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Ormai, dunque, tutte quelle
fiumane umane, per dir così, erano confluite nella città per via dei giochi e
degli spettacoli. Squillavano le trombe sul sottofondo dei flauti, mentre
nacchere, tamburelli, cornette e tutti gli strumenti battevano il ritmo. Anche
la volta celeste risuonava delle note di quell'immensa armonia. In più c'era il
mormorio intenso della gente, un intrecciarsi continuo di voci e rumori
diversi; tutti quanti i celesti si bloccarono in ammirazione, attratti da quel
suono insolito e fenomenale. Allora il dio Stupore, il più scemo di tutti,
volendo intrufolarsi nelle grazie di Giove, come aveva fatto Momo, con qualche
battuta di spirito, siccome era piuttosto ritardato e grossolano gli si
avvicinò e disse con una voce da selvaggio: «Oh, capo! Son tanti gli uomini che
rumoreggiano qui sotto, che se li scuoiassi tutti senza dubbio ne avresti da
coprire il cielo intero!». E Giove: «Ma pensa quant'è profondo questo qui! Che
succede, Stupore? Che cosa ti salta in mente? Però la tua idea è bellina
davvero: siccome senti sempre freddo, ti sei preoccupato che il cielo, stando
scoperto, si buschi il raffreddore». Gli dèi scoppiarono a ridere; poi si
andarono a piazzare in tutte le posizioni migliori dal punto di vista
panoramico e acustico per godersi lo spettacolo terrestre. Ecco in processione
la nobiltà e le varie categorie cittadine, seguite da schiere di signore di
tutte le età, compiere il rito di purificazione della città: si dà mano alle
fiaccole, e una solenne luminaria risplende nel buio della notte. Le ragazze
più belle sfilano sotto i portici ornandoli con la loro presenza, e rendono
onore agli dèi con canti corali, danzando in corteo. I celesti erano ammutoliti
di fronte a tanto spettacolo, e ognuno di loro rimaneva nel posto che si era
scelto ad osservare con la massima attenzione a bocca spalancata. Nel
frattempo, rispettando una tradizione che risaliva ai tempi della disgrazia di
Prometeo, numerose divinità, in particolare quelle marittime, si erano
avvicinate a Momo per rendergli omaggio e portare un po' di conforto al suo
dolore: fecero così per esempio le Naiadi, le Napèe, le Driadi, le Forcidi e
altre ninfe. Momo sollevò gli occhi quasi consumati dal pianto e vide brillare
in alto nel cielo le fiammelle che avevano in testa gli dèi; chiese che senso avevano
tutte quelle luci spuntate così di colpo nel cielo, e, appreso il motivo, per
la rabbia di non poter assistere anche lui a uno spettacolo simile lasciò
partire dal più profondo del petto, fra tanti lamenti, un sospiro così lungo
che il vapore emesso, condensandosi, formò una nebbia cupa e fitta che rimase
stabilmente sospesa attraverso tutta l'atmosfera. Alla vista del fenomeno Momo
ebbe subito l'idea di combinarne qualcuna delle sue, e si mise a supplicare con
tanta insistenza le divinità presenti, finché ottenne dalle ninfe venute a
fargli visita che, siccome non avevano altra possibilità di fare qualcosa per
lui, gli rendessero almeno una grossa cortesia per alleviare il suo dolore:
dilatare il più possibile quella nebbia andandola a fissare alle cime dei
monti, in modo da impedire a quegli dèi tanto astiosi e cattivi con lui di
godersi lo spettacolo delle sue sofferenze. Le ninfe accondiscesero alle
suppliche del povero Momo, e sudarono sette camicie per realizzare il suo
desiderio: la conseguenza fu che, siccome per via di quel nebbione di mezzo non
si poteva più vedere gli uomini che si recavano ai santuari degli dèi, alle
cappelle e agli altari, ma si riusciva solo a sentirli, i celesti si esposero a
un grosso rischio. Infatti, non contenti di sentir cantare i loro elogi con
l'accompagnamento del flauto, ma desiderosi soprattutto di vedere, quasi fuori
di sé, decisero di scender giù dal cielo per soddisfare da vicino le proprie
voglie. E così andarono a prender posto sui tetti delle case umane. Solo
Ercole, probabilmente per paura delle insidie degli invidiosi e di chi avrebbe
voluto imitarlo e anche della difficoltà del ritorno alle dimore celesti,
affermò che non era confacente alla maestà divina, e nemmeno tanto sicuro, che
gli dèi si andassero a mescolare con la folla dei mortali. Egli, infatti, aveva
ridotto a totale impotenza i mostri più grandi e spaventosi della terra, ma non
era mai riuscito neanche a fronteggiare l'urto di una folla concorde
nell'andare all'assalto alla cieca: la massa era facile a scaldarsi, di
principi tutt'altro che saldi, capricciosa, passionale; era facile indurla a
qualunque misfatto senza che riflettesse se fosse giusto o meno quel che il
consenso della maggioranza reclamava; si sollevava selvaggiamente e passava all'attacco
sfrenata, senza che potessero trattenerla o controllarla abbastanza i consigli
ragionevoli delle persone di buon senso o gli ordini di chi cercava soluzioni
positive; la massa impazzita non era nemmeno capace di non volere tutto ciò che
era suo completo arbitrio; non si preoccupava se le sue iniziative fossero
criminali e vergognose oppure no, pur di portarle a termine, e non smetteva di
compiere atrocità se non per iniziarne di peggiori. Ma la cosa veramente strana
era che gli uomini, presi singolarmente, erano quasi tutti assennati e
conoscevano ciò che era giusto, ma appena si mettevano assieme, eccoli subito
pronti a far pazzie e ad uscire immediatamente dalla buona strada.
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