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Leon Battista Alberti
Momo o Del Principe

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  • LIBRO SECONDO.
      • -14-
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-14-

 

A sentir questo discorso di Mercurio Momo nella sua gioia non poté trattenere una fragorosa risata, che fece voltare tutti verso di lui. Quando gli chiesero cosa diavolo ci trovasse da ridere, recuperò subito, da vero camaleonte, e disse: «Rido di cuore, Mercurio, perché dicevi che i mortali vi chiedevano coi loro voti di rimettergli in sesto quelle facce brutte e mal lavorate. Bisognerebbe allora che tutti voi dèi foste mastri artigiani per queste ragazze, se per aggiustarne una sola come vorrebbe lei non c'è abilità artistica che basti! Guarda che bei musi si portano da casa!». Allora Giove scoppiò a ridere, divertito più che dalle battute di Momo dal suo modo di muoversi come un buffone (ce l'aveva proprio messa tutta a rendersi ridicolo); poi invitò a cena gli dèi lì presenti, Momo in particolare, avendo voglia di ridere ancora. Riderai di Giove e di Momo, lettore, e resterai ammirato: non è facile dire, infatti, quanto sia stato bravo Momo in quella cena a fare il buffone tra una portata e l'altra nella sorpresa generale, raccontando un sacco di guai che gli erano capitati durante il suo esilio, divertenti e istruttivi. Raccontò anche di aver voluto provare tutti i sistemi di vita degli uomini e le loro professioni, per adagiarsi tranquillo in quello più comodo, quando l'avesse scoperto; si era applicato in ciascuno di essi per riuscire a diventarne un esperto, unendo una scrupolosa preparazione all'esperienza e alla pratica, però non ne aveva imparato nessuno in modo tale da sembrare abbastanza ferrato ai suoi stessi occhi, anzi aveva scoperto che è tipico di ogni disciplina che più cose utili s'imparano in teoria e nella pratica, più ci si accorge che ne restano da imparare. Era arrivato alla conclusione che tutte quelle maniere di vivere che godono altissima reputazione tra gli uomini sono molto meno utili e meno adatte al bene e beato vivere di quanto pretendano i consueti ragionamenti dei saggi; per cominciare dalle più importanti e conclamate, gli era parsa molto conveniente in un primo momento la carriera militare, soprattutto perché è per mezzo di essa che le classi dirigenti si formano, conquistano posizioni di potere, conseguono il premio della fama tra i posteri. Oltretutto, il pensiero di essere immune da pericoli grazie alla sua immortalità lo spingeva a vedere nella vita militare la strada più adatta a lui: era stato perciò un soldato, aveva dato prova di valore, era arrivato infine a comandare un esercito, aveva schierato truppe, diretto le manovre navali, aveva visto le iscrizioni trionfali delle sue numerose vittorie ricevere spesso il plauso e i festeggiamenti dei cittadini; ben presto però aveva detestato la vita del campo, gli stendardi, le armi, le trombe, tutto lo strepito fragoroso dei guerrieri: e questo non per sazietà, per una forma di nausea dei ripetuti successi, ma per un motivo giusto e retto, da vera persona sensata: infatti in tutto ciò che è collegato con la vita militare non riusciva a trovar niente che avesse l'aria dell'equilibrio, che non fosse l'esatto contrario della giustizia; in tutta quella moltitudine di uomini armati non vedeva il minimo senso di umanità e pietà, tutto era trascinato alla convenienza personale, alla considerazione ambiziosa del proprio momentaneo vantaggio, passando per ogni sorta di violenza ed empietà; i premi non erano sicuro appannaggio dei valorosi, ma dipendevano tutti dalle opinioni di una massa incompetente; le azioni e i piani erano giudicati in base al successo, e le ricompense non venivano attribuite al valore, ma all'audacia temeraria. Per non parlare dei pericoli e delle fatiche che bisognava affrontare, al sole in mezzo alla polvere, di notte sotto la pioggia a cielo scoperto; e poi c'era da farsela in mezzo a gente disposta a rimetterci il sangue e la vita, avida del sangue altrui, corrotta, senza religione, di una crudeltà spaventosa; in fondo alla canaglia degli sciagurati, dei criminali banditi dalla patria per i delitti commessi; in mezzo alla rovina, al fragore, al fumo e alla cenere dei templi che crollano! Momo, insomma, assicurava che in tutta la vita militare non aveva trovato niente che gli piacesse almeno un po', a parte il fatto che qualche volta manipoli e battaglioni in preda a esaltato furore si lanciavano a passo di carica verso lo scontro armato: era davvero uno spettacolo vedere quella mostruosa, pestilenziale concentrazione di esseri umani in corsa verso la morte, nello strazio di sé e dei loro simili, farsi a pezzi con le proprie mani! Momo aveva poi desiderato anche diventare re, in quanto giudicava il