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La dea madre, dopo aver osservato
per un pezzo la ragazza colpita da tanta disgrazia, diede un gemito. Poi, per
soccorrere la figliola in un simile frangente, facendo finta di essersi
svegliata proprio allora, si alzò e disse: «Lascia stare, ci penso io!» e,
avvicinandosi a rapidi passi, schiacciò col piede destro il collo del mostro
che si dibatteva. Il mostro, benché così intrappolato facesse fatica a respirare,
continuava a tirar fuori parole con incredibile faccia tosta, e non la finiva
più di spifferare tutto ciò che si poteva vedere, anzi, riferiva tutto quello
che aveva visto e sentito mettendo insieme talvolta il vero e il falso. Giurava
che Trionfo e Trofeo non erano figli di Virtù, ma di Caso e Fortuna, e che uno
dei due era scemo e l'altro deficiente. E strillava sfottendoli: «Viva Trofeo!
Viva Trionfo! Ehi tu, Trofeo, perché non vai a piazzarti agli incroci, al
solito tuo, per farti vedere dai ragazzini e dai passanti stanchi, che mugoli
come fanno i muti?». Sosteneva poi che Lode aveva un occhio cisposo, e
Posterità camminava coi piedi all'indietro. Poi, rivolto alla dea Virtù:
«Quando Lode si pettina di fronte a te, il petto e il grembo ti si riempiono di
sporcizia».
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