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Leon Battista Alberti
Momo o Del Principe

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  • LIBRO QUARTO.
      • -12-
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Cammina cammina, tra una chiacchiera e l'altra giunsero all'estremo lembo del mondo, il cosiddetto orizzonte, in quel luogo dove ci si trova davanti a due porte, una di fronte all'altra, separate da uno spazio molto ampio, che dall'inferno aprono la strada una verso l'oceano, l'altra verso la terraferma; una è ornata d'intarsi d'avorio, l'altra invece, di corno, si apre su un basso sottopassaggio. Caronte, che di acqua in vita sua ne aveva vista a sazietà, preferì prendere la via di terra, ma si stancò per la forte pendenza, non essendo abituato agli strapazzi di un viaggio, e buttava fiumi di sudore; si fermarono allora a riposare sul primo praticello che trovarono. Caronte ha una sensibilità sviluppatissima, la sua vista, l'udito eccetera superano ogni immaginazione. Quindi, appena il profumo dei fiori sparsi nel prato raggiunse le sue narici, si mise subito a raccoglierli e a guardarseli con tanta gioia e meraviglia che non voleva esser portato via di . Gelasto, infatti, gli ricordava che la strada ancora da fare era troppa per stare fermo a trastullarsi cogliendo fiori come i bambini: dovevano far cose ben più importanti, e poi gli uomini avevano tanti di quei fiori che ci camminavano sopra senza neanche accorgersene. Quello si decise a ubbidire alla sua guida, anche se non avrebbe potuto ricevere ordini più sgraditi. Per strada, poi, Caronte, vedendo che paesaggio piacevole e vario offriva la natura, i colli, le valli, le fonti, i corsi d'acqua, i laghi e così via, chiese a un certo punto a Gelasto da dove il mondo avesse attinto tutto quel lussureggiante splendore. E Gelasto, per dar prova della sua eloquenza filosofica, cominciò a sciorinargli la seguente dimostrazione dottrinale: «Per prima cosa è bene che tu sappia, Caronte, che in natura è impossibile l'esistenza, attuale o potenziale di qualcosa che sia privo di una causa. Col termine 'causa' intendiamo tutto ciò che provoca il moto o la quiete. Col concetto di 'quiete' indichiamo la cessazione del moto, mentre quello di 'moto' ci spiega come una cosa possa trasformarsi in un'altra. Bisognerebbe sapere anche che è stato l'intervento del moto a riversare le forme nella stabilità primigenia dell'universo, e a dare varietà alla disposizione al mutamento delle forme stesse; altri, invece, sono dell'idea che questo artificio della natura dipenda dalla congiunzione della sostanza con gli accidenti. Non vorrei però farla lunga a vuoto: è chiaro fin qui, Caronte?». Caronte rispose di non aver mai sentito esporre cose così semplici con paroloni così grandi, né idee più confuse in modo più ordinato. Allora Gelasto attaccò daccapo, ricominciando il discorso da un altro punto: colui che per primo si mise a fare qualcosa, prima si fissò bene in testa il risultato che avrebbe voluto ottenere, e chiamò «forma» appunto questa immagine che aveva concepito con precisione dentro di sé; subito dopo si procurò qualcos'altro, semplice o composto di più parti messe insieme, a cui applicare la forma quasi avvolgendogliela attorno, oppure per riempire per mezzo di esso la forma stessa, rendendola solida: questo qualcosa alla fine lo chiamò «materia». Ma non avrebbe potuto portare a termine l'opera senza ricorrere a un qualche sistema per mettere assieme facilmente, secondo il suo progetto, la materia e la forma: questo espediente lo definì «moto». A questo punto del discorso di Gelasto, Caronte lo interruppe: «Anch'io ho sentito dire che tutte le cose hanno avuto origine da una specie di reciproco, armonioso contrasto, e che si trasformano incessantemente per l'aggregazione e la disgregazione di particelle infinitesimali. Ma vuoi che ti dica quel che penso di te? Credevo che voi filosofi sapeste tutto, ma, a quanto vedo da te, non sapete niente, se non parlare in modo da non farvi capire nemmeno se discorrete delle cose più ovvie. Come vuoi che io ti creda così su due piedi se tu, che sostieni di sapere cosa avesse in testa il creatore originario delle cose, hai sicuramente dimenticato la strada di casa, come capita ai bambini? Infatti, se mi oriento bene, ci hai fatto fare un gran giro, e siamo tornati alle regioni del Tartaro! Ecco la nebbia oscura dello Stige; non senti venire il cupo brontolio e i lamenti dei colpevoli sottoposti ai supplizi?». Poi indicò un lupo e aggiunse: «Vedi laggiù quell'anima vagante?». Gelasto rispose ridendo: «Non ti devi stupire, Caronte, io questa strada non l'ho fatta più di una volta sola! Ma, perché tu ti raccapezzi, quello che ti è parso un urlo lamentoso è il suono di una tromba militare che viene di , spinto dal vento, da un accampamento di uomini; se non sbaglio, stanno suonando il primo cambio della guardia. Quanto alla nebbia, mi sto chiedendo anch'io da dove ne salti fuori tanta, e mi meraviglio anche di te, che dici di veder qui altre anime di defunti oltre la mia». E Caronte: «Ehi, ma quello è di sicuro quel re! Ehilà, re…!». Gelasto disse: «Un lupo tu me lo chiami re? Quadrupedi del genere, per quanto danno facciano agli uomini, sono animali mortali, lontani anni luce dalla natura umana e dalle anime dei defunti». Il lupo, nel frattempo, aveva strappato gli intestini a un cadavere a forza di morsi e se ne stava fermo a divorarseli. Disse allora Caronte: «Devo proprio darti ragione: all'inferno non si mangia. Io avevo creduto che quell'animale fosse il re con cui l'araldo Peniplusio diede vita a un'interessante discussione, una volta, sulla mia nave; te la racconto al ritorno, se vuoi». Disse Gelasto: «D'accordo; ma tu dove hai mai visto o sentito dire che i re siano lupi?». E Caronte: «Ma che bravo filosofo, conosci il corso degli astri e non sai niente delle cose umane! Caronte il barcaiolo ora t'insegna a conoscer te stesso! Ti dirò quel che ricordo del discorso non di un filosofo (tutte le vostre grandi teorie si riducono a sottigliezze e giochi di parole), ma di un pittore. Lui sì che, a forza di osservare attentamente le forme del corpo, ha visto da solo più di tutti voi filosofi messi insieme, con tutte le vostre misurazioni e ricerche sul cielo. Stai attento: sentirai una cosa davvero fuori del comune. Ecco cosa diceva quel pittore: il creatore di un'opera così grande aveva fatto un'accurata selezione per scegliere la materia con cui fare l'uomo; chi dice fosse fango impastato col miele, chi cera riscaldata col calore delle mani: qualunque cosa sia stato, dicono che vi applicò due sigilli di bronzo, impressi uno sul petto, sul viso e su tutto ciò che si vede da questa parte, l'altro sulla nuca, la schiena, le natiche e via seguitando. Formò parecchi esemplari umani e mise da parte quelli difettosi e mal riusciti, soprattutto quelli leggeri e vuoti, per farne le femmine; distinse le femmine dai maschi togliendo alle une un pezzettino da dare in più agli altri. Con dell'altro fango, inoltre, e con sigilli di vario tipo fece numerosi altri esemplari di esseri animati. A lavoro ultimato, vedendo che alcuni uomini non erano sempre e comunque contenti della forma che avevano, stabilì che chi lo preferiva poteva assumere l'aspetto di qualunque altro animale gli fosse andato a genio. Indicò poi il suo palazzo, bene in vista sulla cima di una montagna, e li esortò a salirvi per la strada ripida e diritta che si vedeva, per andarsi a prendere tutti i beni in grande abbondanza; dovevano però stare tante volte attenti a non prendere strade diverse da quella: sembrava impervia all'inizio, ma andando avanti diventava quasi pianeggiante. Fatto questo discorso se ne andò; gli omuncoli cominciarono la salita, ma ben presto alcuni, nella loro stoltezza preferirono aver l'aspetto di buoi, asini, quadrupedi in genere, mentre altri, traviati dalle passioni, erano andati a perdersi per vie traverse. Allora, trovandosi bloccati in valloni scoscesi e rimbombanti, in mezzo a fitte macchie, di fronte all'impraticabilità dei luoghi si tramutarono in vari esseri mostruosi e tornarono sulla via principale, dove però furono respinti dai loro simili a causa del loro aspetto orrendo. Perciò, scoperto del fango simile a quello di cui erano fatti, si fecero delle maschere somiglianti ai volti degli altri e le indossarono; questo espediente di mascherarsi ha preso piede in seguito, al punto che si fatica a distinguere le facce finte da quelle vere, se non ci si mette a guardare attentamente attraverso i buchi della maschera sovrapposta: solo così i diversi aspetti mostruosi sono visibili agli osservatori. Queste maschere, chiamate 'finzioni', resistono fino alle acque di Acheronte, non di più, poiché quando si arriva a quel fiume va a finire che il vapore acqueo le scioglie: è per questo che nessuno è passato sull'altra riva senza perdere la maschera, venendo quindi scoperto». Gelasto chiese: «O Caronte, stai scherzando o parli sul serio?». «Altroché! Se con le barbe e le ciglia delle maschere ho intrecciato questa gomena, e ho la barca piena zeppa di quel fango!».




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