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Cammina cammina, tra una
chiacchiera e l'altra giunsero all'estremo lembo del mondo, il cosiddetto
orizzonte, in quel luogo dove ci si trova davanti a due porte, una di fronte
all'altra, separate da uno spazio molto ampio, che dall'inferno aprono la
strada una verso l'oceano, l'altra verso la terraferma; una è ornata d'intarsi
d'avorio, l'altra invece, di corno, si apre su un basso sottopassaggio.
Caronte, che di acqua in vita sua ne aveva vista a sazietà, preferì prendere la
via di terra, ma si stancò per la forte pendenza, non essendo abituato agli
strapazzi di un viaggio, e buttava fiumi di sudore; si fermarono allora a
riposare sul primo praticello che trovarono. Caronte ha una sensibilità
sviluppatissima, la sua vista, l'udito eccetera superano ogni immaginazione.
Quindi, appena il profumo dei fiori sparsi nel prato raggiunse le sue narici,
si mise subito a raccoglierli e a guardarseli con tanta gioia e meraviglia che
non voleva esser portato via di là. Gelasto, infatti, gli ricordava che la
strada ancora da fare era troppa per stare fermo a trastullarsi cogliendo fiori
come i bambini: dovevano far cose ben più importanti, e poi gli uomini avevano
tanti di quei fiori che ci camminavano sopra senza neanche accorgersene. Quello
si decise a ubbidire alla sua guida, anche se non avrebbe potuto ricevere
ordini più sgraditi. Per strada, poi, Caronte, vedendo che paesaggio piacevole
e vario offriva la natura, i colli, le valli, le fonti, i corsi d'acqua, i
laghi e così via, chiese a un certo punto a Gelasto da dove il mondo avesse
attinto tutto quel lussureggiante splendore. E Gelasto, per dar prova della sua
eloquenza filosofica, cominciò a sciorinargli la seguente dimostrazione
dottrinale: «Per prima cosa è bene che tu sappia, Caronte, che in natura è
impossibile l'esistenza, attuale o potenziale di qualcosa che sia privo di una
causa. Col termine 'causa' intendiamo tutto ciò che provoca il moto o la
quiete. Col concetto di 'quiete' indichiamo la cessazione del moto, mentre
quello di 'moto' ci spiega come una cosa possa trasformarsi in un'altra.
Bisognerebbe sapere anche che è stato l'intervento del moto a riversare le
forme nella stabilità primigenia dell'universo, e a dare varietà alla
disposizione al mutamento delle forme stesse; altri, invece, sono dell'idea che
questo artificio della natura dipenda dalla congiunzione della sostanza con gli
accidenti. Non vorrei però farla lunga a vuoto: è chiaro fin qui, Caronte?».
Caronte rispose di non aver mai sentito esporre cose così semplici con paroloni
così grandi, né idee più confuse in modo più ordinato. Allora Gelasto attaccò
daccapo, ricominciando il discorso da un altro punto: colui che per primo si
mise a fare qualcosa, prima si fissò bene in testa il risultato che avrebbe
voluto ottenere, e chiamò «forma» appunto questa immagine che aveva concepito
con precisione dentro di sé; subito dopo si procurò qualcos'altro, semplice o composto
di più parti messe insieme, a cui applicare la forma quasi avvolgendogliela
attorno, oppure per riempire per mezzo di esso la forma stessa, rendendola
solida: questo qualcosa alla fine lo chiamò «materia». Ma non avrebbe potuto
portare a termine l'opera senza ricorrere a un qualche sistema per mettere
assieme facilmente, secondo il suo progetto, la materia e la forma: questo
espediente lo definì «moto». A questo punto del discorso di Gelasto, Caronte lo
interruppe: «Anch'io ho sentito dire che tutte le cose hanno avuto origine da
una specie di reciproco, armonioso contrasto, e che si trasformano
incessantemente per l'aggregazione e la disgregazione di particelle
infinitesimali. Ma vuoi che ti dica quel che penso di te? Credevo che voi
filosofi sapeste tutto, ma, a quanto vedo da te, non sapete niente, se non
parlare in modo da non farvi capire nemmeno se discorrete delle cose più ovvie.
