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Leon Battista Alberti
Momo o Del Principe

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  • LIBRO PRIMO.
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LIBRO PRIMO.

 

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Mi meravigliavo ogni volta che mi capitava di notare, nel trascorrer la vita in mezzo a noi umili mortali, una qualche discordanza d'opinioni o incostanza nei giudizi: ma da quando ho preso ad osservare più accuratamente gli stessi dèi massimi, a cui è attribuita ogni lode di saggezza, ho smesso di stupire per le inezie umane. Ho infatti scoperto tra di loro una diversità di tendenze e di caratteri che ha quasi dell'incredibile. Alcuni si danno un contegno grave e severo, alcuni invece sono sempre pronti al riso, alcuni ancora, a loro volta, sono così differenti da tutti gli altri che a mala pena li si potrebbe credere del numero dei celesti. Per quanto tuttavia essi siano fatti a questo modo, con caratteri così discordanti, né tra gli uomini né tra gli dèi se ne può trovare nessuno di natura così singolare e stravagante che non se ne possa riscontrare un altro simile per molti aspetti, fatta eccezione per uno degli dèi, di nome Momo. Si parla di costui come di un tipo dotato di forte spirito di contraddizione, straordinariamente testardo, un gran criticone, rompiscatole, molesto quanto mai: ha imparato ad infastidire e irritare perfino i suoi familiari con le parole e coi fatti, ed è abituato a mettercela tutta perché nessuno che abbia a che fare con lui possa restare senza il volto accigliato e l'animo gonfio d'indignazione. Insomma, Momo è l'unico tra tutti gli dèi che ci prova gusto non solo ad avercela con gli altri uno per uno, ma anche ad essere detestato da tutti in modo incredibile. La tradizione vuole che per la sfrenata insolenza del suo linguaggio sia stato scacciato ed escluso, su richiesta e col consenso di tutti, dall'antico consesso degli dèi del cielo: ma era così potente, nell'inaudita malvagità del suo carattere e con i suoi sinistri artifici, che riuscì a spingere proprio sull'ultima spiaggia tutti gli dèi e tutto il cielo e perfino l'intera macchina dell'universo. Ho deciso di mettere per iscritto questa storia, perché possa servire ad una vita guidata dalla ragione; ma perché ciò si realizzi più agevolmente, si dovranno prima esaminare cause e modalità della cacciata in esilio di Momo; poi andremo avanti con il resto del racconto, pieno d'imprevisti e ricchissimo per la serietà degli argomenti importanti non meno che per la comicità delle situazioni spassose. Quando Giove ottimo massimo ebbe messo su questa sua opera meravigliosa, il mondo, desiderando che fosse abbellito al meglio in ogni sua componente, ordinò agli dèi che ciascuno secondo le sue possibilità aggiungesse a quella creazione qualcosa di elegante e di degno. I celesti obbedirono a gara all'ordine di Giove: e così tutti fecero cose diverse ‑ chi l'uomo, chi il bue, chi la casa - tutti ad uno ad uno, eccetto Momo, tirarono fuori qualcosa, dono gradito per Giove. Solo Momo, testardo e arrogante per natura, si vantava che da lui non si sarebbe cavato nulla, ed in mezzo alla comune frenesia degli altri per produrre qualcosa perseverava col massimo piacere nella sua ostinazione. Finalmente, dopo che moltissimi avevano tanto insistito perché avesse più rispetto e considerazione per il favore e l'autorità di Giove, non certo commosso dai loro ripetuti consigli, ma perché non riusciva più a sopportare la nausea per tutti quegli inviti, esortazioni e preghiere, accigliato come sempre esclamò: «Avete vinto, scocciatori! Vi darò soddisfazione piena!». E allora ne escogitò una degna di lui. Riempì il mondo di cimici, tignole, vesponi, calabroni, scarafaggi e animalacci schifosi del genere, simili a lui. In un primo momento, la cosa fu presa dagli dèi dal lato ridicolo, la si accettò come una trovata scherzosa; ma lui non poteva sopportare che non se ne sentissero indignati, e allora cominciò a vantarsi della sua bella impresa e a criticare con pignoleria i doni altrui, denigrandone gli autori: finì con l'attirarsi ogni giorno di più l'odio di tutti con le sue insolenze. Tra gli altri celebri artefici celesti godevano di particolare ammirazione per i doni che avevano escogitato Pallade per il bue, Minerva per la casa, Prometeo per l'uomo; vicinissima in graduatoria stava la dea Frode, che sembrava aver avuto una bellissima pensata concedendo agli esseri umani le attrattive femminili, l'arte della finzione, il riso e le lacrime. Mentre, quindi, tutti gli altri dèi portavano in palmo di mano costoro, solo Momo li criticava aspramente: diceva che, certo, il bue era un animale utile, abbastanza adatto ai lavori pesanti, però non aveva gli occhi messi al posto giusto sulla fronte: così, quando andava all'assalto con le corna in avanti, avendo gli occhi fissi a terra non era in grado di colpire il nemico nel punto che voleva: era stata proprio un'incapace la sua creatrice a non mettergli anche un solo occhio in alto, dalle parti delle corna! La casa, analogamente, diceva che non meritava per niente l'approvazione di cui la circondavano quegli incompetenti degli dèi, poiché di sotto non le era stato applicato un carro con cui poterla trasportare da un quartiere malfamato a una zona più tranquilla. Quanto all'uomo, affermava che era, sì, un qualche cosa di quasi divino: ma la bellezza estetica che si poteva ammirare in lui non era certo un'invenzione del suo