-19-
Momo si sentì prendere da una
rabbia feroce, ma, risoluto a simulare e dissimulare in ogni occasione, si
liberò di Minerva con poche parole blande e moderate, assicurandole, fra
l'altro, di non voler raccogliere assolutamente l'offesa, soprattutto per non
andarsi a cercare quel fastidio che di solito accompagna il desiderio ansioso
di prendersi la rivincita; si augurava che da allora in poi i suoi nemici e
denigratori avessero sentimenti più buoni, e se poi non avessero smesso di
attaccarlo, lui comunque avrebbe ritenuto suo preciso dovere mostrarsi
tollerante con gli avversari, facendo così vedere a tutti com'era diventato
buono e caro il povero Momo dopo tante disgrazie. Ricevuta questa risposta,
Minerva se ne andò, ma era quasi appena uscita dal palazzo quando Pallade,
spinta dagli stessi presentimenti, spuntò davanti a Momo e cercò di convincerlo
che erano state le astuzie di Minerva a trascinarla a non comportarsi bene con
lui: era enormemente pentita di questa mancanza e chiedeva perdono. Continuando
a dissimulare, Momo si comportò con Pallade non diversamente da prima con
Minerva; si sentiva però bruciare talmente di dolore e di rabbia che tratteneva
a stento le lacrime. Il dolore di Momo fu sollevato dall'arrivo di Temi,
messaggero degli dèi, che era venuto per ordine di Giove a invitare Momo al
banchetto per la festa di Ercole. Giove infatti desiderava rendere
piacevolissima con l'umorismo di Momo anche la cena di Ercole, come parecchie
altre precedenti. Ma andò a finire in modo molto diverso dalle sue intenzioni:
durante la cena, infatti, i commensali si scambiavano un sacco di battute, ed
Ercole in particolare raccontò alcune barzellette, quando a un certo punto fu
chiesto a Momo di raccontare quella vecchia storia di come fosse scappato via
in mezzo ai filosofi con la barba strappata. Momo, vedendoli pronti a ridere
alle sue spalle, perse la pazienza; non poteva sopportare che non fosse
bastato, a Giove e agli dèi, ascoltare quella storia un paio di volte,
riassunta in breve, ma la volevano sentire di nuovo, in un banchetto a cui
partecipava il fior fiore delle autorità divine, per spassarsela con Momo come
fosse una pietanza anche lui, il piatto forte della serata! Così, lui che
fin'allora con la sua disponibilità si era prestato ad essere il passatempo di
tutte le categorie di dèi, adesso considerava una grave mancanza di rispetto il
fatto che lo invitassero non per rendergli onore, ma per farsi quattro risate.
Inoltre, da un po' aveva fatto indossare al suo animo una personalità nuova,
messa via la precedente: da quando si era reso conto, infatti, di essere
portato in palmo di mano dalla massa degli dèi per via del favore del principe,
montato dal successo (capita così!), aveva cominciato a nutrire ambizioni più
alte e, lasciato da parte quel suo modo di fare simpatico, si era messo a poco
a poco sulla via della massima austerità, per sembrar degno di credito agli
occhi di Giove, e di prestigio a quelli degli altri celesti. Per questa
ragione, offeso dalla faccia tosta dei commensali, di Ercole soprattutto, diede
una magnifica lezione a quegli insolenti per mezzo di una trovata veramente
ingegnosa. Dichiarò di aver sempre fatto volentieri tutto ciò che riteneva
gradito agli dèi, e che anche in quell'occasione non gli sembrava un fastidio
far contente, anche a prezzo di un certo dolore, persone che lo trattavano
tanto bene, per quanto avrebbe preferito cancellare completamente dal suo animo
il ricordo triste del suo periodo nero piuttosto che riaprire tante volte la
ferita. Ma al racconto delle sue sventure era strettamente intrecciato un motivo
di gratitudine per il beneficio ricevuto dal re degli dèi, il ricordo del quale
gli procurava senza dubbio una gioia; anzi, quel beneficio ricevuto sarebbe
