LIBRO PRIMO.
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Mi meravigliavo ogni volta che mi
capitava di notare, nel trascorrer la vita in mezzo a noi umili mortali, una
qualche discordanza d'opinioni o incostanza nei giudizi: ma da quando ho preso
ad osservare più accuratamente gli stessi dèi massimi, a cui è attribuita ogni
lode di saggezza, ho smesso di stupire per le inezie umane. Ho infatti scoperto
tra di loro una diversità di tendenze e di caratteri che ha quasi
dell'incredibile. Alcuni si danno un contegno grave e severo, alcuni invece
sono sempre pronti al riso, alcuni ancora, a loro volta, sono così differenti
da tutti gli altri che a mala pena li si potrebbe credere del numero dei
celesti. Per quanto tuttavia essi siano fatti a questo modo, con caratteri così
discordanti, né tra gli uomini né tra gli dèi se ne può trovare nessuno di
natura così singolare e stravagante che non se ne possa riscontrare un altro
simile per molti aspetti, fatta eccezione per uno degli dèi, di nome Momo. Si
parla di costui come di un tipo dotato di forte spirito di contraddizione,
straordinariamente testardo, un gran criticone, rompiscatole, molesto quanto
mai: ha imparato ad infastidire e irritare perfino i suoi familiari con le
parole e coi fatti, ed è abituato a mettercela tutta perché nessuno che abbia a
che fare con lui possa restare senza il volto accigliato e l'animo gonfio
d'indignazione. Insomma, Momo è l'unico tra tutti gli dèi che ci prova gusto
non solo ad avercela con gli altri uno per uno, ma anche ad essere detestato da
tutti in modo incredibile. La tradizione vuole che per la sfrenata insolenza
del suo linguaggio sia stato scacciato ed escluso, su richiesta e col consenso
di tutti, dall'antico consesso degli dèi del cielo: ma era così potente,
nell'inaudita malvagità del suo carattere e con i suoi sinistri artifici, che
riuscì a spingere proprio sull'ultima spiaggia tutti gli dèi e tutto il cielo e
perfino l'intera macchina dell'universo. Ho deciso di mettere per iscritto
questa storia, perché possa servire ad una vita guidata dalla ragione; ma
perché ciò si realizzi più agevolmente, si dovranno prima esaminare cause e
modalità della cacciata in esilio di Momo; poi andremo avanti con il resto del
racconto, pieno d'imprevisti e ricchissimo per la serietà degli argomenti
importanti non meno che per la comicità delle situazioni spassose. Quando Giove
ottimo massimo ebbe messo su questa sua opera meravigliosa, il mondo,
desiderando che fosse abbellito al meglio in ogni sua componente, ordinò agli
dèi che ciascuno secondo le sue possibilità aggiungesse a quella creazione
qualcosa di elegante e di degno. I celesti obbedirono a gara all'ordine di
Giove: e così tutti fecero cose diverse ‑ chi l'uomo, chi il bue, chi la
casa - tutti ad uno ad uno, eccetto Momo, tirarono fuori qualcosa, dono gradito
per Giove. Solo Momo, testardo e arrogante per natura, si vantava che da lui
non si sarebbe cavato nulla, ed in mezzo alla comune frenesia degli altri per
produrre qualcosa perseverava col massimo piacere nella sua ostinazione.
Finalmente, dopo che moltissimi avevano tanto insistito perché avesse più
rispetto e considerazione per il favore e l'autorità di Giove, non certo
commosso dai loro ripetuti consigli, ma perché non riusciva più a sopportare la
nausea per tutti quegli inviti, esortazioni e preghiere, accigliato come sempre
esclamò: «Avete vinto, scocciatori! Vi darò soddisfazione piena!». E allora ne
escogitò una degna di lui. Riempì il mondo di cimici, tignole, vesponi,
calabroni, scarafaggi e animalacci schifosi del genere, simili a lui. In un
primo momento, la cosa fu presa dagli dèi dal lato ridicolo, la si accettò come
una trovata scherzosa; ma lui non poteva sopportare che non se ne sentissero
indignati, e allora cominciò a vantarsi della sua bella impresa e a criticare
con pignoleria i doni altrui, denigrandone gli autori: finì con l'attirarsi
ogni giorno di più l'odio di tutti con le sue insolenze. Tra gli altri celebri
artefici celesti godevano di particolare ammirazione per i doni che avevano
escogitato Pallade per il bue, Minerva per la casa, Prometeo per l'uomo;
vicinissima in graduatoria stava la dea Frode, che sembrava aver avuto una
bellissima pensata concedendo agli esseri umani le attrattive femminili, l'arte
della finzione, il riso e le lacrime. Mentre, quindi, tutti gli altri dèi
portavano in palmo di mano costoro, solo Momo li criticava aspramente: diceva
che, certo, il bue era un animale utile, abbastanza adatto ai lavori pesanti,
però non aveva gli occhi messi al posto giusto sulla fronte: così, quando
andava all'assalto con le corna in avanti, avendo gli occhi fissi a terra non
era in grado di colpire il nemico nel punto che voleva: era stata proprio
un'incapace la sua creatrice a non mettergli anche un solo occhio in alto,
dalle parti delle corna! La casa, analogamente, diceva che non meritava per niente
l'approvazione di cui la circondavano quegli incompetenti degli dèi, poiché di
sotto non le era stato applicato un carro con cui poterla trasportare da un
quartiere malfamato a una zona più tranquilla. Quanto all'uomo, affermava che
era, sì, un qualche cosa di quasi divino: ma la bellezza estetica che si poteva
ammirare in lui non era certo un'invenzione del suo creatore, ma era stata
fatta a immagine e somiglianza degli dèi. E poi, nel farlo gli sembrava si