creatore, ma era stata fatta a immagine e somiglianza degli dèi. E poi, nel farlo gli sembrava si fosse proceduto senza riflettere a ficcargli la mente nascosta dentro il petto, in mezzo ai precordi, mentre sarebbe stato opportuno sistemarla in alto sulla fronte, nel punto più scoperto del volto. Per il resto, secondo lui nessuna trovata ingegnosa era degna d'encomio quanto quella della dea Frode: lei, infatti, aveva scoperto il modo per mettere in un canto Giunone e diventare l'amante del re degli dèi: Giove, dongiovanni com'era, senza dubbio avrebbe concupito una fanciulla tenera e delicata, e così, mentre la sposa indignata per l'offesa avrebbe disdegnato il letto coniugale, la dea artefice del trucco si sarebbe conquistata le grazie di quel principe sempre a caccia di sottane; se Giunone se ne fosse accorta, se avesse voluto salvare per l'eternità il suo rapporto d'amore, si sarebbe risolta a far bandire la dea Frode dal consesso divino. Momo ripeteva in continuazione queste malignità sul conto di Frode, per quanto ne fosse pazzamente innamorato: ma, poiché in quel periodo ce l'aveva con lei per motivi di gelosia, l'attaccava sparlandone più del necessario; e allora la dea, stuzzicata da tutti quei pettegolezzi malevoli, decise di mettercela tutta per vendicarsi. Così, per rendere pan per focaccia al suo ingrato amante, fidando nelle sue arti fa finta di voler fare la pace con Momo: gli sta sempre appresso, scambia con lui discorsi interminabili, gli subito ragione in tutto quel che dice, fa tutto ciò che vuole lui. Si mette poi a rivelare all'amante, che c'è cascato, un sacco di assurde storielle spacciandole per grandi segreti, chiede ipocritamente consigli per le sue faccende e, mettendo insieme verità e invenzioni, si mette a fare infiniti pettegolezzi dei più contorti sul conto di questo e quel dio, allo scopo di stuzzicare quel petulante e farlo straparlare: insomma, non ne perdeva una pur di riuscire a combinargli qualche grosso casino al momento opportuno. Con questi trucchetti era riuscita a strappare molti discorsi compromettenti a quell'imprudente, e poi li andava a riferire a quelli che pensava se la sarebbero presa, con la speranza che, provocata l'insofferenza e l'odio di tanti contro il solo Momo, al momento decisivo avrebbe sferrato l'attacco finale con forze ben più valide. Per di più la dea Frode s'era data da fare affinché tutti i giorni venissero presentate a Giove continue lagnanze contro Momo per bocca di diversi postulanti e, per allontanare da sé qualunque sospetto di malizia, se capitava che si facessero in sua presenza discorsi sul pessimo carattere di Momo, fingeva, quasi per obbligo d'amante, di prenderne le difese, e con lunghi discorsi, per quanto freddini, proteggeva Momo dalle accuse e dalla condanna generale, dicendo che Momo in fondo non era cattivo, ma aveva uno spirito forse troppo anarcoide, e per questo pareva una malalingua più sfrenata di quanto non fosse veramente. A un certo punto alla dea, che teneva occhi ed orecchie ben aperti, si presentò un'occasione magnifica per sferrare il colpo. Gli dèi non avevano preso molto bene il fatto che fosse stata creata una seconda specie di divinità, gli uomini, e che questi fossero molto più beati dei celesti perché avevano l'aria, l'acqua, la casa, i fiori, il vino, il bue e tutte le altre fonti di piacere; allora Giove ottimo massimo, poiché avrebbe voluto rafforzare il suo potere col consenso degli abitatori del cielo, promise, per quanto stava a lui, di prendere i provvedimenti del caso, e dichiarò che avrebbe fatto in modo che in futuro nessuno dei celesti non avrebbe preferito esser dio piuttosto che uomo. E così infuse negli animi umani gli affanni e la paura, e mandò le malattie, la morte e il dolore. Poiché gli uomini a causa di questi malanni si erano ridotti ormai in una condizione molto peggiore che quella degli animali bruti, l'invidia degli dèi verso di loro non si spense soltanto, ma si tramutò in compassione. Occorre aggiungere che Giove, per guadagnarsi consensi, cominciò ad abbellire tutta quanta la sfera del cielo: dispose la collocazione delle dimore celesti e le adornò di molte statue diversissime, oro e diamanti ed ogni sorta di delizie in splendida abbondanza e varietà. Alla fine le regalò agli dèi Febo, Marte, Saturno suo padre, Mercurio, Venere e Diana e, per esercitare da allora in poi un potere assoluto piacevole e ben accetto agli abitatori del cielo restando libero da seccature, si mise a distribuire a chi gli parve uffici, incarichi elevati e posti di comando. E per prima cosa affidò l'alto commissariato per la rotazione dei corpi celesti e la direzione generale dei fuochi al dio Fato, il più efficiente e responsabile sul lavoro, un tipo sempre in attività, senza un minuto libero, che non trascura mai un particolare per pigrizia; uno che né raccomandazionibustarelle riescono a far deflettere dalla rigorosa osservanza delle norme che è radicata nel suo animo. Tutto questo, non senza aver fatto una pubblica dichiarazione nella quale affermò ripetutamente di avere un desiderio enorme di tempo libero, per cui voleva che delle prerogative del potere gli rimanesse soltanto quella di godere a suo piacimento, assieme agli altri dèi, di una gioia perfetta; gli sembrava, del resto, che fosse una giusta ricompensa ai suoi meriti verso gli dèi se gli fosse concesso, con la loro benevola approvazione, di trascorrere una vita libera da ogni sorta di preoccupazioni.




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