In questa situazione Giove, per
togliersi di mezzo quella seccatura continua dei postulanti, fidando
soprattutto nel buon esito della missione di Mercurio (era convinto di ottenere
un successo sbalorditivo presentando a quella massa di dèi ignorantoni qualche
splendida trovata dei filosofi), comunicò che alle prossime calende celesti
avrebbe esposto in un pubblico discorso le sue decisioni, dando soddisfazione a
tutte le categorie divine. Ma la speranza riposta in Mercurio lo deluse molto:
arrivato sulla terra, infatti, Mercurio s'era tolto i calzari alati e si era
diretto verso l'Accademia, ma nella stessa piazzetta dove sorge quella fabbrica
di filosofi s'era imbattuto nel filosofo Socrate solo soletto: vedendoselo
davanti scalzo e col vestito consumato, pensò che fosse un popolano qualunque,
e quindi gli si presentò in tutto lo splendore del viso e della sua natura divina.
«Ehi, buon uomo!» disse. «Dove sono quelle persone che fanno diventar gli
uomini colti e buoni?». Socrate, che era uno di compagnia, veramente spassoso,
osservando quel giovane forestiero di straordinaria bellezza, con quella sua
abile maniera di discorrere che era per lui ormai istintiva cominciò a fargli
partorire chiacchiere una dopo l'altra, finché venne a sapere che quello era
Mercurio, e la ragione precisa per cui era venuto, e che cosa stessero
preparando i celesti, tutto insomma. Nel frattempo arrivavano alla spicciolata
gli allievi di Socrate, e quando Socrate vide che ce n'erano a sufficienza, lui
per primo mise le mani addosso a Mercurio urlando: «Venite, amici cari!
Acchiappate questo qui! Sarà un giovane di nobili sentimenti, ma è matto, matto
da non credersi, matto come non se ne son visti mai! Che sciagura la condizione
i umana! Quante vie per scombussolarci il cervello sa trovar la follia! Cosa
c'è da commiserare in quelli che escono pazzi per amore, per l'odio, per le
ambizioni e le voglie? Cosa c'è? Questo qui va dicendo in giro che è Mercurio e
l'ha mandato Giove a cercare dov'è la dea Virtù raminga fuori del cielo, e che
i celesti si preparano a distruggere l'universo per rimetterlo a nuovo! Che
razza di follia è mai questa?». A sentire queste parole quelli che avevano
afferrato Mercurio si sbellicavano dalle risa e non facevano molto caso a
sorvegliarlo; allora Mercurio, che aveva piedi lesti, se la squagliò, e andò a
finire, guarda caso, nel vicolo dove abitava Diogene dentro la botte. Allora si
fermò, stanco per la corsa, in quel posto appartato dove non lo vedeva nessuno.
Intanto un disgraziato figlio di mignotta, ubriaco per giunta, levò il bastone
che si portava dietro contro la botte di Diogene ‑ già quasi alla fine,
vecchia e fradicia com'era ‑ e la fracassò colpendola a tutta forza, dopo
di che sparì di gran carriera. Diogene, incazzatissimo per quella provocazione,
saltò fuori dalla botte scassata e, non vedendo nessun altro che Mercurio
seduto, lo assalì brandendo lo stesso bastone che l'aveva colpito. Mercurio,
atterrito da quell'inopinato assalto, gridava con tutta la sua voce: «Aiuto!
Soccorso!» alla gente del quartiere, poi esclamò urlando, rivolto a Diogene che
l'aveva picchiato: «Come ti permetti di fare una simile ingiustizia verso un
uomo libero che non ti ha fatto niente?». Diogene ribatté: «Come ti permetti tu
di lamentarti, se ti prendi da un servo quello che ti meriti? Tu, svergognato,
tu, farabutto, sei stato tu ingiusto, che hai avuto il coraggio di stuzzicare uno
che se ne stava per i fatti suoi, e gli hai distrutto la casa, l'hai strappato
al suo focolare! Tua, sì, tua è questa intollerabile ingiustizia! In quel che
ho fatto io non c'è ingiustizia, semmai c'è un errore, perché avevo mirato alla
testa col bastone, non alla guancia!». Alle grida di Mercurio erano accorse un
paio di persone che, appreso il fatto, lo invitarono a non prendersela troppo
con un filosofo di quel genere. Poi si misero a rimproverare Diogene facendogli
presente che non stava bene, per uno che si professava filosofo, non saper
frenare la rabbia, e che era una colpa per lui non esser completamente privo di
un difetto comunemente tanto biasimato; e poi non c'era cosa più vergognosa di
un poveraccio senz'arte né parte che va fuori di senno per incapacità di
sopportazione. Allora Diogene sbottò: «Ecco cosa mi tocca sentire! Si mettono a
dar consigli proprio quelli che vorrebbero che io mi comportassi nei fatti miei
come loro non si sanno comportare in quelli degli altri. Mi si ordina di sopportare
con pazienza il mio dolore, quando non si riesce a mantenere un po' di
controllo davanti a quello altrui!»
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