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Cose del genere capitarono in
teatro! E alla fine i venti, resisi conto d'aver causato tanti disastri, si
guardarono in faccia tra loro e ammutolirono, il rimorso e la fifa li
scombussolarono, poi presero a scambiarsi reciproche accuse di sventatezza
incontrollata; non la finivano più, insomma, d'insultarsi con ira facendo un
gran casino. Alla fine, nell'ardore della lite andarono a scegliersi per campo
di battaglia il mare, e da questo aveva avuto origine quell'improvvisa tempesta
di cui s'è detto. Spinti, dunque, da questa tempesta, Caronte e Gelasto
approdarono a quello scoglio dove si trovava Momo strettamente legato, e lì
ripresero conforto considerando i guai di Momo: credevano di trovarsi al
culmine della disgrazia, dopo tanti rischi e fatiche, ma quando videro il viso
di Momo che ce la faceva appena a respirare sotto la furia dell'oceano e tutto
intriso di lacrime, la commiserazione per i guai altrui mitigò il loro dolore.
E così gli chiesero chi era e perché mai si trovava lì a subire quell'atroce
supplizio, promettendogli che, se potevano far qualcosa per lui, si sarebbero
prestati senz'altro. Momo però rispose: «Poveri noi, che altro può fare un
naufrago per un condannato, se non mettersi a piangere i suoi guai assieme a
lui?». Ciò detto, scoppiò in un pianto dirotto, poi li pregò di tirarlo un po'
su dall'acqua, visto che era proprio fatto a pezzi per l'uragano. Quando
l'ebbero risollevato, subito Momo e Gelasto si riconobbero: infatti quando si
trovava in mezzo agli uomini Momo aveva affrontato numerose discussioni con
Gelasto su argomenti della massima profondità. Cominciarono perciò a
rammentarsi a vicenda circostanze e discorsi, e a un certo punto Momo disse:
«Quando facevo il filosofo in mezzo a voi, esule dal cielo per iniziativa della
dea Frode, procedevo alla cieca, però nel cercar di risollevare la mia dignità
di fronte alla gravissima ingiustizia subita sono stato sempre coerente nel
voler apparire il più umile tra i mortali piuttosto che un dio tra i filosofi.
Certo, ho fatto qualche concessione al mio immenso dolore e alla mia acredine
più che giustificata; ben altre però ne ho fatte alla reputazione degli dèi, se
è vero che ho potuto sopportare dagli omiciattoli, pur di non danneggiare la
schiera celeste manifestando la mia vera identità, cose che nemmeno i miei
avversari si sono sentiti di lasciarmi subire più a lungo. A far nascere la
compassione per i miei guai, oppure a placare l'animosità di chi mi odiava, ha
dato certo un grosso contributo quella mia incredibile capacità di sopportare
le disgrazie. Sono stato perciò riammesso in cielo e, per darti un esempio del
senso di giustizia di sua eccellenza Giove e degli dèi, i quali per non aver
dato alcun altro fastidio che buone azioni e giusti consigli m'avevano mandato
in esilio, mentre perché ho violentato una donna, dea e vergine per giunta,
dentro al tempio, si son messi a ridere tutti quanti. Quello che era risalito
tra i celesti era il vecchio Momo di sempre, però animato da nuovi propositi: e
così io che ero avvezzo a collegare sempre le mie idee alla verità, i miei
desideri al dovere, i discorsi e il viso ai principi di giustizia che sentivo
nel cuore, dopo il mio ritorno ho imparato ad adattare le idee al pregiudizio
fanatico, i desideri alla passione sfrenata, il viso, le parole e anche il
cuore alla macchinazione d'insidie. Aggiungo una cosa sola: fin tanto che mi
sono applicato a siffatte arti perverse in mezzo a quella conventicola di beati
son rimasto caro al principe, approvato da tutti quanti, prestigioso di fronte
a chiunque, oserei dire molto gradito perfino agli avversari. Quel che m'ha
fatto piombare in disgrazia è aver pensato, dopo aver ricevuto tante
manifestazioni d'onore, che fosse mio interesse lasciar perdere ormai i malvagi
artifici e riassumere l'antica indipendenza, buttando da parte il lecchinaggio
untuoso e servile. Sono perfettamente consapevole di quello che ho fatto, di
