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Margherita mia
Ricevo in questo
momento la tua lettera e rispondo subito. Sono un po' stordito; in questi
giorni ho almeno una ventina di volte preso in mano la penna per scriverti,
senza riuscirci. Eppure ho tante cose da dirti. Ho cambiato casa: sto presso
una signora sarda che dice di esser nata a Nuoro, è una buona donna, simpatica,
molto devota; ha per me delle cure veramente materne, tanto che mi ha dato la
sua camera in attesa della partenza d'una bellissima signorina inglese che deve
cedermi la sua.
Questa Miss rassomiglia a te in modo straordinario; ti scongiuro però di non
esser gelosa: . - perché io sono
pazzamente innamorato di una signorina nuorese; 2. - perché Miss deve partire
fra otto giorni; 3. - perché è matta da legare; 4. - perché é fidanzata; 5. -
perché io sono sotto la salvaguardia di tutte le sante ed i santi del cielo
appesi alle pareti della mia camera, nonché delle Anime Sante del Purgatorio
illuminate giorno e notte da una mariposa.
Presso la mia nuova padrona abitano altri stranieri che vanno e vengono, e un
sarto piemontese, elegantissimo e coltissimo, e un commesso viaggiatore, che
per le bugie che dice mi ricorda il colendissimo signor Francesco Carchide di
Nuoro, tuo sfortunato pretendente.
La signora Obinu tiene poi una vecchia cuoca sarda, che sta a Roma da oltre
trent'anni ed ancora non ha appreso l'italiano. Povera vecchia zia Varvara!
Essa è nera e piccina come un jana:21 conserva gelosamente nel baule il
suo costume natìo, ma veste un ridicolo abito comprato a Campo dei Fiori.
Spesso io vado a trovarla, nella cucina buia e torrida, ed essa mi domanda
notizie delle persone del suo paese, e crede che il mare sia sempre in tempesta
come l'unica volta in cui ella lo attraversò. Per lei Roma è un luogo dove
tutte le cose son care, e dove si può morire da un momento all'altro investiti
da una vettura. Mi domandò se da noi si fa ancora il pane in casa; risposi di
sì ed essa si mise a piangere, ricordando gli scherzi e il divertimento dei
giorni nei quali si cuoceva il pane, a casa sua. Poi volle sapere se i pastori
mangiano ancora seduti per terra, sotto gli alberi. Come sospirava ricordando
un banchetto di Pasqua, a cui prese parte quarant'anni or sono, in un
ovile del Goceano!
Qui fa già molto caldo, ma verso sera, di solito, l'aria si rinfresca: io
passeggio lungo le rive del Tevere, e sto ore ed ore a guardare l'acqua
corrente, rivolgendo a me stesso delle domande perfettamente inutili. Nelle
sere tranquille il gran fiume è tutto latteo, e riflette i lumi, i ponti, la
luna, come un marmo levigato. Io rassomiglio il corso perenne dell'acqua al mio
amore per te; così, continuo, silenzioso, travolgente, inesauribile. Perché,
perché tu non sei qui con me, Margherita mia? Già tutte le cose mi sembrano più
interessanti quando io le guardo pensando a te; ah, come dunque mi parrebbero belle
se potessi vederle riflesse dai tuoi occhi adorati! Ma quando dunque, ma quando
si potrà avverare il sogno tormentoso e delizioso delle anime nostre? In certi
momenti mi pare impossibile che io possa vivere ancora tanto tempo diviso da
te, ed uno spasimo indicibile mi fa tremare il cuore; poi trasalisco di gioia
al pensare che fra due mesi ci rivedremo.
O mia Margherita, mio fiore adorato, io non so esprimerti ciò che sento, e mi
pare che nessuna parola umana potrebbe esprimerlo. È un fuoco continuo che mi
arde e mi divora, è una sete inesprimibile che una sola fontana potrà
estinguere. Io sono così solo nel mondo, Margherita! Tu sei tutto il mio mondo,
e quando io mi smarrisco tra la folla, in un mare di gente sconosciuta, basta
che pensi a te perché l'anima mia vibri d'amore per tutti gli ignoti esseri che
mi circondano, e intorno a me senta vibrare l'anima della moltitudine, come un
mare sonoro.
Quando ricevo le tue lettere, provo una felicità così intensa che mi dà le
vertigini; mi pare d'essere giunto alla cima d'una montagna, e che debba appena
stender la mano per sfiorare le stelle. È troppo... è troppo... ho quasi paura;
paura di precipitare in un abisso, paura di essere incenerito dal contatto
degli astri vicini. Che accadrebbe di me se tu mi venissi a mancare? Ah, tu non
sai, tu non puoi capire che bestemmia pronunzi quando mi scrivi che sei gelosa
delle donne che io posso incontrare qui a Roma. Nessuna donna può essere, può
rappresentare per me ciò che tu sei e rappresenti. Sei la mia vita stessa, sei
il passato, la patria, la razza, il sogno.