rimasto eternamente impresso nel suo cuore, e lui non avrebbe mai mancato di
fare il possibile per ricambiarlo. La pena dell'esilio non gli era mai riuscita
dura e pesante al punto di perdere la convinzione che si dovesse tenere una
buona condotta verso la stirpe degli dèi del cielo, e il rimorso per la colpa
commessa aveva lenito il dolore della punizione; perciò aveva potuto sopportare
con moderazione, costanza e forza d'animo tutti i guai che ogni giorno gli
toccava subire, ma non era facile dire da quanti cumuli di avversità era stato
sommerso: la cosa che lo affliggeva più di ogni altra era il fatto che non gli
si presentava nessuna occasione di dimostrare, senza danni per gli dèi, come
fosse diventato buono Momo attraverso qualche buona azione. In qualunque
occasione pensasse di dare il meglio di sé, qualunque cosa gli stesse
particolarmente a cuore, ecco che andava a sbattere contro l'ostilità di un
numero spropositato di rivali, aspri e accaniti oltre ogni limite. Proprio
dalle caratteristiche e dallo stile di vita di costoro voleva iniziare il suo
discorso; poi avrebbe parlato un po' delle loro enormi scelleratezze,
scegliendo solo i più significativi degli innumerevoli delitti che avevano
commesso. Esisteva sulla terra una categoria di persone che, a vederle
camminare con gli occhi fissi a terra, col viso e le movenze atteggiati al
rispetto della morale tradizionale con una precisione da professionisti della
scena, se ne avrebbe senz'altro venerazione; se però si osservano più da vicino
le loro abituali inclinazioni, e si vede come son pronti a buttarsi a pesce su
qualunque azione immorale, si hanno buoni motivi per detestarli. Costoro
pretendevano di esser chiamati gli osservatori dell'universo, e, in relazione a
tale qualifica, avevano ingegni in sé tutt'altro che tardi e ottusi, ma il
cumulo delle loro vergognose sconcezze aveva del tutto offuscato la luce di
quelle eccellenti qualità (se proprio le possedevano); avevano fatto del loro
titolo e della semplicità del tenore di vita non una scelta esistenziale, ma un
mezzo per conquistarsi una superficiale aureola di gloria e la pubblicità di una
fama immeritata presso tutti quelli che non li conoscevano a fondo; la loro
presunzione era talmente assurda e sfrenata che sostenevano di conoscere a
perfezione l'essenza di tutte le cose. Al principio correvano tra loro due tesi
a proposito degli dèi, ma in seguito tirarono fuori le idee più svariate, da
respingere in blocco non tanto per il numero quanto per il carattere delirante
delle posizioni in contrasto: non era però ancora abbastanza chiaro quale di
tutte quelle tesi meritasse il più alto disprezzo. Alcuni infatti negavano
completamente l'esistenza degli dèi, e sostenevano che l'universo era il
prodotto del caso, in seguito a quell'unione fortuita delle particelle
infinitesimali che permea di sé tutte le cose, e non la costruzione eseguita
dalla mano degli dèi; altri non credevano all'esistenza degli dèi (se ci
avessero creduto, avrebbero vissuto in un altro modo!) ma volevano che la
maggioranza ci credesse, per il loro interesse, per essere onorati, per
rafforzare con la paura degli dèi le loro posizioni di potere e garantirne la
stabilità; e completavano il loro ragionamento con una serie di vuote
invenzioni, per far credere di essere essi stessi gli intermediari degli dèi e
di intrattenere frequenti rapporti con le ninfe, con le divinità locali e con
gli dèi maggiori. Con tutti costoro Momo aveva ingaggiato una battaglia
estenuante su diversi fronti, una volta per dimostrare l'esistenza degli dèi,
un'altra per chiarire che non era certo caratteristica degli dèi farsi complici
e responsabili dei delitti di uomini scellerati. Per la sua maniera di
partecipare alla battaglia, la forza stessa della sua causa lo rendeva
eloquente, e la stessa verità razionale gli prestava facilmente assistenza e
