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Questi i discorsi di Caronte e
Gelasto. A un certo punto mentre si dirigevano al largo raccontandosi la storia
dei pirati e del re narrata poc'anzi, Caronte si decise a esporre
l'interessantissima discussione tra quel Peniplusio e il re, che aveva promesso
di narrare al ritorno quando aveva visto il lupo Però un nuovo pericolo si mise
di mezzo, impedendo la narrazione. Il mare, infatti, cominciò a gonfiarsi in
gorghi turbinosi e ad ingrossarsi furiosamente, abbattendosi contro gli scogli;
i naviganti avevano perso ogni speranza di salvezza, a meno che non fossero
riusciti ad approdare alla scogliera più vicina, selvaggia e frastagliata.
Riparano proprio là, dunque, e vi trovano, legato ben stretto, Momo, più
curioso di conoscere la causa di una tempesta così violenta che addolorato per
i suoi guai. La tempesta l'avevano provocata i venti in lite tra loro: stavano
infatti discutendo violentemente, rinfacciandosi l'un l'altro la colpa del
tremendo misfatto che avevano combinato nel teatro; si erano accalorati tanto,
avevano provocato un tale trambusto che finirono per mescolare mare e cielo.
Era successo che, al momento della fuga di Caronte dal teatro, la risata degli
dèi aveva fatto rimbombare tutta quanta la terra, ed Eolo, richiamato dalla
risata, volò via dalla sua grotta per vedere cosa stava accadendo. I venti
chiusi nella grotta, stando con l'animo in tensione, le orecchie attente,
ebbero l'impressione di sentire la voce della dea Fama che svolazzava in lungo
e in largo facendo stridere l'ali, raccontando cos'era successo agli dèi e a
Caronte. A quel punto, fu tale il desiderio di vedere gli dèi e gli spettacoli
che s'impadronì dei venti, che questi, sbarazzandosi con la forza di catenacci,
serramenti e ostacoli di ogni sorta, irruppero tutti in una volta in teatro con
violenza selvaggia, talmente privi di controllo da rompere i legami e far
rovinare, assieme a parte del muro, il telone steso sopra il teatro, e con esso
anche le statue che alcuni celesti avevano depositato sul cornicione. La caduta
del telone e delle statue non mancò di provocare un grosso danno agli dèi:
alcuni furono sbattuti a terra, altri travolti, non ce ne fu uno che non
riportasse qualche contusione. Per non parlare degli altri, Giove stesso rimase
impastoiato nei legami del telone, cosicché finì col cadere a testa sotto e
piedi all'aria, picchiando col naso. La statua di Cupido, piombando dall'alto,
stava per schiacciare la dea Speranza, e comunque riuscì a staccarle
completamente un'ala dalla spalla; la statua di Speranza a sua volta, quando si
piegò il tendone si mise a traballare e colpì nel petto Cupido. Gli dèi,
sbigottiti, non sapevano a che santo votarsi. Ma Giove superò se stesso,
facendo l'unica cosa degna di un principe molto saggio, e rifletté su quel che
dovessero fare i celesti di fronte all'emergenza. Gli venne il timore che gli
uomini potessero pensare che tutto quell'apparato festivo non era stato gradito
dagli dèi e quindi avrebbero tralasciato, in futuro, di darsi da fare per
acquistare meriti di fronte agli dèi, nel caso che avessero trovato il teatro
senza più statue. D'altra parte, aveva intenzione di sottrarre i suoi a quella
baraonda tutt'altro che gradevole: pertanto dà gli ordini che gli sembrano
necessari: ciascun dio doveva rimettere a posto la sua statua in teatro e poi
andar via subito, per evitare che il fatto venisse risaputo ed essi fossero
derisi dai mortali: era meglio per gli dèi sopportare qualsiasi inconveniente,
piuttosto che rimetterci il prestigio e la reputazione. Tutti obbedirono a
Giove, eccetto il dio Stupore, che era diventato pallido e duro come una
pietra; però, quando si fece l'appello in cielo, non risultarono assenti solo
Stupore e Speranza, che era rimasta, mutilata, sulla terra, ma anche Plutone e
la dea Notte.
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