potere regio il più vicino alla maestà divina, e aveva dato un grande valore, una volta, al fatto di essere temuto e rispettato da una folla sempre a sua disposizione, pronta ad ossequiarlo e a pendere dalle sue labbra, e così pure di vivere in splendidi palazzi, incedere in mezzo agli onori, dare feste e banchetti sontuosi. All'inizio temeva che gli sarebbe stato molto difficile raggiungere quella meta, poiché vedeva che molti si erano battuti invano per conquistarla, a prezzo di enormi fatiche e a rischio della vita, ma ben pochi c'erano riusciti; poi però aveva osservato che erano aperte due vie al principato, brevi e niente affatto difficili: una, basata su lotte di parte e cospirazioni, si percorre a forza di saccheggi, vessazioni, distruzioni, abbattendo qualsiasi ostacolo si frapponga al proprio cammino; l'altra via al potere, invece, procede in linea retta da una preparazione ad alto livello, dall'osservanza dei buoni costumi e dall'ornamento delle virtù; essa richiede la capacità di diventare, e mostrarsi a tutti, una persona ritenuta degna di rispetto e devozione, la sola a cui rivolgersi nei momenti difficili, alle cui decisioni e al cui parere tutti si abituino a dare il massimo rilievo. Sulla terra, infatti, non c'è animale più riluttante alla sottomissione dell'uomo; eppure non se ne può immaginare uno più incline dell'uomo stesso alla mansuetudine e all'arrendevolezza. Momo sapeva però che esercitare il potere non è certo da tutti: se gli animali privi di senno e le fiere selvagge sono retti da un istinto naturale che li tiene a freno sotto una precisa forma di disciplina, perché non dovremmo riuscire a governare con metodi razionali l'uomo, incline per natura alla solidarietà e al controllo imposti da una vita di relazione, dal momento che ubbidisce spontaneamente, come si può vedere, senza bisogno di coercizione a chi sa dare ordini giusti e retti? Affermava però che il potere, una volta ottenuto o conquistato, è una cosa che senza dubbio logora chi ce l'ha. Cosa c'è nella vita, infatti, di più duro e faticoso di una posizione in cui, quando la si è raggiunta, bisogna trascurare i propri interessi e occuparsi di quelli degli altri, riservare da soli la propria attività e le proprie energie alla sicurezza della pace e della tranquillità di molti? A queste osservazioni Momo aggiungeva anche che le cariche pubbliche vanno tutte incontro al gravissimo inconveniente che, se le si esercita da soli, non si è mai all'altezza, se invece ci si serve di collaboratori la cosa si presenta estremamente rischiosa; comunque, essere superficiali nell'esercizio del proprio ufficio, oltre che vergogna e disonore, arreca anche disastrose conseguenze. In conclusione, se si considera con una certa attenzione ciò che va sotto il nome di potere ci si rende conto che si tratta di una sorta di pubblica schiavitù a faccende che è meglio evitare, decisamente intollerabile. Quanto al resto, Momo aveva deciso in partenza di lasciar perdere tutte le attività economiche e finanziarie, perché l'abbondanza e la pratica dell'accumulazione generano sazietà e noia, e poi, se si è spinti dall'avidità a desiderare più del necessario, possono anche portare a una forma di ansia gretta e meschina. Per concludere, diceva di non aver trovato alcun genere di vita che valesse la pena di scegliere e desiderare in tutti i suoi aspetti, tranne quello di coloro che vanno in giro a chiedere l'elemosina, i cosiddetti vagabondi. Si mise allora a dimostrare con molto spirito e ricchezza di argomenti che questo è davvero l'unico sistema di vita agevole, chiaramente vantaggioso, privo di disagi, ricco di libertà e di piacere; e sosteneva tra l'altro: «Dicono i geometri che tutto quel che c'è da sapere nella loro professione lo conosce altrettanto bene un principiante che un esperto, una volta che l'ha imparato. Succede pressappoco la stessa cosa nell'arte del vagabondaggio: nello stesso breve spazio di tempo in cui la si apprende, eccola già bell'e nota e assimilata. C'è una sola differenza: chi vuol fare il geometra ha bisogno di un altro geometra che gli insegni il mestiere, invece il vagabondaggio si apprende senza bisogno di alcun maestro. Ogni altra forma di professionalità richiede periodi d'istruzione, la fatica del tirocinio, esercizio continuo, una rigorosa programmazione, e poi sono necessari sussidi didattici e altri strumenti di lavoro di cui questa sola arte non ha affatto bisogno. Quest'arte sola si regge con sufficienti garanzie sulla completa indifferenza per tutte quelle cose che si ritengono indispensabili nelle altre arti, e sulla loro mancanza. Non c'è bisogno di mezzi di trasporto, di una nave o di una bottega; non si deve aver paura dei mangiapane a tradimento, delle rapine, della congiuntura sfavorevole. Non c'è da investire nessun capitale tranne la povertà e