difesa nel parlare; però, se i suoi discorsi contro i filosofi erano stati
abbastanza abili e adatti a tutelare l'interesse degli dèi, per quanto
riguardava la causa della sua salvezza personale, e dei gravi rischi cui andava
incontro, non si era saputo dimostrare un avvocato difensore altrettanto
capace. La passione con cui si era messo al servizio della causa divina,
l'impegno a cui si sentiva obbligato gli avevano giocato un brutto scherzo: era
stato oggetto di pesanti invidie, e aveva eccitato contro di sé l'astiosità
delle persone più presuntuose e sfrenate che ci siano, gente disposta a
sopportare qualunque cosa pur di non dare a vedere di essersi arresa alla
saggezza e al buon senso di chicchessia. C'era poi una terza categoria di
persone, di raffinata formazione culturale, ma eccessivamente avida di elogi e
di gloria, che non ambiva a meritarsi la rinomanza postuma impegnandosi in
imprese valorose o con la rettitudine dei pensieri e delle azioni, ma a
guadagnarsi una fama immortale con l'arte di fare discussioni puramente
accademiche. Costoro avevano l'abitudine di frequentare i dibattiti pubblici,
senza mai assumere una posizione precisa e coerente, specialmente rispetto ad
interlocutori che apparissero piuttosto preparati, ma cercavano, ricorrendo di
volta in volta a nuovi sistemi d'adulazione, di accattivarsi le simpatie
dell'uditorio e attirare su di sé l'ammirazione del pubblico, non tanto nel
tentativo di guidare al bene sentimenti e opinioni della massa, quanto
modificando di giorno in giorno le proprie posizioni per adattarle agli
orientamenti della massa stessa, senza darsi il minimo pensiero se fosse vera o
falsa, giusta o ingiusta la tesi che stavano difendendo, ma sforzandosi in
tutti i modi di far vedere che, nel sostenere proprio quella, avevano avuto il
sopravvento sulle opinioni degli altri nel corso della polemica. A Momo
succedeva talvolta di lasciarsi trascinare dalla magnificenza e dall'impeto
della loro oratoria, tanto da non trovare argomenti per ribattere: erano
potenti quelli là, con l'abbondanza delle loro parole, erano potenti con la loro
erudizione e la loro esperienza, al punto che non c'era nulla che non potessero
ottenere, quando lo avessero voluto, o con la loro eloquenza o col prestigio da
poco conquistato. Durante la disputa sugli dèi, un uomo appartenente a questa
categoria fece il seguente intervento: «Io non sono il tipo, egregi signori,
che oserebbe affermare che gli dèi non esistono e che il cielo gira a vuoto,
soprattutto in forza del fatto che la credenza negli dèi è radicata nell'animo
umano; tuttavia, se non vado errato, non c'è nemmeno uno di voi che oserebbe
affermare che esistono in base a una prova sicura e inoppugnabile. Qualche
volta però mi capita di domandarmi per quale motivo definiamo 'padri' e
'clementissimi' gli dèi celesti. Mi rivolgo alla vostra benevola cortesia
perché prestiate la massima attenzione a quel che dirò adesso: non vi spiacerà,
se non m'inganno, ascoltare un mio contributo nuovo e originale a una
discussione così importante. Immaginate che siano qui presenti quei nostri
antichissimi progenitori che riteniamo molto vicini agli dèi, e che essi,
considerata l'infelicità della condizione umana a cui siamo destinati, facciano
questa domanda a Giove, padre degli uomini e re degli dèi, in nome dell'affetto
paterno non ancora affievolito dal tempo: 'Dovremmo credere, o padre Giove, che
sia stato un atto di grande generosità averci voluto strappare in qualsiasi
modo tutte le cose che gli uomini considerano desiderabili? Chi mai potrebbe
sopportare con animo sereno da qualunque padre, per quanto adirato contro i
suoi figli scapestrati, che egli permetta che tocchi in sorte una vita peggiore
di quella degli animali bruti proprio a coloro che vorrebbe tenersi cari?
