Grazia Deledda: Raccolta di opere
Grazia Deledda
La fuga in Egitto
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Lui e gli altri due stettero quindi un bel poco a guardare: anche Birba, il cane, che però sembrava lento a capire il significato della tela e vi si aggirava intorno, innocentemente abbaiando contro il gallo come avesse timore di vederlo balzare vivo dalla cima del pennello, e contro il pennello stesso; finchè il sopraggiungere di un altro piccolo cane lo distrasse; entrambi si corsero incontro, si aggirarono l'uno intorno all'altro fiutandosi, poi si saltarono scambievolmente addosso e cominciarono a rotolarsi morsicchiandosi sul tappeto dell'erba, in una lotta molle e giocosa, allegri come bambini da lungo tempo amici.

– Gli uomini invece, – disse il maestro tentando di attaccare discorso col pittore, – quando s'incontrano per la prima volta si considerano come nemici.

Il pittore, infatti, sollevò gli occhi turchini indifferenti, seccato per l'insistente curiosità del forestiero, e respinse la bambina che si accostava troppo alla tela. Allora lei tentò di mischiarsi al gioco dei cani, ma il nonno la condusse via un po' a forza, e anche Birba, sebbene chiamato e richiamato, non abbandonò il nuovo amico finchè questo non si decise a seguirlo.

La spiaggia era completamente deserta. Ola cercava di tirare il nonno a sinistra, verso la palizzata del molo che appariva come un ponte fra la terra e il mare, con su figure nere di persone stampate sullo sfondo turchino; ma il nonno era attirato dal grande silenzio e dalla vasta solitudine a destra dove la linea delle sabbie finisce in uno svaporare azzurro e pare si perda nella lontana montagna dell'orizzonte.

Laggiù è il tuo paese? – domandò Ola; ed egli quasi trasalì e strinse nella sua la dolce manina calda di lei; poichè ella era penetrata proprio nel suo pensiero.

– No, quello non è il mio paese; il mio paese è più giù, e io adesso ci pensavo appunto.

C'è il mare, al tuo paese?

– Oh, no. Ci sono le montagne, che sono, vedi, come queste trincee che i soldati hanno fatto con la sabbia, ma molto più grandi, alte, coperte di alberi e di cespugli.

C'è il gatto mammone? – lei domandò messa un po' in terrore da tutta quella grandezza sconosciuta.

– Ma no, bella: il gatto mammone non esiste.

Lei si ribella: no, il suo patrimonio di sensazioni forti non dev'essere defraudato: si ferma, s'impunta.

– No, sai, il gatto mammone proprio esiste: l'ho sentito io, di notte, quando tutto era chiuso. Gnauhh! Gnauhh!

E anche un lieve morso alla mano del nonno per avvalorare la sua imitazione.

Brava, brava, – dice lui fingendosi impaurito e lasciandole la manina per soffiarsi sulla sua. – Va via, gatto mammone.

Il riso di lei parve ancora una volta più iridescente del mare e dei prati in fiore: ed egli ebbe quasi paura di quel momento di felicità, sebbene si volgesse in per non farsi vedere a ridere anche lui.

Giochiamo ancora, – propose lei riafferrandogli la mano.

E giocarono come i due cani sulla spiaggia, come i pesciolini nel mare, come le piccole farfalle color lilla che sfioravano le onde.

Finchè lui, poichè Ola si prendeva troppa confidenza e gli morsicava davvero la mano, non si sollevò austero.

– Un bel gioco dura poco; e se molto dura diventa seccatura.

Poi andarono a vedere il ritorno delle paranze dalla pesca. Tornavano a due a due, come coppie di sposi dopo una felice passeggiata: a misura che approdavano, rientrando nel canale con lentezza dignitosa, uno dei loro pescatori si arrampicava come una scimmia sul parapetto del ponte, e di s'afferrava all'orlo della banchina che scavalcava d'un salto: un compagno gli lanciava la gomena ch'egli annodava agli anelli di ferro infissi fra le pietre del molo; e la barca così legata come una grande placida bestia alata si dondolava alquanto prima di fermarsi immobile sull'acqua che la rifletteva nitidamente.