fosse proceduto senza riflettere a ficcargli la mente nascosta dentro il petto,
in mezzo ai precordi, mentre sarebbe stato opportuno sistemarla in alto sulla
fronte, nel punto più scoperto del volto. Per il resto, secondo lui nessuna
trovata ingegnosa era degna d'encomio quanto quella della dea Frode: lei,
infatti, aveva scoperto il modo per mettere in un canto Giunone e diventare
l'amante del re degli dèi: Giove, dongiovanni com'era, senza dubbio avrebbe
concupito una fanciulla tenera e delicata, e così, mentre la sposa indignata
per l'offesa avrebbe disdegnato il letto coniugale, la dea artefice del trucco
si sarebbe conquistata le grazie di quel principe sempre a caccia di sottane;
se Giunone se ne fosse accorta, se avesse voluto salvare per l'eternità il suo
rapporto d'amore, si sarebbe risolta a far bandire la dea Frode dal consesso
divino. Momo ripeteva in continuazione queste malignità sul conto di Frode, per
quanto ne fosse pazzamente innamorato: ma, poiché in quel periodo ce l'aveva
con lei per motivi di gelosia, l'attaccava sparlandone più del necessario; e
allora la dea, stuzzicata da tutti quei pettegolezzi malevoli, decise di
mettercela tutta per vendicarsi. Così, per rendere pan per focaccia al suo
ingrato amante, fidando nelle sue arti fa finta di voler fare la pace con Momo:
gli sta sempre appresso, scambia con lui discorsi interminabili, gli dà subito
ragione in tutto quel che dice, fa tutto ciò che vuole lui. Si mette poi a
rivelare all'amante, che c'è cascato, un sacco di assurde storielle
spacciandole per grandi segreti, chiede ipocritamente consigli per le sue
faccende e, mettendo insieme verità e invenzioni, si mette a fare infiniti
pettegolezzi dei più contorti sul conto di questo e quel dio, allo scopo di
stuzzicare quel petulante e farlo straparlare: insomma, non ne perdeva una pur
di riuscire a combinargli qualche grosso casino al momento opportuno. Con
questi trucchetti era riuscita a strappare molti discorsi compromettenti a
quell'imprudente, e poi li andava a riferire a quelli che pensava se la
sarebbero presa, con la speranza che, provocata l'insofferenza e l'odio di
tanti contro il solo Momo, al momento decisivo avrebbe sferrato l'attacco
finale con forze ben più valide. Per di più la dea Frode s'era data da fare
affinché tutti i giorni venissero presentate a Giove continue lagnanze contro
Momo per bocca di diversi postulanti e, per allontanare da sé qualunque
sospetto di malizia, se capitava che si facessero in sua presenza discorsi sul
pessimo carattere di Momo, fingeva, quasi per obbligo d'amante, di prenderne le
difese, e con lunghi discorsi, per quanto freddini, proteggeva Momo dalle
accuse e dalla condanna generale, dicendo che Momo in fondo non era cattivo, ma
aveva uno spirito forse troppo anarcoide, e per questo pareva una malalingua
più sfrenata di quanto non fosse veramente. A un certo punto alla dea, che
teneva occhi ed orecchie ben aperti, si presentò un'occasione magnifica per
sferrare il colpo. Gli dèi non avevano preso molto bene il fatto che fosse
stata creata una seconda specie di divinità, gli uomini, e che questi fossero
molto più beati dei celesti perché avevano l'aria, l'acqua, la casa, i fiori,
il vino, il bue e tutte le altre fonti di piacere; allora Giove ottimo massimo,
poiché avrebbe voluto rafforzare il suo potere col consenso degli abitatori del
cielo, promise, per quanto stava a lui, di prendere i provvedimenti del caso, e
dichiarò che avrebbe fatto in modo che in futuro nessuno dei celesti non
avrebbe preferito esser dio piuttosto che uomo. E così infuse negli animi umani
gli affanni e la paura, e mandò le malattie, la morte e il dolore. Poiché gli
uomini a causa di questi malanni si erano ridotti ormai in una condizione molto
peggiore che quella degli animali bruti, l'invidia degli dèi verso di loro non
si spense soltanto, ma si tramutò in compassione. Occorre aggiungere che Giove,
per guadagnarsi consensi, cominciò ad abbellire tutta quanta la sfera del
cielo: dispose la collocazione delle dimore celesti e le adornò di molte statue
diversissime, oro e diamanti ed ogni sorta di delizie in splendida abbondanza e
varietà. Alla fine le regalò agli dèi Febo, Marte, Saturno suo padre, Mercurio,
Venere e Diana e, per esercitare da allora in poi un potere assoluto piacevole
e ben accetto agli abitatori del cielo restando libero da seccature, si mise a
distribuire a chi gli parve uffici, incarichi elevati e posti di comando. E per
prima cosa affidò l'alto commissariato per la rotazione dei corpi celesti e la
direzione generale dei fuochi al dio Fato, il più efficiente e responsabile sul
lavoro, un tipo sempre in attività, senza un minuto libero, che non trascura
mai un particolare per pigrizia; uno che né raccomandazioni né bustarelle
riescono a far deflettere dalla rigorosa osservanza delle norme che è radicata
nel suo animo. Tutto questo, non senza aver fatto una pubblica dichiarazione
nella quale affermò ripetutamente di avere un desiderio enorme di tempo libero,
per cui voleva che delle prerogative del potere gli rimanesse soltanto quella
di godere a suo piacimento, assieme agli altri dèi, di una gioia perfetta; gli
sembrava, del resto, che fosse una giusta ricompensa ai suoi meriti verso gli
dèi se gli fosse concesso, con la loro benevola approvazione, di trascorrere
una vita libera da ogni sorta di preoccupazioni.
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