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Leon Battista Alberti
Momo o Del Principe

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  • LIBRO QUARTO.
      • -21-
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-21-

 

Al termine di quei discorsi commoventi sopraggiunse il dio Nettuno il quale, venuto a sapere dell'azione impudente dei venti, aveva dato ordine alle nuvole di tenerti fermi facendo pressione dall'alto fino a che lui non avesse fatto un rapido giro per rimproverare come si deve quei forsennati. E così, un po' coi rimproveri, un po' a colpi di tridente era riuscito a bloccare la loro furia scatenata riportando la calma in tutto il mare, dopo di che si era recato a far visita a Momo. Trovati Caronte e Gelasto, volle sapere come ci fossero arrivati; appresa la storia delle loro traversie, deplorò pesantemente la follia dei venti che con una sola azione sconsiderata avevano dato adito a tanti malanni: avevano mandato a monte gli spettacoli, sconvolto i mari, messo nei guai gli dèi. Poi, di fronte alle domande di Momo e Caronte, espose per filo e per segno quello che era capitato a Stupore, Giove, Plutone nonché a tutti gli altri dèi. Infine Nettuno disse: «Avete altre richieste da farmi? Ora che ho rimesso a posto l'oceano, dovrei tornare da Giove e dai celesti». Gelasto allora: «Se non ti spiace, Nettuno, vorrei tanto che tu convincessi Giove ottimo massimo, nell'interesse suo e degli uomini, a servirsi dell'opuscolo di Momo nella gestione degli affari di Stato: ci troverà un gran numero di spunti per tirarsi su e rinforzare nel migliore dei modi la sua posizione». Nettuno si disse scettico sulla possibilità che Giove si lasciasse prescrivere la linea da seguire da chicchessia: di un principe pieno di sé si può ammettere qualunque cosa, ma non che si lasci guidare, e non è tipo da accettar consigli quando vuol fare una cosa o da lasciarsi influenzare se non la vuol fare; in entrambi i casi aveva sempre fatto di testa sua, preferendo mettere in risalto le proprie capacità piuttosto che dare importanza a quelle altrui. Ciò detto, andò via. Anche Caronte se ne andò, e durante la navigazione disse: «O Gelasto, come dovrei definire una cosa come questa in un principe, in particolare Giove che ha fama di grande saggezza? Lasciamo perdere che sia un po' troppo dipendente dal piacere, che abusi del potere a danno di persone senza colpe, che preferisca il potere al mostrarsi degno del potere e che voglia mostrarsene degno più che esserlo davvero: son tutte cose che si possono anche tollerare. La cosa grave è senza dubbio un'altra, cioè che il principe abbia la caratteristica ineliminabile di non vedere di buon occhio chi buoni consigli e di non lasciarsi influenzare dai buoni consigli». Gelasto rispose: «Come vuoi che vadano le cose se quello, circondato da una folla di adulatori, si dimentica ogni giorno di più di poter sbagliare, e regola in base all'arbitrio le sue passioni, in base alle passioni l'esercizio delle sue funzioni, al punto che io non ho ancora ben chiaro se sia meglio essere un principe di tal sorta o un servo». Riprese Caronte: «Mi fai tornare in mente il racconto su Peniplusio che avevo iniziato prima della tempesta: una storia certo interessante, per quanto non riesca a trattenere il riso al pensiero di uno che affermava che una persona d'infima condizione come lui è da preferire al più grande dei re». Allora Gelasto: «Anch'io adesso mi chiedo com'è possibile nell'animo di ciascuno di noi che quando sopraggiunge la paura perdiamo tutto il gusto del piacere, e poi, passato il pericolo, il gusto del piacere ritorna subito. Tu, nel veder la tempesta, perché ti sei spaventato al punto non solo di lasciar perdere il racconto iniziato, ma anche di smarrire quasi la coscienza di te?». Rispose Caronte: «E come potevo comportarmi vedendomi gonfiare intorno e piombare addosso simili montagne d'acqua?». E Gelasto: «E va bene, montagne! E allora tu che mi rimproveravi perché avevo paura dei pirati e non ti davi pensiero di un mare ostile, di cosa ti sei spaventato? Proprio del mare, se non solo hai visto l'Acheronte, ma ci sei invecchiato? O di che altro? Un vecchio lupo di mare come te, Caronte, ha avuto paura del pericolo, pur essendo immortale?». Caronte rispose: «Lupo di mare e immortale quanto ti pare, una cosa era sicura, se facevamo la prova: o ingollarci tutta quell'acqua o finire annegati». E Gelasto: «Come vuoi tu, Caronte; ma continua, racconta quella discussione. Mi par proprio che sarà interessante». Caronte allora: «Sentirai una storia di enorme interesse, e mi fa piacere raccontarla ora che abbiamo imboccato questo fiume, se la rotta non m'inganna. Riconosco il solito odore dell'acqua e, se non mi sbaglio, quella è la caverna bassa dove dobbiamo passare noi. Qualche volta, nei momenti liberi, ho fatto un giretto da queste parti. E allora, visto che c'è da posare il remo possiamo lasciarci trasportare dalla corrente favorevole, mettiamoci comodi e concediamoci il piacere di questo racconto. Il re Megalofo e l'araldo Peniplusio, saliti assieme sulla mia barca, cominciarono subito a disputarsi il posto con battute simpaticissime; il primo affermava d'essere