Una dopo l'altra tutte furono schierate lungo il molo, con le vele fiammeggianti in aria e dentro l'acqua tutte dipinte e alcune come tatuate per i molti rattoppi che ne frastagliavano i disegni: e intorno si diffuse un'aria di festa come se passasse una processione con stendardi dorati e luccichìo di argenti.

Ola infatti faceva notare al nonno le decorazioni di metallo e gl'intagli di alcune barche nuove: striscie turchine, placche argentate e persino vasi di fiori spiccavano fra il nero di pece del legno; ma quello che a lei più piaceva era un grifo tutto d'oro, con gli occhi rossi, che si sporgeva da una prua e scintillava come un idolo al sole. Ella fece vedere al nonno anche le barche del padre, ma non molto orgogliosa di loro. Erano quattro, piuttosto piccole e antiche, sebbene rimesse a nuovo, laccate di bianco: con le vele bianche sarebbero parse due coppie di colombi, tanto si tenevano strette e unite e si baciavano a vicenda: i loro nomi però, San Giorgio e Nicoletta, Gabbiano e Maria Margherita non s'accordavano che nel colore turchino delle grandi lettere tutte contornate di ghirigori.

Le loro vele, poi, erano semplici, tutte di un colore acceso di zafferano, nuove fiammanti, e denotavano il carattere caldo e ardimentoso del nuovo padrone.

Nel loro interno, come nelle altre barche, i pescatori scalzi e silenziosi, coi larghi piedi di palmipedi umidi di acqua marina e la pelle bruciata dalla salsedine, facevano la cernita del pesce con una rapidità fantastica: in pochi momenti le ceste nere furono colme di larghe sogliole grigie e oleose, di cefali argentei e di triglie grassoccie color carne rosata: i gamberi rossi che ancora agitavano le tenaglie dentate delle loro zampe furono messi da parte con disprezzo, assieme coi mucchi dei pesciolini di scarto nudi e scivolosi come vermi.

Poi le ceste furono caricate sui carretti a mano, spinti dai pescatori che parevano balzati dal mare dopo averne raccolto i pesci come i contadini raccolgono i frutti della terra.

Ola, il nonno e il cane li seguivano. Qua e sulle pietre luccicanti del molo giaceva qualche pesciolino morto, perduto dalle ceste; il maestro cercava di non metterci su il piede, per un senso di pietà quale i grossi pesci della pesca non gli avevano destato; e Ola, quasi indovinasse di nuovo i pensieri di lui, si piegava, con due ditina prendeva i pesciolini e li buttava nel mare: e l'acqua apriva e chiudeva come una piccola bocca per ingoiarli.

Torneranno vivi, nonno? No, vero? Quando si è morti non si torna più vivi.

Egli trasalì ancora, nel suo cuore; perchè d'un tratto un ricordo sinistro attraversò la grande luce di quella sua felicità oceanica.

Senza volerlo, intanto, si lasciava condurre da Ola; e Ola andava dietro i pescatori, sicura del fatto suo. Li conosceva tutti e tutti la conoscevano; anche dei cagnolini e dei gatti delle barche sapeva i nomi, e salutava tutti con vaghi sorrisi e cenni della testa.

Così costrinse il nonno a fermarsi a guardare un pescatore alla lenza, sapendo di offrirgli uno spettacolo interessante. L'uomo, vestito civilmente, sedeva sull'orlo della banchina con in mano una canna dalla quale pendeva il filo che andava a immergersi nell'acqua; stava immobile, a capo chino, e pareva pregasse. «Signore, Dio mio, mandatemi su un bel pesciolone, che io possa portarlo a casa e farlo friggere e mangiarlo in famiglia, amen

Altri bambini guardavano, silenziosi, e nel viso di tutti c'era come l'attesa di un grande avvenimento.

Anche il nonno si lasciò prendere dalla curiosità, quasi dall'ansia comune: e pensò che quell'occupazione era buona forse anche per lui.

