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Era vicino il giorno della partenza.
«Zia Varvara», diceva lo studente alla vecchia serva che preparava il caffè,
«come sono felice! Fra pochi giorni... addio! Mi pare di aver le ali. Adesso
salto sulla finestra, faccio zsss... e via, spicco il volo e sono in Sardegna».
«Aaah!», gridò la vecchia, comicamente spaventata. «Non montare sulla finestra,
cuore mio! Bada che caschi...»
«Ebbene, datemi una tazza di caffè, allora! Come è buono il vostro caffè! Solo
mia madre, a Nuoro, riesce a farlo altrettanto buono. Volete venire con me, a
Nuoro?»
La vecchia sospirò: ah, se non ci fosse stato il mare!
«Sei molto ricco?»
«Eh, altro!»
«Quante tanche hai?»
«Sette od otto, non ricordo bene.»
«E alveari ne hai? E servi pastori?»
«Tutto, tutto, zia Varvara, ho tutto!»
«Ma allora perché studi?»
«Perché la mia innamorata vuole ch'io diventi dottore.»
«E chi è la tua innamorata?»
«La figlia del barone di Baronia.»
«Ah, vivono ancora i baroni di Baronia? Io ho sentito narrare che nel loro
castello s'aggirano i fantasmi. Una volta un taglialegna passò la notte sotto
le mura del castello e vide una dama con una lunga coda d'oro che pareva una
cometa. Oh, Nostra Signora mia del Buon Consiglio, tu mi rovini... bada che ti
farà male tutto questo caffè!»
«Raccontate dunque, zia Varvara. Quando il taglialegna vide la dama cosa fece?»
Zia Varvara raccontava. Confondeva le leggende del castello di Burgos con le
leggende del castello di Galtellì, mischiava ricordi storici, diventati oramai
tradizioni popolari, con avvenimenti accaduti durante la sua lontana infanzia.
«E i nuraghes, poi! Quanti tesori nascosti! Sai, quando i mori venivano
in Sardegna per rapire le donne e gli armenti, i Sardi nascondevano le monete
nei nuraghes.»
Anania pensava a suo padre, che anche ultimamente gli aveva scritto pregandolo
di visitare i musei «dove si conservano le antiche monete d'oro».
«Una volta», ricominciava zia Varvara, «io andai a cogliere spighe intorno ad
un nuraghe; mi ricordo come fosse oggi. Avevo la febbre, e verso sera
dovetti coricarmi fra le stoppie, aspettando che passasse qualche carro che mi
conducesse in paese. Ed ecco cosa vedo. Il cielo, dietro il nuraghe, era
tutto color di fuoco: pareva un drappo di scarlatto; ad un tratto un gigante
sorse sul patiu22 e cominciò a cacciar fumo dalla bocca. In breve tutto
il cielo si oscurò. Che paura, Nostra Signora mia del Buon Consiglio! Ma ad un
tratto vidi San Giorgio con in testa la luna piena, ed in mano una leppa
lucente come l'acqua. Tiffeti, taffati!», concluse la vecchia, roteando
un coltello da cucina. «San Giorgio tagliò la testa al gigante, e il cielo
ritornò sereno.»
«Era la febbre.»
«Ebbene, sarà stata la febbre, ma io vidi il gigante e Santu Jorgj: sì, li vidi
con questi occhi.»
Anania ascoltava con piacere i suggestivi racconti di zia Varvara. Sentiva,
nelle parole nostalgiche della vecchia esiliata, l'aroma della terra natìa, il
soffio carico delle essenze selvagge dell'Orthobene e del Gennargentu.
«Ah, come mi divertirò, queste vacanze!», diceva alla vecchia. «Voglio recarmi
a tutte le feste, voglio visitare il mio paesello natìo: voglio salire sul
Gennargentu, su Monte Rasu, sui monti di Orgosolo.»
«E lei non viene più in Sardegna?», chiese una sera a Maria Obinu.
«Io?», ella rispose, un po' cupa. «Mai più!»
«Perché? Venga qui alla finestra, signora Maria, guardi che bella luna! Ebbene,
non le piacerebbe fare un pellegrinaggio alla Madonna di Gonare, così, con una
luna splendida? Salire a cavallo piano piano, pei boschi, pei dirupi, avanti,
sempre avanti, mentre la chiesetta si disegna sul cielo, in alto, in alto, in alto!...»
Maria scuoteva la testa con indifferenza; zia Varvara, al contrario, sussultava
tutta e sollevava gli occhi, quasi per cercare con lo sguardo la chiesetta
campeggiata sull'azzurro tenero del cielo lunare, in alto, in alto, in alto!...
«Salvo lei e le persone che le vogliono bene...», maledì Maria, «e salvo le
chiese e i devoti di Maria Santissima!... ma il fuoco passi per la Sardegna
prima che io ci ritorni».
Anania interrogava spesso zia Varvara sul passato di Maria, e sul perché
dell'odio di questa per il paese natìo.
«Ah, cuoricino mio, ella ha ben ragione! Laggiù l'hanno assassinata...»
«Ma se è ancora viva, zia Varvara!»
«Ah, tu non sai! È meglio
assassinare una donna che tradirla...»
Egli pensava a sua madre, e il dubbio, la chimera e il sogno lo riafferravano
tutto.
«Zia Varvara, voi avete detto che ella è stata tradita da un signore... Ditemi,
dunque, come si chiama quel signore... cercate di saperlo... Ditemi, ha delle
carte la signora Maria? Io potrei aiutarla, cercare il suo seduttore.»
«Perché?»
«Perché la aiuti...»
«Ma essa non ha bisogno d'aiuto: ha dei soldi, sai! Lasciala in pace,
piuttosto, perché ella non vuole che si ricordi la sua sventura. Non una
parola, sai! Mi strangolerebbe se sapesse che io parlo di lei con te...»
