simpatico, si era messo a poco a poco sulla via della massima austerità, per sembrar degno di credito agli occhi di Giove, e di prestigio a quelli degli altri celesti. Per questa ragione, offeso dalla faccia tosta dei commensali, di Ercole soprattutto, diede una magnifica lezione a quegli insolenti per mezzo di una trovata veramente ingegnosa. Dichiarò di aver sempre fatto volentieri tutto ciò che riteneva gradito agli dèi, e che anche in quell'occasione non gli sembrava un fastidio far contente, anche a prezzo di un certo dolore, persone che lo trattavano tanto bene, per quanto avrebbe preferito cancellare completamente dal suo animo il ricordo triste del suo periodo nero piuttosto che riaprire tante volte la ferita. Ma al racconto delle sue sventure era strettamente intrecciato un motivo di gratitudine per il beneficio ricevuto dal re degli dèi, il ricordo del quale gli procurava senza dubbio una gioia; anzi, quel beneficio ricevuto sarebbe rimasto eternamente impresso nel suo cuore, e lui non avrebbe mai mancato di fare il possibile per ricambiarlo. La pena dell'esilio non gli era mai riuscita dura e pesante al punto di perdere la convinzione che si dovesse tenere una buona condotta verso la stirpe degli dèi del cielo, e il rimorso per la colpa commessa aveva lenito il dolore della punizione; perciò aveva potuto sopportare con moderazione, costanza e forza d'animo tutti i guai che ogni giorno gli toccava subire, ma non era facile dire da quanti cumuli di avversità era stato sommerso: la cosa che lo affliggeva più di ogni altra era il fatto che non gli si presentava nessuna occasione di dimostrare, senza danni per gli dèi, come fosse diventato buono Momo attraverso qualche buona azione. In qualunque occasione pensasse di dare il meglio di sé, qualunque cosa gli stesse particolarmente a cuore, ecco che andava a sbattere contro l'ostilità di un numero spropositato di rivali, aspri e accaniti oltre ogni limite. Proprio dalle caratteristiche e dallo stile di vita di costoro voleva iniziare il suo discorso; poi avrebbe parlato un po' delle loro enormi scelleratezze, scegliendo solo i più significativi degli innumerevoli delitti che avevano commesso. Esisteva sulla terra una categoria di persone che, a vederle camminare con gli occhi fissi a terra, col viso e le movenze atteggiati al rispetto della morale tradizionale con una precisione da professionisti della scena, se ne avrebbe senz'altro venerazione; se però si osservano più da vicino le loro abituali inclinazioni, e si vede come son pronti a buttarsi a pesce su qualunque azione immorale, si hanno buoni motivi per detestarli. Costoro pretendevano di esser chiamati gli osservatori dell'universo, e, in relazione a tale qualifica, avevano ingegni in sé tutt'altro che tardi e ottusi, ma il cumulo delle loro vergognose sconcezze aveva del tutto offuscato la luce di quelle eccellenti qualità (se proprio le possedevano); avevano fatto del loro titolo e della semplicità del tenore di vita non una scelta esistenziale, ma un mezzo per conquistarsi una superficiale aureola di gloria e la pubblicità di una fama immeritata presso tutti quelli che non li conoscevano a fondo; la loro presunzione era talmente assurda e sfrenata che sostenevano di conoscere a perfezione l'essenza di tutte le cose. Al principio correvano tra loro due tesi a proposito degli dèi, ma in seguito tirarono fuori le idee più svariate, da respingere in blocco non tanto per il numero quanto per il carattere delirante delle posizioni in contrasto: non era però ancora abbastanza chiaro quale di tutte quelle tesi meritasse il più alto disprezzo. Alcuni infatti negavano completamente l'esistenza degli dèi, e sostenevano che l'universo era il prodotto del caso, in seguito a quell'unione fortuita delle particelle infinitesimali che permea di sé tutte le cose, e non la costruzione eseguita dalla mano degli dèi; altri non credevano all'esistenza degli dèi (se ci avessero creduto, avrebbero vissuto in un altro modo!) ma volevano che la maggioranza ci credesse, per il loro interesse, per essere onorati, per rafforzare con la paura degli dèi le loro posizioni di potere e garantirne la stabilità; e completavano il loro ragionamento con una serie di vuote invenzioni, per far credere di