Un brivido scosse l'onda intorno al filo e questo si immerse meglio, di sua iniziativa, nel buco dell'acqua: l'uomo sollevò subito la canna e la bocca dei bambini si aprì come per ricevervi il pesce già bell'e cotto: poi un sorriso di delusione e anche di beffa per il pescatore passò sul viso di tutti: poichè in cima al filo si dondolava solo, appiccato all'amo, brillante come un pendaglio d'orecchino, il piccolo pesce d'esca, morto e triste.

Il pescatore però non si sgomenta, non partecipa all'ansia comune; come non usa far parte della sua pesca a nessuno, così non lascia vedere le sue delusioni e le sue sempre rinnovate speranze.

Con lentezza immerge di nuovo l'esca nella profondità molle dell'acqua, di nuovo si piega e aspetta.

Ola, andiamo, – dice il nonno, stringendo e scuotendo la mano della bambina; ma lei ha le sue buone ragioni per non muoversi, e lo prega di aspettare.

Infatti il pescatore tira su la canna, con sveltezza sorprendente, e ancora prima che gli astanti si rendano conto di quello che succede, un bel pesce quasi azzurro guizza disperatamente dentro il cestino dove s'è volta la lenza.

E adesso l'uomo respinge i ragazzi che strillano di gioia come se il pesce appartenga a loro, e sorride fra ironico e compiacente.

Ride bene chi ride l'ultimo.

Però cessa di sorridere quando il nonno, dopo essersi piegato ad ascoltare all'orecchio un consiglio di Ola, gli domanda se il pesce è da vendere.

È da vendere, sì; poichè per portarli a casa il pescatore spera di prenderne altri: si contratta, dunque, mentre la vittima continua dentro il cestino la sua danza scintillante e disperata, e i suoi grandi occhi cerchiati di corallo si appannano come quelli di un annegato. Poi piano piano i suoi salti diventano più lenti e brevi; il corpo attorcigliato si distende, cala in fondo al cestino e vi si adagia di traverso, infine, dopo un ultimo guizzo, ricade e giace inerte, col ventre che impallidisce e le pinne che si ripiegano come piccoli ventagli.

– È morto, – annunziano i bambini. Il pescatore lo avvolge nel lenzuolo funebre di un giornale e lo porge al compratore. E così se ne vanno, il nonno e la bambina, lungo il molo pieno di sole: li segue il cane, che ha assistito a tutta la scena senza però interessarsene troppo perchè a lui il pesce non piace crudo cotto.

La palizzata del molo finiva nella strada che costeggia il canale, e questa d'un tratto si allargava in uno spiazzo circondato d'alberi e ingombro di legnami. Era il cantiere dei marinai e assieme la piazza del mercato del pesce.

Ola tirò il nonno laggiù, e d'improvviso gli scappò di mano per correre verso un gruppo di uomini e donne fermo davanti alle ceste del pesce. Il padre era in mezzo, col cappello sollevato sulla fronte e la cravatta, smagliante come una farfalla estiva, bene in mostra sulla camicia azzurra; ed ella gli si attaccò ridendo alle gambe.

Egli si volse; vide il maestro e lo salutò con la mano, ma parve contrariato della sua presenza: forse pensava che non era quello il momento di presentarlo ai suoi conoscenti: del resto questi non dimostravano alcun interesse per lo straniero, egli aveva desiderio di fare amicizia con nessuno. La compagnia l'aveva bell'e trovata, lui; e quando Ola, respinta dolcemente dal padre, gli tornò accanto, le riprese la manina come una cosa che gli apparteneva esclusivamente, deciso a non lasciarsela sfuggire più.

Così, un po' a distanza, quasi cercando di nascondersi per non dare noia ad Antonio, assistettero alla vendita del pesce. La quale veniva fatta in un modo originale, colorito di mistero, che spiegava l'attenzione quasi tragica, i visi duri e gli occhi pieni d'egoismo degli interessati.