Lasciamo stare la forza, la velocità, l'acutezza dei sensi, tutte cose in cui
le bestie danno molti punti a noi uomini; ai cervi e alle cornacchie voi dèi
avete concesso tanti anni di vita, mentre avete voluto che gli uomini
cominciassero a sentirsi invecchiare e indebolire fin dal momento della
nascita, e piombassero nella morte nel bel mezzo dei loro sforzi di far
qualcosa, prima ancora di sentirsi stabilmente vivi - proprio gli uomini, per i
quali era così importante una concessione come quella, per di più nel precipuo
interesse dei celesti, visto che sono gli uomini che istituiscono templi,
sacrifici e feste magnifiche, e che onorano le cerimonie religiose e ogni
manifestazione del sacro. Ma sia pure la morte, per decisione divina, una via
d'uscita dalle tribolazioni, sia pure la morte il migliore dei beni perché
sottrae ai mali! Io sarei più disposto a credere che la morte non è un male se
vedessi che gli dèi se la sono accaparrata, e non disprezzerei il dono, se ci
fosse dato da chi non è all'origine di tanti mali. Invece, perché mai i celesti
hanno preso possesso di quasi tutte le altre cose che possono presentare
aspetti piacevoli, e hanno tenuto ben lontana da loro la morte? Di tutte le
cose buone, qual è quella che i celesti non hanno rivendicato per sé e non si
sono assegnata? Gli dèi si son portati su nel cielo i nostri Ganimedi, le
nostre navicelle, le nostre corone, le lire, le fiaccole, i turiboli, le coppe,
togliendoci tutto quel che trovarono di bello, leggiadro e sontuoso; han
portato in cielo leprotti, cagnolini, cavalli, aquile, sparvieri, orse,
delfini, balene! Non sto adesso a lamentarmi perché si prendono diletto delle
cose nostre, delle meraviglie carpite quaggiù, ma non posso nemmeno approvarlo;
la cosa che mi dispiace è che quegli esseri beati di lassù non si commuovano
per le nostre disgrazie, e, considerando che ci sono padri, chi sarebbe capace
di sopportare senza dolore e turbamento il trattamento così cattivo che essi ci
riservano? Chi potrebbe sopportare che noi, creature divine, siamo destinati a
una sorte peggiore di quella delle creature degli animali? Se è vero che noi siamo
i figli e loro i padri, come sarebbe stato giusto renderci partecipi di quel
loro immenso potere! Loro invece hanno scacciato i figli dalle dimore paterne,
riempiendo il cielo di belve; hanno voluto escludere gli uomini, e hanno
riempito il cielo di esseri strani. E allora che valore dovremmo dare al fatto
di non essere stati creati idre o ippocentauri, anziché uomini? Eppure c'è chi
va sostenendo che gli dèi hanno messo a disposizione degli uomini un mucchio di
cose utili, piacevoli e belle: le messi, i frutti, l'oro, le pietre preziose e
così via. Sarebbe bene allora considerare attentamente tra noi, a questo
proposito, se non sia vero quel che si suol dire, che se uno asserisse che gli
dèi hanno fatto quelle cose per darci delle illusioni, per deludere le nostre
speranze e i nostri progetti, forse non avrebbe tutti i torti! Quanti sono
infatti, e chi, che non desiderano cose del genere, secondo il volere divino,
quanti quelli che riescono a ottenerle senza l'opposizione divina, quanti
quelli che riescono a godersele dopo averle ottenute? Ma, ammesso che abbiano
creato quelle cose nell'interesse degli uomini: di quali uomini, c'è da
chiedersi, dei buoni o dei cattivi? Se mi si rispondesse che hanno pensato per
i buoni, dovrei domandare allora perché quei beni non vengono assegnati ai
buoni e tolti ai malvagi. Perché mai portano via ai più buoni quegli stessi
beni che concedono ai peggiori criminali? Ma guarda! Hanno dato agli onesti il
senso della giustizia, così questi si sforzano di procurarsi lo stretto necessario
ingegnandosi in mezzo a veglie e fatiche, mentre hanno elargito a piene mani
anche il superfluo agli ingiusti, agli sfacciati, perfino a chi disprezza gli
dèi. Ma perché io dovrei dissuadere certa gente dal bestemmiare gli dèi, quando
mi accorgo che essi hanno scaricato una tale quantità di mali sull'intero
genere umano che, se qualche volta concedessero una pausa alla loro furia,
avrebbero il desiderio di non averlo mai potuto fare? O stirpe dei mortali
invisa agli dèi! Infatti, oltre alle cose insopportabili che abbiamo già visto,
gli dèi ci hanno dato anche il dolore, la febbre, le malattie, gli angosciosi
affanni interiori, le tempeste e i terribili tormenti del cuore e dell'anima!