essere essi stessi gli intermediari degli dèi e di intrattenere frequenti rapporti con le ninfe, con le divinità locali e con gli dèi maggiori. Con tutti costoro Momo aveva ingaggiato una battaglia estenuante su diversi fronti, una volta per dimostrare l'esistenza degli dèi, un'altra per chiarire che non era certo caratteristica degli dèi farsi complici e responsabili dei delitti di uomini scellerati. Per la sua maniera di partecipare alla battaglia, la forza stessa della sua causa lo rendeva eloquente, e la stessa verità razionale gli prestava facilmente assistenza e difesa nel parlare; però, se i suoi discorsi contro i filosofi erano stati abbastanza abili e adatti a tutelare l'interesse degli dèi, per quanto riguardava la causa della sua salvezza personale, e dei gravi rischi cui andava incontro, non si era saputo dimostrare un avvocato difensore altrettanto capace. La passione con cui si era messo al servizio della causa divina, l'impegno a cui si sentiva obbligato gli avevano giocato un brutto scherzo: era stato oggetto di pesanti invidie, e aveva eccitato contro di sé l'astiosità delle persone più presuntuose e sfrenate che ci siano, gente disposta a sopportare qualunque cosa pur di non dare a vedere di essersi arresa alla saggezza e al buon senso di chicchessia. C'era poi una terza categoria di persone, di raffinata formazione culturale, ma eccessivamente avida di elogi e di gloria, che non ambiva a meritarsi la rinomanza postuma impegnandosi in imprese valorose o con la rettitudine dei pensieri e delle azioni, ma a guadagnarsi una fama immortale con l'arte di fare discussioni puramente accademiche. Costoro avevano l'abitudine di frequentare i dibattiti pubblici, senza mai assumere una posizione precisa e coerente, specialmente rispetto ad interlocutori che apparissero piuttosto preparati, ma cercavano, ricorrendo di volta in volta a nuovi sistemi d'adulazione, di accattivarsi le simpatie dell'uditorio e attirare su di sé l'ammirazione del pubblico, non tanto nel tentativo di guidare al bene sentimenti e opinioni della massa, quanto modificando di giorno in giorno le proprie posizioni per adattarle agli orientamenti della massa stessa, senza darsi il minimo pensiero se fosse vera o falsa, giusta o ingiusta la tesi che stavano difendendo, ma sforzandosi in tutti i modi di far vedere che, nel sostenere proprio quella, avevano avuto il sopravvento sulle opinioni degli altri nel corso della polemica. A Momo succedeva talvolta di lasciarsi trascinare dalla magnificenza e dall'impeto della loro oratoria, tanto da non trovare argomenti per ribattere: erano potenti quelli , con l'abbondanza delle loro parole, erano potenti con la loro erudizione e la loro esperienza, al punto che non c'era nulla che non potessero ottenere, quando lo avessero voluto, o con la loro eloquenza o col prestigio da poco conquistato. Durante la disputa sugli dèi, un uomo appartenente a questa categoria fece il seguente intervento: «Io non sono il tipo, egregi signori, che oserebbe affermare che gli dèi non esistono e che il cielo gira a vuoto, soprattutto in forza del fatto che la credenza negli dèi è radicata nell'animo umano; tuttavia, se non vado errato, non c'è nemmeno uno di voi che oserebbe affermare che esistono in base a una prova sicura e inoppugnabile. Qualche volta però mi capita di domandarmi per quale motivo definiamo 'padri' e 'clementissimi' gli dèi celesti. Mi rivolgo alla vostra benevola cortesia perché prestiate la massima attenzione a quel che dirò adesso: non vi spiacerà, se non m'inganno, ascoltare un mio contributo nuovo e originale a una discussione così importante. Immaginate che siano qui presenti quei nostri antichissimi progenitori che riteniamo molto vicini agli dèi, e che essi, considerata l'infelicità della condizione umana a cui siamo destinati, facciano questa domanda a Giove, padre degli uomini e re degli dèi, in nome dell'affetto paterno non ancora affievolito dal tempo: 'Dovremmo credere, o padre Giove, che sia stato un atto di grande generosità averci voluto strappare in qualsiasi modo tutte le cose che gli uomini considerano desiderabili? Chi mai potrebbe sopportare con animo sereno da qualunque padre, per quanto adirato contro i suoi figli scapestrati, che egli