un principe, degno di qualsiasi onore, raccontando molte sue imprese valorose, mentre Peniplusio ribatteva così: 'Caronte, ti chiamo a giudice: vedi tu che differenze e che punti di contatto ci siano tra noi. Io sono stato uomo, e anche costui uomo - infatti tu non sei nato dal cielo, Megalofo, né io da un pezzo di legno. Lui è stato al pubblico servizio, e io pure. Di' che non è così, oppure dimmi che altro è il potere, Megalofo. Non è forse un impegno pubblico, in cui anche chi non ne ha voglia deve eseguire le prescrizioni di legge? Quindi siamo stati pari, tutt'e due eravamo soggetti alle leggi, e se le abbiamo rispettate abbiamo fatto il nostro dovere, tu come me: così siamo stati servi tutt'e due, alla pari. Siamo pari anche in altre cose, e se non lo siamo sono superiore io proprio in quelle in cui tu ritieni di sopravanzarmi. Tu credi d'aver avuto una posizione più fortunata: vediamo se è proprio così. Non parlo dei piaceri della vita e della realizzazione dei desideri e dei progetti, tutte cose per me molto più agevoli, vantaggiose e rapide che per te. Tralasciamo poi il fatto che tu eri odiato da molti, avevi paura di molti, mentre a me volevano tutti bene, non c'era uno di cui non potessi fidarmi. Tu per poter sopportare te stesso, per soddisfare pienamente le tue voglie avevi bisogno di molte cose, dovevi stare in guardia da tanti lati, avevi un sacco di perplessità, tutto era pieno di rischi; per me non c'era nessuno di questi ostacoli, anzi nel fare i fatti miei avevo a disposizione tanti mezzi da non poterli nemmeno usare tutti. A te mancava sempre qualcosa di cui avevi bisogno. Comunque, come ho detto, sorvoliamo su questo. Se hai accumulato ricchezze per te grazie al potere, hai fatto un pessimo esercizio delle tue funzioni, ti sei comportato non da governante ma da oppressore; se le hai procurate allo Stato ti sei comportato come si deve, però nemmeno quello è motivo di gloria per te, è titolo di merito non tuo, ma della totalità dei cittadini che le hanno prodotte conquistandole in guerra o facendo fruttare i loro beni. Dirai: con la mia efficienza ho dato lustro alla città e allo Stato, ho conservato pace e ordine con le mie leggi, col mio comando supremo ho procurato prestigio e prosperità ai miei cittadini. Però noi in tutto ciò che abbiamo fatto da soli abbiamo agito senza risultati, e quel che abbiamo fatto con l'attiva partecipazione di molti non vedo perché dovremmo attribuirlo a nostro merito. Ma proviamo a esaminare il contributo che hai dato tu e quello che ho dato io nelle cose che seguono: tu l'intera notte dormivi carico di vino oppure te la spassavi nella lussuria; io vegliavo al mio posto di guardia, proteggendo la città dagli incendi, i cittadini dal nemico e te stesso dalle insidie dei tuoi uomini. Tu proponevi le leggi, io le rendevo di pubblico dominio; quando tenevi un discorso, spesso il popolo ha schiamazzato per protesta, invece quando io divulgavo un ordine tutti stavano ad ascoltarmi con la massima attenzione. In guerra tu incitavi i soldati, ma il segnale lo davo io; i soldati obbedivano ai tuoi ordini, ma era al suono della mia tromba che muovevano all'assalto del nemico o battevano in ritirata. Per finire, a te davano ragione tutti quanti, a me non c'era uno che non obbedisse. Ma di cosa stiamo a discutere? Tu avresti dato tranquillità ai cittadini, se è a causa tua che in città ci sono stati così spesso polemiche e scontri armati, se le tue macchinazioni hanno riempito d'invidie, rivalità e ogni sorta di porcherie tutti gli affari pubblici e privati, il sacro e il profano? Perché vorresti elencare tutte le altre dissennate ostentazioni nella tua pratica di governo? Cos'hai da vantarti d'aver fatto costruire templi e teatri, non per rendere più bella la città, ma per avidità di gloria e per una vana rinomanza tra i posteri? E che valore potremo dare a queste tue leggi così ben scritte, che i disonesti non rispettano mentre gli onesti non ne avrebbero avuto bisogno? Però avrei potuto - dirai - perseguitare duramente i miei oppositori: chi ha più capacità e più mezzi di me in questo tipo di azioni malefiche? Tu certamente avresti potuto colpire questo o quel cittadino, ma non senza rischi, non senza tumulti e col concorso di molte persone; io, se avessi voluto, avrei potuto mandare in sfacelo l'intera città tacendo e dormendo. Ci sono altre due cose in cui ero molto avanti a te. Chi ti stava vicino ti definiva padrone assoluto di tutti i beni e di tutte le fortune; in questo io non avevo solo il potere di mandarli tutti in sfacelo, come ho già detto, ma anche quello che i beni e le fortune di tutti venivano amministrati esattamente come volevo io. Infatti in nessun tipo di affari, in nessun luogo pubblico o privato succedeva nulla senza che io lo volessi; per te c'era nulla dei tuoi beni e delle tue fortune che procedesse secondo le tue scelte? Avevi sempre desideri al di sopra delle possibilità; io di ogni cosa non volevo nulla di più dell'esistente, volevo che tutto fosse esattamente com'era e niente di più. Infine, se tu avessi perduto i tuoi beni ti saresti impiccato, io sarei scoppiato a ridere»'.




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