Come vuoi che io ti creda così su due piedi se tu, che sostieni di sapere cosa
avesse in testa il creatore originario delle cose, hai sicuramente dimenticato
la strada di casa, come capita ai bambini? Infatti, se mi oriento bene, ci hai
fatto fare un gran giro, e siamo tornati alle regioni del Tartaro! Ecco lì la
nebbia oscura dello Stige; non senti venire il cupo brontolio e i lamenti dei
colpevoli sottoposti ai supplizi?». Poi indicò un lupo e aggiunse: «Vedi laggiù
quell'anima vagante?». Gelasto rispose ridendo: «Non ti devi stupire, Caronte,
io questa strada non l'ho fatta più di una volta sola! Ma, perché tu ti raccapezzi,
quello che ti è parso un urlo lamentoso è il suono di una tromba militare che
viene di là, spinto dal vento, da un accampamento di uomini; se non sbaglio,
stanno suonando il primo cambio della guardia. Quanto alla nebbia, mi sto
chiedendo anch'io da dove ne salti fuori tanta, e mi meraviglio anche di te,
che dici di veder qui altre anime di defunti oltre la mia». E Caronte: «Ehi, ma
quello è di sicuro quel re! Ehilà, re…!». Gelasto disse: «Un lupo tu me lo
chiami re? Quadrupedi del genere, per quanto danno facciano agli uomini, sono
animali mortali, lontani anni luce dalla natura umana e dalle anime dei
defunti». Il lupo, nel frattempo, aveva strappato gli intestini a un cadavere a
forza di morsi e se ne stava fermo lì a divorarseli. Disse allora Caronte:
«Devo proprio darti ragione: all'inferno non si mangia. Io avevo creduto che
quell'animale fosse il re con cui l'araldo Peniplusio diede vita a
un'interessante discussione, una volta, sulla mia nave; te la racconto al
ritorno, se vuoi». Disse Gelasto: «D'accordo; ma tu dove hai mai visto o
sentito dire che i re siano lupi?». E Caronte: «Ma che bravo filosofo, conosci
il corso degli astri e non sai niente delle cose umane! Caronte il barcaiolo
ora t'insegna a conoscer te stesso! Ti dirò quel che ricordo del discorso non
di un filosofo (tutte le vostre grandi teorie si riducono a sottigliezze e
giochi di parole), ma di un pittore. Lui sì che, a forza di osservare
attentamente le forme del corpo, ha visto da solo più di tutti voi filosofi
messi insieme, con tutte le vostre misurazioni e ricerche sul cielo. Stai
attento: sentirai una cosa davvero fuori del comune. Ecco cosa diceva quel
pittore: il creatore di un'opera così grande aveva fatto un'accurata selezione
per scegliere la materia con cui fare l'uomo; chi dice fosse fango impastato
col miele, chi cera riscaldata col calore delle mani: qualunque cosa sia stato,
dicono che vi applicò due sigilli di bronzo, impressi uno sul petto, sul viso e
su tutto ciò che si vede da questa parte, l'altro sulla nuca, la schiena, le
natiche e via seguitando. Formò parecchi esemplari umani e mise da parte quelli
difettosi e mal riusciti, soprattutto quelli leggeri e vuoti, per farne le
femmine; distinse le femmine dai maschi togliendo alle une un pezzettino da
dare in più agli altri. Con dell'altro fango, inoltre, e con sigilli di vario
tipo fece numerosi altri esemplari di esseri animati. A lavoro ultimato,
vedendo che alcuni uomini non erano sempre e comunque contenti della forma che
avevano, stabilì che chi lo preferiva poteva assumere l'aspetto di qualunque
altro animale gli fosse andato a genio. Indicò poi il suo palazzo, bene in
vista sulla cima di una montagna, e li esortò a salirvi per la strada ripida e
diritta che si vedeva, per andarsi a prendere tutti i beni in grande
abbondanza; dovevano però stare tante volte attenti a non prendere strade
diverse da quella: sembrava impervia all'inizio, ma andando avanti diventava
quasi pianeggiante. Fatto questo discorso se ne andò; gli omuncoli cominciarono
la salita, ma ben presto alcuni, nella loro stoltezza preferirono aver
l'aspetto di buoi, asini, quadrupedi in genere, mentre altri, traviati dalle
passioni, erano andati a perdersi per vie traverse. Allora, trovandosi bloccati
in valloni scoscesi e rimbombanti, in mezzo a fitte macchie, di fronte
all'impraticabilità dei luoghi si tramutarono in vari esseri mostruosi e
tornarono sulla via principale, dove però furono respinti dai loro simili a
causa del loro aspetto orrendo. Perciò, scoperto del fango simile a quello di
cui erano fatti, si fecero delle maschere somiglianti ai volti degli altri e le
indossarono; questo espediente di mascherarsi ha preso piede in seguito, al
punto che si fatica a distinguere le facce finte da quelle vere, se non ci si
mette a guardare attentamente attraverso i buchi della maschera sovrapposta:
solo così i diversi aspetti mostruosi sono visibili agli osservatori. Queste
maschere, chiamate 'finzioni', resistono fino alle acque di Acheronte, non di
più, poiché quando si arriva a quel fiume va a finire che il vapore acqueo le
scioglie: è per questo che nessuno è passato sull'altra riva senza perdere la
maschera, venendo quindi scoperto». Gelasto chiese: «O Caronte, stai scherzando
o parli sul serio?». «Altroché! Se con le barbe e le ciglia delle maschere ho
intrecciato questa gomena, e ho la barca piena zeppa di quel fango!».
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