permetta che tocchi in sorte una vita peggiore di quella degli animali bruti proprio a coloro che vorrebbe tenersi cari? Lasciamo stare la forza, la velocità, l'acutezza dei sensi, tutte cose in cui le bestie danno molti punti a noi uomini; ai cervi e alle cornacchie voi dèi avete concesso tanti anni di vita, mentre avete voluto che gli uomini cominciassero a sentirsi invecchiare e indebolire fin dal momento della nascita, e piombassero nella morte nel bel mezzo dei loro sforzi di far qualcosa, prima ancora di sentirsi stabilmente vivi - proprio gli uomini, per i quali era così importante una concessione come quella, per di più nel precipuo interesse dei celesti, visto che sono gli uomini che istituiscono templi, sacrifici e feste magnifiche, e che onorano le cerimonie religiose e ogni manifestazione del sacro. Ma sia pure la morte, per decisione divina, una via d'uscita dalle tribolazioni, sia pure la morte il migliore dei beni perché sottrae ai mali! Io sarei più disposto a credere che la morte non è un male se vedessi che gli dèi se la sono accaparrata, e non disprezzerei il dono, se ci fosse dato da chi non è all'origine di tanti mali. Invece, perché mai i celesti hanno preso possesso di quasi tutte le altre cose che possono presentare aspetti piacevoli, e hanno tenuto ben lontana da loro la morte? Di tutte le cose buone, qual è quella che i celesti non hanno rivendicato per sé e non si sono assegnata? Gli dèi si son portati su nel cielo i nostri Ganimedi, le nostre navicelle, le nostre corone, le lire, le fiaccole, i turiboli, le coppe, togliendoci tutto quel che trovarono di bello, leggiadro e sontuoso; han portato in cielo leprotti, cagnolini, cavalli, aquile, sparvieri, orse, delfini, balene! Non sto adesso a lamentarmi perché si prendono diletto delle cose nostre, delle meraviglie carpite quaggiù, ma non posso nemmeno approvarlo; la cosa che mi dispiace è che quegli esseri beati di lassù non si commuovano per le nostre disgrazie, e, considerando che ci sono padri, chi sarebbe capace di sopportare senza dolore e turbamento il trattamento così cattivo che essi ci riservano? Chi potrebbe sopportare che noi, creature divine, siamo destinati a una sorte peggiore di quella delle creature degli animali? Se è vero che noi siamo i figli e loro i padri, come sarebbe stato giusto renderci partecipi di quel loro immenso potere! Loro invece hanno scacciato i figli dalle dimore paterne, riempiendo il cielo di belve; hanno voluto escludere gli uomini, e hanno riempito il cielo di esseri strani. E allora che valore dovremmo dare al fatto di non essere stati creati idre o ippocentauri, anziché uomini? Eppure c'è chi va sostenendo che gli dèi hanno messo a disposizione degli uomini un mucchio di cose utili, piacevoli e belle: le messi, i frutti, l'oro, le pietre preziose e così via. Sarebbe bene allora considerare attentamente tra noi, a questo proposito, se non sia vero quel che si suol dire, che se uno asserisse che gli dèi hanno fatto quelle cose per darci delle illusioni, per deludere le nostre speranze e i nostri progetti, forse non avrebbe tutti i torti! Quanti sono infatti, e chi, che non desiderano cose del genere, secondo il volere divino, quanti quelli che riescono a ottenerle senza l'opposizione divina, quanti quelli che riescono a godersele dopo averle ottenute? Ma, ammesso che abbiano creato quelle cose nell'interesse degli uomini: di quali uomini, c'è da chiedersi, dei buoni o dei cattivi? Se mi si rispondesse che hanno pensato per i buoni, dovrei domandare allora perché quei beni non vengono assegnati ai buoni e tolti ai malvagi. Perché mai portano via ai più buoni quegli stessi beni che concedono ai peggiori criminali? Ma guarda! Hanno dato agli onesti il senso della giustizia, così questi si sforzano di procurarsi lo stretto necessario ingegnandosi in mezzo a veglie e fatiche, mentre hanno elargito a piene mani anche il superfluo agli ingiusti, agli sfacciati, perfino a chi disprezza gli dèi. Ma perché io dovrei dissuadere certa gente dal bestemmiare gli dèi, quando mi accorgo che essi hanno scaricato una tale quantità di mali sull'intero genere umano che, se qualche volta concedessero una pausa alla loro furia, avrebbero il desiderio di non averlo mai potuto fare? O stirpe