* * *
Riprendo la lettera, tutto stordito da una confidenza fattami da zia Varvara pochi minuti or sono. La vecchietta entrò qui con la scusa di portare dell'acqua: era tutta arrabbiata con la padrona e cominciò a parlar male di lei. Mi disse che la Obinu ha un passato tenebroso, che ha abbandonato in Sardegna due suoi figliuoli, e che adesso continua ad avere qualche relazione equivoca...
Egli interruppe di nuovo la lettera, di cui aveva scritto le ultime righe
sotto l'impulso d'un improvviso stordimento.
«Sì», pensò, «io sono troppo vicino alle stelle... e non vedo l'abisso dove
ineluttabilmente devo cadere...» «No, no, no!», disse poi a voce alta,
disperatamente, scuotendo la testa. «Perché mi ostino? Essa può essere
mia madre, e non si rivela a me per continuare a vivere nel vizio!»
Egli singhiozzava senza lagrime, balbettando parole sconnesse e scuotendo
follemente il capo; ma ad un tratto balzò in piedi, pallido, rigido, con gli
occhi vitrei.
«Bisogna uscirne, bisogna che io sappia. Ma perché questa lampada accesa,
perché questi quadretti, perché le continue preghiere? Ebbene, appunto per
ciò. Ma io ti saprò smascherare, anima perduta, io ti ucciderò!»
I suoi occhi balenavano d'odio, ma all'improvviso tremò, si lasciò nuovamente
cadere seduto e batté la fronte sul tavolo: oh, avrebbe voluto spaccarsi la
testa, non pensare più, dimenticare, annullarsi...
Si sentì vile, gli parve d'essere viscido e nero; d'essere carne della carne
venduta di sua madre, anch'egli delinquente, misero, abbietto. Ricordi
tumultuosi gli passarono nella mente; rammentò i generosi propositi tante volte
accarezzati, il sogno di cercarla e di redimerla, la pietà
infinita per l'incoscienza e la irresponsabilità di lei, l'orgoglio che egli
provava nel sentirsi così pietoso, la sete di sacrifizio...
Tutto menzogna. Basta un vago indizio, dato da una vecchia rimbambita, per
ridestargli nell'anima una tempesta di fango, e suggerirgli l'idea del delitto!
Tutto illusione, tutto sogno in «questa cosa strana» che è la vita.
«E se fosse illusione anche ciò che penso adesso? Se io mi ingannassi? Se Maria
non fosse lei? Ebbene, se non Maria è un'altra», concluse disperato;
«vicina o lontana, ella esiste e mi chiama, ed io devo ritornare sui miei
passi, ricominciare, ritrovarla, viva o morta. Oh, fosse morta!».
Attese il ritorno della padrona, e per calmarsi cercò di analizzare la strana
passione che lo tormentava, ripetendo a se stesso che la maggior sua pena
proveniva dal crudele contrasto dei due esseri che formavano lo sdoppiamento
del suo io.
Uno di questi due esseri era un bambino fantastico, appassionato e triste, col
sangue malato; era ancora lo stesso bambino che scendeva la montagna natìa
sognando un mondo misterioso; lo stesso che nella casa del mugnaio aveva per
lunghi anni meditato la fuga senza compierla mai; lo stesso che a Cagliari
aveva pianto credendo che Maria Rosa potesse essere sua madre: l'altro essere,
normale e cosciente, cresciuto accanto al bambino incurabile, vedeva la
inconsistenza dei fantasmi e dei mostri che tormentavano il suo compagno, ma
per quanto combattesse e gridasse non riusciva a liberarlo dalla sua
ossessione, a guarirlo dalla sua follia.
Una lotta continua, un crudele contrasto agitava notte e giorno i due esseri; e
il bambino fantastico e illogico, vittima e tiranno, riusciva sempre vincitore.
Egli voleva sapere, voleva scoprire, voleva raggiungere il suo intento; e
soffriva della vanità della sua ricerca e della speranza di arrivare al suo
scopo. Molte volte Anania si era chiesto se, libero dall'amore per Margherita,
egli avrebbe sofferto egualmente in questa sua triste ricerca. E sempre s'era
risposto di sì.
La Obinu rientrò verso sera.
«Signora Maria», disse Anania, aprendo l'uscio, «venga; devo dirle una cosa».
Ella entrò e si buttò a sedere accanto a lui: ansava per le scale salite di
corsa, era insolitamente rossa, con la fronte lucente di sudore.
«Perché sta al buio? Che cosa ha da dirmi, signor Anania? Si sente male?»
La sua voce era tranquilla: e di nuovo egli sentì cadere i suoi sospetti, e gli
parve ridicolo fare una scena a quella donna stanca che doveva apparecchiare la
tavola per i suoi pensionanti.