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Finalmente, su richiesta
dell'assemblea, prese la parola per primo Saturno, con una voce così
impacciata, parole così rade e movimenti così stanchi che il suo si sarebbe
detto un tentativo di discorso più che un discorso: pochi riuscirono ad
afferrare qualcosa di quel mormorio; alcuni comunque riferivano che Saturno
aveva detto che si scusava se l'età avanzata non gli permetteva di parlare
meglio, dato che aveva i fianchi e il petto rovinati, era senza fiato, la
vecchiaia l'aveva rattrappito e gli aveva consumato le forze. Subito dopo prese
la parola Cibele, la madre degli dèi: tentennò a lungo, deglutendo in
continuazione come tutte le vecchie, e alla fine, dopo essersi osservata per un
pezzo le unghie, disse: «In effetti, era proprio il caso di riflettere su
problemi così gravi ed insoliti!». Il terzo intervento fu quello di Nettuno:
questi divagò in lungo e in largo a forza di banalità e di luoghi comuni,
parlando con voce stridula, con un tono sgradevole, quasi alla maniera di un
attore tragico, e riuscì a dar la sensazione di aver discusso di tutto, tranne
dell'argomento all'ordine del giorno. Venne poi il turno di Vulcano, il quale
concentrò tutto il suo intervento sulla vibrante affermazione che era proprio
ammirato di vedere nel novero degli dèi tanti elementi così ingegnosi che
sapevano trattare con competenza e precisione i problemi per cui era stata
convocata l'assemblea. Marte poi, quando toccò a lui, dichiarò che l'unica cosa
che aveva da dire sull'argomento era che lui si sarebbe tenuto pronto a
intervenire in qualsiasi momento sotto il comando supremo di Giove, e avrebbe
prestato la sua opera nella distruzione totale del mondo. Il discorso di
Plutone sembrò ispirato a una certa avidità: fece sapere, infatti, che lui
disponeva di nuovi modelli di mondo davvero splendidi, ed era pronto a
esibirli, se si fossero accordati sul prezzo, dato che aveva deciso di non
concedere le sue prestazioni professionali senza la prospettiva di un guadagno.
Ercole, ora che gli si presentava l'occasione di fare davanti a un'assemblea
così numerosa e ricca di personalità di prestigio quel discorso di
autocelebrazione che si era preparato da un pezzo, non se la lasciò certo
sfuggire: esaltò con un sacco di paroloni le sue imprese, e promise grandi cose
per l'avvenire; in conclusione, dichiarò di rimettersi al parere di Giove
sull'intera faccenda. Venere fece ridere tutti: assicurava di aver escogitato
certe novità che erano proprio capolavori, però un piccolo particolare era di
grosso impedimento: comunque avrebbe consultato lo specchio, il migliore dei
maestri. Diana s'impegnò a reperire un architetto bravissimo: però i
professionisti di quella categoria non erano disposti ad accettare le
osservazioni degli incompetenti, volendo evitare che altri, tanto per dare
l'impressione d'aver fatto qualcosa, rovinassero e deturpassero con interventi
di modifica le loro elaborazioni artistiche. Più avveduta fu giudicata Giunone,
che proponeva di fare parecchi mondi di forme svariate, fino ad esaurimento
delle scorte. Quando arrivò infine il turno di Pallade, essa, recitando la
parte concordata in precedenza con Giunone e gli altri compagni di fronda,
dichiarò di dover necessariamente conferire con Giove in persona; a quel punto
saltarono in piedi diversi dèi (ai quali il piano fraudolento che era stato
preordinato assegnava questo compito) a protestare ad alta voce, criticando la
superbia di Pallade, che riteneva una simile assemblea di personalità divine
indegna di ricevere comunicazioni su progetti elaborati nel comune interesse;
quella ribatté stizzita; allora molti, eccitati dalle passioni di parte,
lasciarono i banchi e cominciarono a scambiarsi invettive, dando vita a una
mischia schiamazzante. Momo, vedendo quella gazzarra e quella confusione tra i
banchi, richiamava all'ordine ora l'uno ora l'altro con quella sua voce tonante
che superava tutte le altre, gridando a tal punto che in mezzo a
quell'assemblea così affollata si sentiva solo lui. Dopo aver fatto invano ripetuti
tentativi di riportare la calma nell'assemblea, irritato da quella situazione
indecorosa cominciò a trascendere, al punto che la rabbia gli fece perdere il
controllo di quello che diceva: per esempio, disse che non avevano avuto torto
i mortali a prescrivere, con una norma antichissima e solenne, l'interdizione
perpetua delle donne dai pubblici uffici; e addirittura esclamò: «Quale tana
d'ubriaconi si può paragonare a questo casino?». La frase, udita dall'intera
assemblea, colpì gli animi già gonfi di rabbia di tutti, che del resto ce
l'avevano con lui fin dall'inizio della seduta; ecco cosa dicevano: «Ah, è
così? Momo con quella barbetta morsicata è stato richiamato dall'esilio per
ergersi a nuovo censore, con nostra vergogna?».
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