Grazia Deledda: Raccolta di opere
Grazia Deledda
La fuga in Egitto
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– Sto già a letto perchè mi sento poco bene, – disse il maestro per scusarsi. – Ornella, qui una sedia.

Il giovine si volse per vedere questa Ornella, e arrossì nel sentirsela quasi addosso, bella e gigantesca.

– È sua moglie? – domandò stupidamente; e spalancò gli occhi perchè lei rideva: quel riso sguaiato e compiacente col quale un tempo ella usava accogliere i complimenti e le insolenze maschili.

– È la mia dama di compagnia, – disse il maestro, preso anche lui da una insolita e maliziosa gaiezza. – Sedete.

Il giovine sedette, deponendo per terra lo zaino e il berretto, senza smettere di fissare Ornella che s'appoggiava al dappiede del lettuccio quasi per difendere il suo padrone da ogni possibile pericolo.

Ma la presenza di lei dava fastidio al maestro.

Prepara una tazza di vino caldo, – le disse, poi si rivolse al giovine. – O avete bisogno di mangiare? Senza complimenti.

Grazie, grazie, non voglio nulla. Sono venuto solo per vedere la casa. Ho finalmente un passaporto e voglio andarmene lontano, nei paesi più sconosciuti del mondo: così mi parrà di essere un risuscitato. E può darsi che faccia anche fortuna.

– Può darsi, – ammise il maestro; – ma non sarebbe meglio, anche nell'interesse del vostro fratello, di costituirvi?

Costituirmi? E perchè? Per essere condannato all'ergastolo? E a mio fratello che gioverebbe? Potrò aiutarlo in altro modo, e meglio, col rimanere in libertà. – E aggiunse con amarezza: – se può chiamarsi libertà il vivere in paesi lontani, fra gente sconosciuta, senza amici parenti conoscenti. Sarà libero il corpo, ma l'anima sarà eternamente prigioniera in questo mondo e nell'altro.

– E allora perchè andare?

– E allora perchè vivere? Si va, si va, spinti dalla sorte, come la sabbia dal vento. Quando stavo qui, cento anni fa mi pare, suonavo l'ocarina, e fra le altre un'arietta i cui versi dicevano appunto:

Come la sabbia dal vento,
ci spinge il destino così....

E per dar corpo alle sue parole si mise a fischiare l'arietta.

Ornella, che preparava il vino caldo, si volse a guardarlo. Avrebbe voluto ridere ancora, ma di nuovo la voce dello strano individuo le incantava il cuore. Pareva che tutto quello che egli diceva fosse una canzone. Anche il maestro cominciava a interessarsi e incuriosirsi, sebbene gli occhi del giovine, con la grande pupilla fissa e l'iride opaca circondata di troppo bianco, rivelassero la demenza. E ricordava le parole di Proto: la pazzia essere la ragione di molti delitti.

Dove siete stato in tutto questo tempo?

– Non lo so neppure io: ho tutta una confusione in mente. Dapprima sono stato giù, verso le Isole Rosse, in una specie di grotta marina che pochi conoscono. Per tre giorni e tre notti non ho preso cibo: i pipistrelli mi svolazzavano intorno nel buio come mosche; e io ne avevo tanta paura, finchè per la rabbia non ne chiappai uno e lo sentii molle e caldo nella mia mano come un topolino spaurito. Allora feci amicizia con loro: mi parevano i miei stessi pensieri, neri, affannati, senza sonno.

– Avete studiato? – interruppe il maestro, sorpreso anche lui delle immagini letterarie del giovine.

– E come no? Questo è stato il nostro guaio, mio e di mio fratello: abbiamo studiato fino alla quinta ginnasiale: facevamo le stesse scuole, sebbene lui sia maggiore di me di due anni: dopo si dovette troncare. La mamma, che ci sosteneva, era morta: lui, mio padre, dopo questa disgrazia divenne bisbetico, avaro e dispettoso. Ci costrinse a lavorare la terra. Mio fratello scappò di casa, ma poi tornò: e qui cominciarono le liti, le botte di mio padre contro di lui. Una mattina lo bastonò mentre dormiva: l'urlo e il pianto del suo risveglio li ho sempre dentro la testa, dentro il sangue. Perchè, perchè, Signore, permetti questi orrori?

Si strinse la testa fra le mani e chiuse gli occhi, come ascoltando ancora i lamenti selvaggi del fratello: poi lasciò cadere le braccia e piegò la testa sul petto.

– Tante volte, – riprese come parlando fra di , – io vengo a discorsi con Dio, e chiedo a lui ragione del misfatto. Io ero buono: ero incapace di far male a un insetto: lasciavo che le formiche rovinassero il seminato piuttosto che distruggerle, perchè ero e sono convinto che anche gli animali hanno un'anima e il diritto alla vita; altrimenti come si spiegherebbe Dio e la creazione del mondo? Ma questo Dio, questo Dio che ci ha creato tutti per farci soffrire? Che ci fa continuamente soverchiare dal male?

Dio è in noi: e sta in noi vincere il male, – disse il maestro.

Il giovine sollevò gli occhi, pur tenendo bassa la testa, e il bianco della sclerotica brillò come di porcellana.

Parole! – esclamò. – È facile pronunziarle ma difficile metterle in pratica. Anch'io pensavo così, da ragazzo, quando andavo a scuola e leggevo le belle Antologie fiorite. Poi dopo invece....

– Si è sempre in tempo a vincere il demonio. E Dio forse predilige gli uomini che una volta tanto si sono lasciati soverchiare dal male, se permette loro di sollevarsi più in alto degli altri e vivere per la sola ricerca del bene. Voi stesso non vi sentite tale?

– È vero; e appunto per questo non voglio andare in carcere. Voglio vivere, lavorare, fare del bene. Ma la disperazione troppo spesso mi vince: sono solo e maledetto: non avrò più amore, non avrò più nessuno con me. Anche se incontrassi una donna che mi volesse bene non potrei possederla perchè lo spirito di mio padre starebbe fra me e lei, e il figlio mio sconterebbe il mio delitto.

Ubbie, figliuolo mio, – disse il maestro con accento di pietà. – Finchè voi penserete così sarete forse soggetto allo spirito del male, ed è questo, non l'ombra del padre vostro, a oscurarvi l'anima. Laggiù, dove contate di andare, e dove vi auguro di arrivare presto e bene, nessuno sa del vostro passato: cancellatelo pure voi dal vostro cuore e tutto rinascerà.

– No, no, invece! Io voglio ricordare e nutrirmi del mio dolore. E se incontrerò una donna che vorrà dividere la mia sorte le dirò chi sono, che mi prenda come sono, come io prenderei lei anche se disgraziata più di me. Ma lasciamo l'avvenire. Io intanto dovrò lavorare anche per mio fratello. Fosse rimasto libero anche lui! Assieme ci sarebbe parso di essere ancora felici, di poter ridare ancora la vita al nostro padre. A volte tutto mi sembra un sogno, e cerco di svegliarmi e non posso. Anche adesso mi pare di sognare. Quello è il muro della nostra casa: di tutto è ancora come prima: ancora la mamma lavora per noi; mio fratello fa il suo compito di latino, ed io suono l'ocarina. Sente? Sente?

Si sentiva solo il fruscìo del vento, sopra il tetto; ma pareva davvero che gli spiriti famigliari si fossero dato convegno nella notte intorno alla casa del loro antico amore.

Ornella, con la tazza del vino caldo fra le mani, ascoltava smarrita; la sua ombra enorme riempiva la parete e pareva volesse sfondare con la testa il soffitto per vedere di fuori gli spiriti mormoranti.

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