la faccia tosta nel chiedere, e tutto il lavoro da fare per perdere i propri beni e chiedere quelli degli altri consiste solo nel volerlo. Inoltre il vagabondo mangia alle spalle degli altri, occupa il suo tempo come gli pare e piace, chiede liberamente, non ha problemi a dire di no, prende da tutti, perché anche i poveretti offrono volentieri, e le persone agiate non si tirano indietro. Che dire poi della loro libertà, della loro maniera di vivere anarchica? Ridono, lanciano accuse, fanno critiche, blaterano quanto gli pare senza mai doverne pagare le conseguenze. Il fondamento essenziale del loro potere sta proprio nel fatto che gli altri ritengono un disonore mettersi a disputare con un vagabondo e considerano una colpa alzare le mani su uno che non ha mezzi per difendersi. Poter fare quello che si vuole senza nessuno che stia a censurare le tue parole e le tue azioni: ecco un sostegno e un valido mezzo di conservazione del potere! Non concederò neppure ai re il vantaggio di potersi servire delle ricchezze meglio dei vagabondi: sono dei vagabondi i teatri, dei vagabondi i portici, dei vagabondi qualunque luogo pubblico! Gli altri non avrebbero il coraggio di mettersi a sedere sulla piazza o di parlare con la voce un po' alterata e, temendo le occhiatacce dei benpensanti, si comportano in pubblico sempre secondo le buone norme, senza mai seguire le loro inclinazioni istintive. E tu invece, vagabondo, ti sdrai in mezzo alla piazza, alzi la voce liberamente, fai tutto quello che ti va assecondando i tuoi desideri. Nei tempi duri gli altri stanno a consumarsi in silenzio tutti mesti, tu canti e balli. Se al potere c'è un principe cattivo gli altri fuggono a peregrinare in esilio, tu frequenti le feste di corte. Il nemico vincitore imperversa: tu solo del tuo popolo non hai paura a stargli di fronte. E quel che ciascuno ha messo insieme dopo grandi fatiche, rischiando anche la pelle, tu glielo chiedi come fossero primizie a te dovute. Un'altra particolarità molto conveniente è che nessuno ha invidia di chi vive in questo modo, e anche tu non hai invidia per nessuno, in quanto non vedi negli altri niente che tu non possa facilmente ottenere, se vuoi. Inoltre la condizione del vagabondo si adatta così facilmente a qualsiasi altra professione che dovunque egli abbia messo mano ci fa una bellissima figura, il che non si verifica certo per le altre categorie d'uomini: infatti si accusa di superficialità chi cambia sempre mestiere, e ogni volta che lo fa ha un bello spreco di energie. Penso che non si debba dare ascolto a chi va dicendo che la maniera di vivere dei vagabondi presenta un sacco d'inconvenienti. Posso affermare in base alla mia esperienza che in tutte le altre professioni mi sono imbattuto in un gran numero di difficoltà e di fastidi di cui avrei fatto a meno volentieri. Infatti a qualunque attività sono strettamente connessi molti aspetti pesanti e fastidiosi, che bisogna tuttavia sopportare se la si vuol esercitare; invece solo nell'arte e nella disciplina (chiamiamola così!) del vagabondaggio non ho mai trovato nessuna cosa che non mi piacesse in tutto e per tutto. Tu vedi i vagabondi vestiti leggeri a cielo scoperto, coricati sulla dura terra, e li disprezzi, li guardi schifato come fa la maggioranza. Bada però che non siano i vagabondi a disprezzare te e tutti gli altri. Tu ti dai un sacco da fare per gli altri, il vagabondo non muove un dito per te né per gli altri, quel che fa lo fa per sé. C'è proprio bisogno di dire quanto siano degne d'un uomo sciocco e insensato certe cose che la maggioranza ammira, come la toga, la porpora, l'oro, la mitra e roba del genere? Chi non si metterebbe a ridere a vederti camminare tutto impacciato dall'intrico dei vestiti che ti pesano addosso, per piacere agli occhi altrui? Questo il vagabondo non lo fa, perciò ride. E tu, se sei una persona di buon senso, non cercherai di non essere infastidito dal peso dei vestiti, non ti rifiuterai di aver le membra oppresse e soffocate pur di seguire la moda, per sembrare più ricco ed elegante? Usiamo i vestiti per coprirci, non per metterci in mostra! Chi ha vestiti per ripararsi dalla pioggia e dal freddo è ben messo quanto basta all'utilità pratica e al naturale decoro. Il vagabondo si corica per terra: embè? Quando si ha sonno, si dorme forse con gli occhi meno chiusi sul nudo pavimento che in mezzo alle coperte? La natura ha dato le piume ai cigni perché si coprissero, non per farne letti raffinati: se si avesse un sonno profondo quanto il materasso su cui ci si corica, non c'è dubbio che si dormirebbe moltissimo e bene. Con l'abitudine, il posto per riposare che la natura ci concede diventa ogni giorno più soffice e più salutare, e se mancano le comodità il sonno farà da cuscino agli uomini stanchi.




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