Morte villana, di pietà
nemica,
di dolor madre antica,
giudicio incontastabile gravoso,
poi che hai data matera al cor doglioso,
ond'io vado pensoso,
di te blasmar la lingua s'affatica.
E s'io di grazia ti vòi far mendica,
convènesi ch'eo dica
lo tuo fallar d'onni torto tortoso,
non però ch'a la gente sia nascoso,
ma per farne cruccioso
chi d'amor per innanzi si notrica.
Dal secolo hai partita cortesia
e ciò ch'è in donna da pregiar vertute:
in gaia gioventute
distrutta hai l'amorosa leggiadria.
Più non vòi discovrir qual donna sia
che per le propietà sue canosciute.
Chi non merta salute
non speri mai d'aver sua compagnia.
Questo sonetto si divide in quattro parti: ne la prima parte, chiamo la Morte per certi suoi nomi
propri; ne la seconda, parlando a lei, dico la cagione per che io mi muovo a
biasimarla: ne la terza, la vitupero; ne la quarta, mi volgo a parlare a indiffinita
persona, avvegna che quanto a lo mio intendimento sia diffinita. La seconda
comincia quivi: poi che hai data; la terza quivi: E s'io di grazia;
la quarta quivi: Chi non merta salute.
|