Grazia Deledda: Raccolta di opere
Grazia Deledda
La casa del poeta
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La morte della tortora.

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La morte della tortora.

 

Triste era quel mese di aprile, freddo, ventoso, con violenti acquazzoni picchiettati di grandine e, nei momenti buoni, un sole alto e rosso che pareva una brace nei cumuli di cenere fosca delle nuvole correnti. E tristi e tormentose erano le condizioni spirituali e materiali della signorina Carlotta.

- Signorina, - ella pensa amaramente, rannicchiata presso la vetrata della malinconica terrazzina sulla quale la sua camera di vecchia vergine. - A Pasqua compio sessanta anni, e sono sola, disperata, in miseria. O mamma mia, o mamma mia...

Ella invoca la madre, con un pigolìo umile e infantile, senza speranza di conforto. La madre è morta da tanto tempo, e la vecchia figlia non è abbastanza credente per pensarla in un al di dal quale gli spiriti familiari ci aiutano e ci proteggono.

Tuttavia, da giorni e giorni il suo cuore è vinto dal desiderio di raggiungere la madre, il padre, i fratelli, la sorellina che ha sempre sei anni e gli occhi freschi di margherita nera; raggiungerli, se non altro, nella pace universale del nulla. Morire. Stendersi sul lettuccio ammaccato, che sembra stanco, più che del peso del corpo, della lunga tristezza solitaria dell'anima di lei, chiudere gli occhi e lasciarsi portare via dal tempo! Nessuno verrà a battere alla sua porta, poiché nessuno, da tanti anni, usa ricordarsi di lei. Una volta almeno, straniera e stramba come era fra la gente del quartiere nel quale viveva, le donnicciuole e i bambini la deridevano e la perseguitavano; adesso la lasciavano in pace, ed ella non cercava nessuno perché non amava e non si sentiva amata da nessuno.

Eppure qualcuno picchiò alla porta. Era il bambino del fornaio che le portava il pane e col quale ella non scambiava mai una sola parola. Questa volta, però, gli disse:

- Domani non venire: devo partire.

Il bambino, tutto zuppo di pioggia, la fissò coi grandi occhi senza sorriso, spingendo la porta ch'ella voleva chiudere.

- E quella , - domandò, - se la porta via?

La donna trasalì: ricordò; gli occhi le si empirono di pensieri e di lagrime; tuttavia rispose con dispetto:

- Sì, la porto via.

E chiuse d'impeto la porta: ma sentì che il bambino rimaneva fuori a spiare, forse a fiutare, dal buco della serratura, l'odore di morte che già esalava nella casa di lei.

Ella però s'era già come raddrizzata sopra l'abisso. E andò a cercare quella .

Era una tortora, simile a un piccolo piccione bigio, che tutti i bambini del quartiere conoscevano perché nelle belle giornate si affacciava fra le sbarre della terrazzina, e rispondeva con un lieve tubare ai loro gridi di richiamo.

Da anni era l'unica compagna della signorina Carlotta, che quando non aveva altro da fare se la teneva contro il petto, e qualche volta non usciva di casa per non lasciarla sola.

In quei giorni d'angosciosa inquietudine l'aveva un po' trascurata, e la tortora pareva sentisse la tristezza di lei. Una volta la padrona la trovò nascosta sotto la tavola della cucina, accucciata come se covasse. Era una posizione insolita, per la piccola solitaria che non sapeva cosa fosse l'amore: e istinto di amore non era, perché quando la donna la prese nella culla delle sue mani, la sentì fredda e, sotto le ali ripiegate rigide, più minuta del solito. Gli occhi, poi, erano socchiusi e smorti.

- Tu sei malata, anima mia - le disse, con pena più che materna: e tentò di rianimarla col suo alito, col calore del suo petto, con un panno che fece scaldare sul fuoco. Ma la tortora non riprendeva vita. Allora la donna credette di capire il perché del suo male misterioso: ed esempi recenti le tornarono al pensiero: quello della cornacchia morta per l'abbandono della padrona; quello del piccione caduto morto sul corpo del padrone morto.

- Tu hai capito i miei tristi propositi, piccola anima mia; e ti sei già preparata ad accompagnarmi. Ma io... ma io...

Perché, d'un tratto, le tornava la volontà di vivere, di lottare, di soffrire ancora? Eppure nulla era mutato intorno. La pioggia batteva contro i vetri che parevano sciogliersi in lagrime; i giorni di povertà e solitudine stavano appiattati in ogni angolo della casa: ma lei si sentiva capace di superarli ancora e aspettare che almeno la ricchezza e la compagnia del sole tornassero a riscaldare il cuore suo e quello della piccola tortora.

