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Leon Battista Alberti
Momo o Del Principe

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  • LIBRO QUARTO.
      • -2-
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Ormai, dunque, tutte quelle fiumane umane, per dir così, erano confluite nella città per via dei giochi e degli spettacoli. Squillavano le trombe sul sottofondo dei flauti, mentre nacchere, tamburelli, cornette e tutti gli strumenti battevano il ritmo. Anche la volta celeste risuonava delle note di quell'immensa armonia. In più c'era il mormorio intenso della gente, un intrecciarsi continuo di voci e rumori diversi; tutti quanti i celesti si bloccarono in ammirazione, attratti da quel suono insolito e fenomenale. Allora il dio Stupore, il più scemo di tutti, volendo intrufolarsi nelle grazie di Giove, come aveva fatto Momo, con qualche battuta di spirito, siccome era piuttosto ritardato e grossolano gli si avvicinò e disse con una voce da selvaggio: «Oh, capo! Son tanti gli uomini che rumoreggiano qui sotto, che se li scuoiassi tutti senza dubbio ne avresti da coprire il cielo intero!». E Giove: «Ma pensa quant'è profondo questo qui! Che succede, Stupore? Che cosa ti salta in mente? Però la tua idea è bellina davvero: siccome senti sempre freddo, ti sei preoccupato che il cielo, stando scoperto, si buschi il raffreddore». Gli dèi scoppiarono a ridere; poi si andarono a piazzare in tutte le posizioni migliori dal punto di vista panoramico e acustico per godersi lo spettacolo terrestre. Ecco in processione la nobiltà e le varie categorie cittadine, seguite da schiere di signore di tutte le età, compiere il rito di purificazione della città: si mano alle fiaccole, e una solenne luminaria risplende nel buio della notte. Le ragazze più belle sfilano sotto i portici ornandoli con la loro presenza, e rendono onore agli dèi con canti corali, danzando in corteo. I celesti erano ammutoliti di fronte a tanto spettacolo, e ognuno di loro rimaneva nel posto che si era scelto ad osservare con la massima attenzione a bocca spalancata. Nel frattempo, rispettando una tradizione che risaliva ai tempi della disgrazia di Prometeo, numerose divinità, in particolare quelle marittime, si erano avvicinate a Momo per rendergli omaggio e portare un po' di conforto al suo dolore: fecero così per esempio le Naiadi, le Napèe, le Driadi, le Forcidi e altre ninfe. Momo sollevò gli occhi quasi consumati dal pianto e vide brillare in alto nel cielo le fiammelle che avevano in testa gli dèi; chiese che senso avevano tutte quelle luci spuntate così di colpo nel cielo, e, appreso il motivo, per la rabbia di non poter assistere anche lui a uno spettacolo simile lasciò partire dal più profondo del petto, fra tanti lamenti, un sospiro così lungo che il vapore emesso, condensandosi, formò una nebbia cupa e fitta che rimase stabilmente sospesa attraverso tutta l'atmosfera. Alla vista del fenomeno Momo ebbe subito l'idea di combinarne qualcuna delle sue, e si mise a supplicare con tanta insistenza le divinità presenti, finché ottenne dalle ninfe venute a fargli visita che, siccome non avevano altra possibilità di fare qualcosa per lui, gli rendessero almeno una grossa cortesia per alleviare il suo dolore: dilatare il più possibile quella nebbia andandola a fissare alle cime dei monti, in modo da impedire a quegli dèi tanto astiosi e cattivi con lui di godersi lo spettacolo delle sue sofferenze. Le ninfe accondiscesero alle suppliche del povero Momo, e sudarono sette camicie per realizzare il suo desiderio: la conseguenza fu che, siccome per via di quel nebbione di mezzo non si poteva più vedere gli uomini che si recavano ai santuari degli dèi, alle cappelle e agli altari, ma si riusciva solo a sentirli, i celesti si esposero a un grosso rischio. Infatti, non contenti di sentir cantare i loro elogi con l'accompagnamento del flauto, ma desiderosi soprattutto di vedere, quasi fuori di sé, decisero di scender giù dal cielo per soddisfare da vicino le proprie voglie. E così andarono a prender posto sui tetti delle case umane. Solo Ercole, probabilmente per paura delle insidie degli invidiosi e di chi avrebbe voluto imitarlo e anche della difficoltà del ritorno alle dimore celesti, affermò che non era confacente alla maestà divina, e nemmeno tanto sicuro, che gli dèi si andassero a mescolare con la folla dei mortali. Egli, infatti, aveva ridotto a totale impotenza i mostri più grandi e spaventosi della terra, ma non era mai riuscito neanche a fronteggiare l'urto di una folla concorde nell'andare all'assalto alla cieca: la massa era facile a scaldarsi, di principi tutt'altro che saldi, capricciosa, passionale; era facile indurla a qualunque misfatto senza che riflettesse se fosse giusto o meno quel che il consenso della maggioranza reclamava; si sollevava selvaggiamente e passava all'attacco sfrenata, senza che potessero trattenerla o controllarla abbastanza i consigli ragionevoli delle persone di buon senso o gli ordini di chi cercava soluzioni positive; la massa impazzita non era nemmeno capace di non volere tutto ciò che era suo completo arbitrio; non si preoccupava se le sue iniziative fossero criminali e vergognose oppure no, pur di portarle a termine, e non smetteva di compiere atrocità se non per iniziarne di peggiori. Ma la cosa veramente strana era che gli uomini, presi singolarmente, erano quasi tutti assennati e conoscevano ciò che era giusto, ma appena si mettevano assieme, eccoli subito pronti a far pazzie e ad uscire immediatamente dalla buona strada.




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