«E dei suoi figli non si sa niente?»
«Ma pare sia una figlia, solo. Credo stia coi parenti di lei. Maria manda
spesso denari, in Sardegna.»
Ma Anania non abbandonava l'idea che Maria e Olì potessero formare la stessa
persona.
«Eppure bisogna sapere», pensava, camminando distratto per le vie animate da
una folla sempre più scarsa. «Se non è lei perché mi tormento? Ma dove, dove è
lei? Che fa? È vicina o lontana? Al fragore della città, a questo rombo che mi
sembra la voce di un mostro dalle mille e più mila teste, è mescolato il
respiro, il gemito, il riso di lei? E se non qui, dove?»
Una notte egli ebbe un po' di febbre, e nell'incubo gli parve di vedere più
volte la figura di Maria curva sul suo guanciale. Era delirio o realtà? Il
chiarore della lampada rischiarava la camera. Egli vedeva altre figure
fantastiche, ma pensava «ho la febbre» e solo la figura di Maria Obinu gli
sembrava reale.
Visioni apocalittiche sorgevano, s'incalzavano, si mescolavano, sparivano, come
nuvole mostruose, intorno a lui. Fra le altre cose egli vedeva il nuraghe
col gigante ed il San Giorgio del sogno febbrile di zia Varvara; ma la luna si
staccava dalla figura del Santo e volava sul cielo; altre due lune, rosse e
immense, la seguivano. Era imminente un cataclisma. Una folla enorme si pigiava
su una spiaggia di mare in tempesta. Le onde erano cavalli marini che lottavano
contro spiriti invisibili. Ad un tratto un urlo salì dal mare, Anania sussultò
d'orrore, aprì gli occhi e gli parve di averli azzurri.
«Che stupidaggini!», pensò. «Ho la febbre.»
Maria Obinu riapparve nella camera, si avanzò, silenziosa, si curvò sul
lettuccio. Allora Anania cominciò a delirare.
«Ti ricordi, mamma, tu mi insegnavi la piccola poesia:
Perché non vuoi dirmi che sei la mia mamma, tu? Dimmelo dunque; tanto io lo
so, che tu sei la mia mamma, ma devi dirmelo anche tu. Ricordi l'amuleto?
Possibile che tu non ricordi quella mattina, quando scendevamo... e il
fringuello cantava fra i castagni umidi e le nuvole volavano via dietro il
monte Gonare? Ma sì che ti ricordi! dimmelo dunque... non aver paura... Io ti
voglio bene, vivremo assieme. Rispondi.»
La donna taceva. Il sofferente fu assalito da un vero spasimo di tenerezza e
d'angoscia.
«Madre... madre, parla; non farmi soffrire oltre: sono stanco ormai. Se tu
sapessi che pena! Tu sei Olì, non è vero? E inutile che tu dica il contrario;
tu sei Olì. Che cosa hai fatto sinora? Dove sono le tue carte? Ebbene, non
parliamo del passato; tutto è finito. Ora non ci lasceremo più... ma tu vai
via? No, no, Dio, aspetta... non andartene...»
E si sollevò sul letto, con gli occhi spalancati, mentre la figura si
allontanava lentamente e scompariva...
Soltanto pochi minuti prima di partire prese la solenne decisione di
lasciare in sospeso, fino al ritorno, tutte le ricerche e tutti i vani
progetti. Si sentiva stanco, disfatto; il caldo, gli esami, la febbre, le
fantasticherie lo avevano esaurito.
«Mi riposerò», pensava, preparando rapidamente la valigia e ricordando i lunghi
preparativi della sua prima partenza da Nuoro. «Ah, quanto vorrò dormire queste
vacanze! Non voglio diventare nevrastenico. Salirò sulle montagne natìe, sul
Gennargentu vergine selvaggio. Da quanto tempo sogno quest'ascensione! Visiterò
la vedova del bandito, il fraticello Zuanne, il figlio del fabbricante di ceri.
E il cortile del convento?... E quel carabiniere che cantava A te questo
rosario?»
Il pensiero poi di riveder fra poco Margherita, di immergersi tutto nel fresco
amore di lei come in un bagno profumato, gli dava una felicità così intensa che
lo faceva spasimare.
Pochi momenti prima della partenza zia Varvara gli consegnò un piccolo cero,
perché lo offrisse per lei alla Basilica dei Martiri, a Fonni, e Maria gli
diede una medaglia benedetta dal pontefice.
«Se lei non la vuole, miscredente, la porti alla sua mamma», gli disse,
sorridendo, un po' commossa. «Addio, dunque, e buon viaggio e buon ritorno. Si
ricordi che la camera resta a sua disposizione. E faccia da bravo, e mi scriva
subito una cartolina.»
«Arrivederci!», egli gridò dal basso della scala, mentre Maria, curva sulla
ringhiera, lo salutava ancora con la mano.
«Figlio del cuoricino mio», disse zia Varvara, accompagnandolo fino alla porta,
«saluta per me la prima persona che incontri in terra sarda. E buon viaggio e
ricordati del cero.»
Lo baciò lievemente sulla guancia, piangendo, ed egli fu tentato di risalire le
scale per vedere se anche Maria Obinu piangeva: poi sorrise della sua idea,
abbracciò zia Varvara, chiedendole scusa se qualche volta l'aveva fatta
stizzire, e si allontanò.
Tutto sparve; la vecchia che piangeva il suo esilio dalla patria diletta, la
strada melanconica, la piazza in quell'ora deserta e ardente, il Pantheon
triste come una tomba ciclopica; e Anania, col viso accarezzato dal vento di
ponente, provò un senso di sollievo, come svegliandosi da un incubo.