Grazia Deledda: Raccolta di opere
Grazia Deledda
La fuga in Egitto
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L'invito, improvviso, non lo sgomentò: fra le altre cose la vecchia gli aveva venduto un intero prosciutto di montagna, farina, conserve e formaggio: per non sfigurare occorrevano la buona volontà e la competenza, e se questa faceva difetto la prima sovrabbondava.

Egli mise dunque l'acqua a bollire e intanto tirò giù il prosciutto che, al riparo dei topi, pendeva come una lampada attaccato a una corda in mezzo alla stanza: lo depose sulla tavola, lo guardò, lo girò e rigirò in cerca del punto buono da attaccare. Gli parve buono il fianco destro, ma subito si accorse ch'era troppo magro, e a lui occorreva il grasso per varie ragioni: quindi tentò la parte opposta e infatti dopo la prima scorza ruvida di sale apparvero il bianco e il rosso del lardo e della carne.

Il coltello però è pigro, non vuol tagliare sottile, ed egli lo affila con un altro coltello piccolo: le due lame lampeggiano e stridono in duello selvaggio, ma con slanci di gioia. Ed ecco il coltello grande, ardente della sua vittoria, s'introduce di nuovo, con silenziosa ferocia, nel paziente prosciutto: e adesso le fette si staccano diafane e larghe. Il maestro le guarda contro luce, come lembi di stoffa preziosa: il grasso gli sembra velluto bianco, il magro damasco color mogano.

Disposta una grande rosa di queste fette su un vassoio rotondo, egli tagliò ancora dalla parte del grasso, e su queste disgraziate fette, gettate alla rinfusa sull'asse per il battuto, il coltello infierì rumorosamente fino a ridurle in poltiglia. La pentola già calda fu scostata sull'orlo del fornello, per dar posto alla padellina nera con dentro il lardo battuto, al quale erano dati per compagni di consolazione pezzetti di burro, di cipolla e d'aglio: e tutto cominciò a friggere, a lamentarsi, prima piano, poi forte, finchè la conserva del pomodoro non vi mischiò il suo sangue denso e parve mutare il dolore in gioia.

Rimessa l'acqua a bollire, il maestro tirò giù l'asse grande per la pasta, pulita e quasi vergine nella sua nudità di legno bianco; e ricordando i gesti delle donne quando eseguiscono questa faccenda, vi versò una piccola montagna di farina in mezzo alla quale fece col dito un buco come il cratere di un vulcano. Un vulcano parve davvero, la piccola montagna, quando egli versò nel buco l'acqua bollente: si sollevò il fumo, il cumulo franò, ed egli vi immerse le mani come a volerlo sostenere e ricostruire.

La farina però scappava da tutte le parti, e quella già intrisa d'acqua gli si appiccicava alle dita, dispettosa e vendicativa. In breve le sue mani parvero coperte di guanti di lana bianca, e la farina che disperata sfuggiva anche dall'asse gli si versò sul davanti del vestito.

Fu un momento difficile: egli si guardava desolato la giacchetta, senza osare di toccarsi con quelle sue dita mostruose; poi ricordò che di nulla oramai aveva più paura nella vita, e piano piano con una mano liberò l'altra dall'involucro della pasta; con tutte e due raccolse nel centro dell'asse l'esercito sbandato della farina, versò altra acqua e le sue dita strinsero fieramente e costrinsero alla compattezza la materia ribelle.

E a furia di sospiri e di forza, e di dolore della palma della mano destra, la pasta dura e legnosa fu ridotta elastica: tirata e ripiegata, arrotolata e distesa di nuovo, a poco a poco si abbandonò, divenne calda e infine rotonda e morbida come un seno di donna.

Allora egli riprese il coltello piccolo e raschiò l'asse dalla patina che vi era rimasta; tagliò una fetta della pasta e arrotolandola e tirandola la ridusse a una lunga biscia bianca che il coltello si affrettò a tagliare in piccoli pezzi come si trattasse davvero di una bestia pericolosa. Poi i piccoli pezzi scavati con l'indice come lunghe conchiglie formarono gli gnocchi: e il loro esercito ben schierato sull'asse e ricoperto dalla tenda di una salvietta aspettò che la pentola bollisse.

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