ATTO
QUARTO.
Tenebre, o voi
del chiaro dì più assai
convenìenti a questa orribil reggia,
quanto mi aggrada il tornar vostro! In tregua
non ch'io per voi ponga il mio duol; ma tanti
vili ed iniqui aspetti almen non veggio. –
Qui favellarmi d'Isabella in nome
vuol la sua fida Elvira: or, che dirammi?...
Oh qual silenzio!... Infra i rimorsi adunque,
fra le torbide cure, e i rei sospetti
placido scende ad ingombrar le ciglia
de' traditori e de' tiranni il sonno?
Quel, che ognor sfugge l'innocente oppresso? –
Ma, duro a me non è il vegliare: io stommi
co' miei pensieri, e colla immagin cara
d'ogni beltà, d'ogni virtù: mi è grato
qui ritornar, dov'io la vidi, e intesi
parole (oimè!) che vita a un tempo e morte
m'erano. Ah! sì; da quel fatale istante
meno alquanto infelice esser mi avviso,
ma più reo ch'io non era... Or, donde nasce
in me il timor d'orror frammisto? è forse
al delitto il timor dovuta pena?...
Pena? ma qual commisi io mai delitto?
Non tacqui: e chi potea l'immenso amore
tacer, chi mai? – Gente si appressa. Elvira
sarà;... ma no: qual odo fragor cupo?...
Qual gente vien? qual balenar di luce?
Armati a me? Via, traditori...
|