Poveri mortali sommersi dai travagli nella miseria più cupa! I celesti ci
tormentano tanto, ci colmano tanto di mali che non si può mai essere senza
disgrazie, e in tanta assiduità di situazioni dolorose c'è sempre un nuovo
motivo per soffrire che si leva minaccioso su di noi, per cui all'uomo tocca
vivere in perpetua afflizione, e nessuna ora di tutta la nostra vita può mai
essere uguale alla precedente. Chi di voi, egregi signori, ha la sensazione che
sia rimasto per lui un minimo di comodità, a parte quelle cose senza le quali
non potremmo nemmeno esistere? Non c'è motivo di ritenere che la luce, l'acqua,
il nutrimento eccetera siano stati creati a vantaggio nostro più che degli
altri esseri viventi; l'uso della parola e un sistema di vita che ci permette
di collegarci più strettamente l'un l'altro ce li siamo inventati da noi, sotto
la spinta della necessità; e chi di voi non sa che tutti gli altri beni
strappati a noi sono stati regalati a esseri privi di ragione? Quindi, una
volta di più maltrattati, noi miseri mortali! Cosa abbiamo fatto per dover
tirare avanti una vita infelice, sommersi da sventure e difficoltà, mentre ci è
stato sottratto tutto quanto poteva tornare piacevole e comodo? Ma siano pure
degni del cielo, quegli dèi, si godano giustamente i beni più grandi: noi
uomini, nati per l'infelicità, non ci tireremo indietro di fronte al cumulo dei
mali. Però, a chi di voi resta oscura l'idea che può farsi una persona
qualunque dell'intera schiatta divina? Non è il caso di esporre quel che ne
penso io, stabilirete voi su quali punti della questione si può concordare,
giacché si dice che alcuni di noi sono saliti ad aumentare il numero degli dèi.
Uno che si è tirato fuori dalla mandria degli uomini per essere cooptato tra i
beatissimi padroni del mondo, dico io, non vorrà essere oggetto di onore e
venerazione, ritenendosi degno di un rango, di una sede e di un'autorità
simili? Nel caso che poi conoscesse perfettamente la strada per risalire tra i
celesti, gli sarebbe più facile diventare qualunque altra cosa che un abitante
del cielo. Le circostanze casuali, la necessità, ma soprattutto la disonestà e
la stoltezza degli uomini hanno dato numerose occasioni ad alcuni dei sommi dèi
di essere innalzati, anche senza volerlo, a una tale altezza da domandarsi
stupiti come sia potuto accadere. Come sarebbe più facile aver rapporti con
loro se si sapessero comportare da dèi secondo la loro dignità! Se un
omiciattolo qualunque mostrasse di saper amministrare gli affari come si
comporta di solito la maggioranza dei grandi dèi, verrebbe giustamente preso a
legnate. Ma come si può pensare che siano dèi questi qua che mostrano tanta
sonnacchiosa indifferenza di fronte ai problemi degli uomini? Oppure si
giudicheranno degni del benché minimo culto religioso questi che, come si può
vedere, rendono onore solo ai mostri? Mi aspetto già la risposta: che c'è di
strano se essi, abituati a troppa libertà, fanno pazzie, e se, accorgendosi di
potere tutto ciò che vogliono, vogliono tutto ciò che possono e, in definitiva,
pensano che ciò che vogliono sia lecito? Sia dunque lecito agli dèi disprezzare
le esigenze degli uomini, e rotolarsi in mezzo ai banchetti assieme a Ganimede,
immergersi nel nettare e nell'ambrosia. Non sarà lecito anche a noi commuoverci
di fronte a tanta infelicità? Non ci sarà lecito pensare che gli dèi di lassù o
non hanno alcun pensiero degli uomini o, se ne hanno uno, è di odio? E a che
serve chiedere con tante preghiere supplichevoli la clemenza di dèi che hanno
altro a cui pensare, o che ci ricambiano col male? Facciamola finita con la
stupidaggine d'infastidire con cerimonie inconcludenti esseri che, occupati
solo a godere, odiano chi è solerte e operoso! Smettiamola con questa nostra
inutile fissazione di guadagnarci benemerenze presso esseri che non esistono o
che, se esistono, nella loro astiosa ostilità son sempre pronti a rovesciare
mali sugli uomini sventurati!»
|