dei mortali invisa agli dèi! Infatti, oltre alle cose insopportabili che abbiamo già visto, gli dèi ci hanno dato anche il dolore, la febbre, le malattie, gli angosciosi affanni interiori, le tempeste e i terribili tormenti del cuore e dell'anima! Poveri mortali sommersi dai travagli nella miseria più cupa! I celesti ci tormentano tanto, ci colmano tanto di mali che non si può mai essere senza disgrazie, e in tanta assiduità di situazioni dolorose c'è sempre un nuovo motivo per soffrire che si leva minaccioso su di noi, per cui all'uomo tocca vivere in perpetua afflizione, e nessuna ora di tutta la nostra vita può mai essere uguale alla precedente. Chi di voi, egregi signori, ha la sensazione che sia rimasto per lui un minimo di comodità, a parte quelle cose senza le quali non potremmo nemmeno esistere? Non c'è motivo di ritenere che la luce, l'acqua, il nutrimento eccetera siano stati creati a vantaggio nostro più che degli altri esseri viventi; l'uso della parola e un sistema di vita che ci permette di collegarci più strettamente l'un l'altro ce li siamo inventati da noi, sotto la spinta della necessità; e chi di voi non sa che tutti gli altri beni strappati a noi sono stati regalati a esseri privi di ragione? Quindi, una volta di più maltrattati, noi miseri mortali! Cosa abbiamo fatto per dover tirare avanti una vita infelice, sommersi da sventure e difficoltà, mentre ci è stato sottratto tutto quanto poteva tornare piacevole e comodo? Ma siano pure degni del cielo, quegli dèi, si godano giustamente i beni più grandi: noi uomini, nati per l'infelicità, non ci tireremo indietro di fronte al cumulo dei mali. Però, a chi di voi resta oscura l'idea che può farsi una persona qualunque dell'intera schiatta divina? Non è il caso di esporre quel che ne penso io, stabilirete voi su quali punti della questione si può concordare, giacché si dice che alcuni di noi sono saliti ad aumentare il numero degli dèi. Uno che si è tirato fuori dalla mandria degli uomini per essere cooptato tra i beatissimi padroni del mondo, dico io, non vorrà essere oggetto di onore e venerazione, ritenendosi degno di un rango, di una sede e di un'autorità simili? Nel caso che poi conoscesse perfettamente la strada per risalire tra i celesti, gli sarebbe più facile diventare qualunque altra cosa che un abitante del cielo. Le circostanze casuali, la necessità, ma soprattutto la disonestà e la stoltezza degli uomini hanno dato numerose occasioni ad alcuni dei sommi dèi di essere innalzati, anche senza volerlo, a una tale altezza da domandarsi stupiti come sia potuto accadere. Come sarebbe più facile aver rapporti con loro se si sapessero comportare da dèi secondo la loro dignità! Se un omiciattolo qualunque mostrasse di saper amministrare gli affari come si comporta di solito la maggioranza dei grandi dèi, verrebbe giustamente preso a legnate. Ma come si può pensare che siano dèi questi qua che mostrano tanta sonnacchiosa indifferenza di fronte ai problemi degli uomini? Oppure si giudicheranno degni del benché minimo culto religioso questi che, come si può vedere, rendono onore solo ai mostri? Mi aspetto già la risposta: che c'è di strano se essi, abituati a troppa libertà, fanno pazzie, e se, accorgendosi di potere tutto ciò che vogliono, vogliono tutto ciò che possono e, in definitiva, pensano che ciò che vogliono sia lecito? Sia dunque lecito agli dèi disprezzare le esigenze degli uomini, e rotolarsi in mezzo ai banchetti assieme a Ganimede, immergersi nel nettare e nell'ambrosia. Non sarà lecito anche a noi commuoverci di fronte a tanta infelicità? Non ci sarà lecito pensare che gli dèi di lassù o non hanno alcun pensiero degli uomini o, se ne hanno uno, è di odio? E a che serve chiedere con tante preghiere supplichevoli la clemenza di dèi che hanno altro a cui pensare, o che ci ricambiano col male? Facciamola finita con la stupidaggine d'infastidire con cerimonie inconcludenti esseri che, occupati solo a godere, odiano chi è solerte e operoso! Smettiamola con questa nostra inutile fissazione di guadagnarci benemerenze presso esseri che non esistono o che, se esistono, nella loro astiosa ostilità son sempre pronti a rovesciare mali sugli uomini sventurati




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