 

Ma la giornata continuò sinistra e tempestosa, e poi scese una notte fredda più disperata ancora. La tortora peggiorava. Rifiutò il cibo; parve anche ribellarsi alle cure della padrona, perché d'un tratto le puntò le zampine sul petto e volse la testa indietro, quasi fino alla coda, in modo che sembrava volesse spezzarsi. Cose puerili le mormorava la donna:

- Tu non mi vuoi più, lo vedo, perché io pensavo di tradirti, andarmene di nascosto, lasciarti sola, in balìa dei monelli della strada. E tu ti vendichi, anima mia. Eppure la nostra vita era bella ancora, nel suo grigiore, quando la fede in Dio non mi mancava e tu stavi nel mio grembo come nel tuo nido. Sole ed eguali entrambe, eravamo, in una vita di esilio, tu e io lontane dai nostri simili, tutte e due senza amore, eppure felici l'una dell'altra.

Si assopì, con l'uccello finalmente assopito contro il suo seno: e sognò la madre e un paradiso strano, allucinato, con un grande albero primaverile alla cui ombra diafana sedevano i parenti: la sorellina di sei anni giocava ai loro piedi; la tortora, fra i rami piumati d'oro, aveva trovato un compagno col quale tubava d'amore. Ma la madre le parlava severa:

- Tu volevi morire senza che Dio avesse segnato il giorno: e tu non farai mai più parte della famiglia.

Si svegliò tutta infreddolita, ma con un senso di sollievo: era in tempo ancora a salvarsi dalla minaccia della madre.

Riaccese il fuoco e preparò due bottiglie d'acqua calda: una per sé, una per la tortora, alla quale fece una specie di nido sulla poltrona ai piedi del letto. L'uccello, lasciato a sé, riprese la posizione della cova; il tepore della bottiglia gli scaldò le piume, il piccolo petto tornò a palpitare: e la speranza riaccese anche il cuore della donna.

Ma che cosa era questa speranza? Che la tortora, la più umile e timida creatura di Dio, guarisse; o che l'anima sua, la più alta creazione di Dio, si riaprisse alla grandezza della vita?

- Voglio salvarti, anima mia - promise all'uccello; ma la promessa era davvero all'anima sua.

E tornò a sognare: adesso andava dal veterinario. Col suo cappellaccio da uomo calato sugli occhi, lo spolverino a cinghia, aveva nascosto la tortora sotto la sciarpa, e camminava rasente ai muri per sfuggire alla persecuzione dei ragazzi; ma questi la seguivano, e quello del pane le gridava:

- Dio ti castiga perché non mi hai fatto una sola volta accarezzare quella .

Arriva alla casa del medico delle bestie e le tocca di fare anche anticamera: c'è un vecchio con un pappagallo che geme come un bambino; c'è una signora elegante con un levriero ferito; c'è un giovane studente che si piega quasi piangendo su una scimmietta moribonda.

Ella siede accanto alla vetrata aperta; ma questa è proprio la vetrata della sua terrazzina, sopra la cui balaustrata, in una cassetta colma di terra dove il gelo ha fatto seccare i gerani, spuntano dei fili argentei: è il grano per il sepolcro di Gesù. E d'un tratto la tortora le scappa di sotto la sciarpa, vola sulla terrazza e riprende a tubare.

Questa volta ella si sveglia con un palpito di gioia: poiché è certa che la tortora è guarita.

 

La tortora era guarita davvero per sempre. Ella la riprese fra le mani, le aggiustò le ali, le tastò il filo esile del petto, le chiuse gli occhi lagrimosi; e non pianse, poiché non si piange per la morte di un uccello.

Era l'alba, finalmente serena. Sopra la terrazzina, in alto, fra l'una e l'altra delle case ancora tutte addormentate, il cielo aveva un pallore di convalescenza; ed a lei, nel sollevare il viso, parve specchiarvisi.

Prima che nessuno se ne accorgesse, scavò nella cassetta; e mentre l'odore della terra bagnata le ricordava che esistono sempre, anche per i vecchi e per i poveri, i prati e i campi dove la primavera ritorna, vi seppellì la tortora, e vi seminò il grano destinato al suo cibo: il grano che spuntò tre giorni dopo, quasi al suono delle campane che annunziavano il mistero della Resurrezione.

 

 

 


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