Da prima fu messa all'asta una bella cesta di triglie che rosseggiava come piena di umidi fiori. Un uomo grande, grosso, con una larga giacchetta nera che gli strapiombava da tutte le parti, personaggio principale del gruppo pittoresco, gridò alcune parole in dialetto, invitando i compratori a fare l'offerta. Allora uno per uno, uomini e donne, gli si fecero appresso, e sollevandosi sulla punta dei piedi, poichè lui non si piegava a destra a manca, gli susurravano all'orecchio la somma che intendevano offrire.

Egli ascoltava impassibile, col viso ridanciano illuminato dal sole: non doveva essere soddisfatto, però, perchè ripetè il grido e ricevette di nuovo le offerte segrete: e pareva confessasse tutte quelle persone serie che non scambiavano fra di loro una parola, impegnate in una gara dalla quale sembrava dipendesse il loro destino.

Finalmente la cesta delle triglie fu aggiudicata a una donnona scarmigliata che puzzava di pesce guasto; la sola che riusciva a parlare con comodo all'orecchio del banditore e pareva si misurasse con lui; ed ella si fece largo con le palme delle mani oleose come i pesci, sollevò la cesta sorridendo alle triglie, la depose sul suo carretto a mano e se ne andò senza curarsi d'altro.

Ola premette la mano al nonno ed anche loro se ne andarono, nella scia di odore di mare che lasciava dietro di la grossa pescivendola; così percorsero tutta la strada lungo il canale, dopo la cui striscia, colorata dalle vele delle barche e dal loro riflesso nell'acqua verde, sorgeva la nuvola grigia e luminosa d'una landa di tamerici, e nelle lontananze i pini rendevano più chiaro l'azzurro del cielo: poi, svoltando, quella che si immergeva stretta dritta e lucida come una spada nel cuore del paese.

E questo cuore, una piccola piazza selciata di sassolini di spiaggia, con a destra la chiesa e a sinistra l'antico palazzo nero del Comune, in mezzo una fontana senz'acqua e sopra un quadrato di cielo simmetrico e intenso come un soffitto turchino, palpitava tutto per il suono delle campane e il brusìo della folla nel mercato centrale.

Le vetrine ben fornite dei negozi di stoffe e di commestibili davano l'impressione di trovarsi in una città: tanto che il nonno si sarebbe trovato un po' sperduto senza la guida sicura di Ola.

Da prima ella lo attirò nell'angolo più vicino della piazza, davanti alla vetrina da lei preferita, popolata come quella di un museo di oggetti preziosi e interessanti: bambole vestite, amorini porta-fortuna nudi e alati, braccialetti e ninnoli di lacca: egli però fece lo gnorri, poichè un caposaldo della sua pedagogia di antico insegnante era di non coltivare nei bambini l'amore per le cose inutili.

– La bambola che ti ho portato io, – disse per confortarla, è mille volte più bella di queste, e in pari tempo è anche un porta-fortuna; – e per maggiore consolazione fu poi lui a fermarsi davanti ad un'altra vetrina; – qui almeno c'è roba utile: guarda guarda che belle torte con un rubino di ciliegia in mezzo: guarda che bei biscottini ancora caldi come le tue ditina; guarda che belle paste alla crema che pare aprano le labbra per lasciarla vedere e dicano: mangiateci, mangiateci, mangiateci. Vogliamo portarne un po' alla mamma?

Entrarono nella pasticceria tutta odorosa di zucchero, e il primo pasticcino sopra la piramide composta sul vassoio del banco fu staccato come una bella rosa thea dalla cima della pianta, e offerto ad Ola: e lei lo prese senza avidità, ma con premura, e lo guardò intorno intorno; intorno intorno lo tastò con un dito, poi con la lingua, cercando il punto dove meglio assalirlo, e trovatolo vi ficcò i dentini con una mossa feroce, smorzando però a poco a poco l'assalto finchè arrivata all'ultimo pezzetto se lo tolse di bocca, lo riguardò ancora, lo sminuzzò e finì di mangiarlo briciola a briciola; l'ultima le cadde per terra e lei la raccolse.

– E così è della vita, – pensò il maestro, che la teneva d'occhio mentre il pasticciere, con aria melanconica e nauseata, preparava sul vassoio di cartone i dolci da portare a casa.

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