come ho cercato di fare il bene degli dèi. Per non parlare di tutto il resto,
ho avuto tanta sollecitudine per gli dèi da mettere insieme a prezzo di molte
notti bianche per Giove, quando faceva progetti di rinnovamento totale, tutti
quei vecchi ragionamenti sui compiti degli dèi e dei governanti su cui ero
solito intrattenermi con te, Gelasto mio, e glieli ho consegnati, sintetizzati in
un opuscolo, ma la mia disgrazia dimostra quanto valore lui gli abbia dato. Per
quanto si può osservare, quella serie di consigli onesti ed utili non è
piaciuta a Giove, gli è piaciuto invece relegarmi in questa condizione
infelice. Voi adesso cos'è che riterrete degno di critiche più severe, la
leggerezza con cui si trascurano gli affari di Stato o l'ingiustizia con cui ci
se ne occupa? Consideri lui stesso quanto sia utile allo Stato questo modo di
operare del principe. Nessuna persona onesta potrà dire che sia giusto, e non
sappiamo ancora quanto andrà a finir bene per quelli che gioiscono della mia
disgrazia, e nemmeno lui, che ricambia col male chi gli dà consigli retti
mentre colma di beni chi trama azioni malvage, può avere abbastanza chiaro quanto
durerà la sua fortuna procedendo per questa via. Ma pensino altri a queste
cose, quelli che hanno ancora la possibilità di sperare: io devo pensare
esclusivamente ad affrontare la mia triste condizione». Quando Momo finì il suo
discorso, Gelasto gli rispose: «Ho tanta comprensione per te, mio caro Momo! Ma
perché dovrei mettermi a raccontare le mie sventure? Tanto per consolare il tuo
dolore, io, esule dalla patria, ho consumato gli anni più belli della vita in
continue peregrinazioni, in mezzo a disgrazie senza fine; sempre in lotta col
bisogno, eternamente tartassato dai torti non solo dei nemici, ma anche dei
miei cari, ho dovuto affrontare il tradimento degli amici, la rapina dei
parenti, le calunnie dei concorrenti e la spietatezza degli avversari; cercando
di scampare agli assalti di un'avversa fortuna, sono andato a piombare nella
completa rovina che mi si preparava. Scombussolato dai repentini cambiamenti di
situazione, sepolto dalle sventure, schiacciato dal peso dell'ineluttabile, ho
sopportato ogni cosa senza mai lasciarmi andare, sperando che gli dèi piissimi
e il fato mi riservassero una sorte migliore di quella che m'è toccata. Eppure,
come sarei stato felice se solo un esito migliore fosse stato la ricompensa per
la mia applicazione allo studio di quelle discipline elevate alle quali mi son
sempre dedicato! Ma spetta agli altri giudicare i miei risultati letterari.
Questo di me posso affermare, di essermi dato da fare con tutta la mia
capacità, la mia passione, la mia buona volontà per non dover mai rimpiangere i
progressi che facevo di giorno in giorno. I risultati hanno deluso ogni
aspettativa: da chi mi doveva sentimenti amichevoli m'è piovuto addosso
malanimo, da chi c'era da aspettarsi un aiuto materiale oltraggi, là dove le
persone buone prospettavano un esito buono i malvagi hanno risposto col male.
Dirai: non t'è successo nulla di diverso da quel che suole accadere agli
uomini, ed è bene che ti ricordi d'esser uomo. E allora, Momo, che dirai
sentendo quello che è capitato a Caronte, a questo dio? Mentre, seguendo una
sua decisione senza dubbio giusta e saggia, s'è messo d'impegno per non restare
all'oscuro delle faccende umane, messo in fuga a sassate s'è nascosto in uno
stagno, e alla fine, dopo aver corso i rischi peggiori sulla terra e in mare,
per caso è arrivato a fatica qui da te; come andar via, che direzione prendere,
dove trovare un punto fermo, non ha niente di certo, tanto che credo di dovermi
felicitare con me stesso, anche in tutti questi guai, sia per aver compagni
divini nel miei guai, sia perché vedo dèi, nati per un destino migliore,
trovarsi in una sorte più infelice o quasi di quella in cui mi son trovato io.
E anche per voi, Momo e Caronte, dovrebbe esser motivo di sollievo reciproco
vedere che nessuno di voi due è al riparo delle disgrazie».
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