Grazia Deledda: Raccolta di opere
Grazia Deledda
Anime oneste
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ANIME ONESTE.

LE NOZZE

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LE NOZZE

 

Passati i gai e tiepidi giorni di ottobre e terminate le vendemmie, mentre tutta la casa era ancora impregnata dell'odore caldo del mosto e delle ultime frutta serbate nelle dispense, — tutti partirono.

Partì Cesario, partì Gonario, partì Pietro Demeda. Con Pietro partì anche Paolo Velèna che andava in continente per affari.

Da ogni stazione Pietro spediva un telegramma per calmare la nervosità di Angela, che per poco non era svenuta dando l'addio al fidanzato.

Ma arrivato Paolo a Livorno e Pietro installatosi nel nuovo ufficio, — in una piccola città dell'Alta Italia, — Angela si calmò alquanto e in casa Velèna si riprese apparentemente l'antica esistenza tranquilla.

Nennele e Antonino tornarono a scuola. I pensieri di Maria Fara e di Angela volavano lontano.....

Maria preparava le ultime conserve e le frutta per l'inverno. Sotto la tettoia del cortile bolliva ancora una caldaia di sapa e seccava l'uva passa; nell'orto, su larghe tavole, rosseggiavano al tenue sole gli ultimi pomidoro salati. Caterina aiutava la mamma. Seccava, per conto suo, delle frutta, e s'incaricava di piegare i pomidoro, mettendoci in mezzo una foglia di basilico che li profumava.

I fichi, fatti seccare dal guardiano della vigna, eran già riposti, infilati come rosari, entro cestini di palma, ben foderati di carta. Raccolte pure le noci, appese le pere e le mele, e l'uva messa su strati di fieno, — tutto fu in ordine. Quando la sapa fu ben raffinata venne raccolta in vasi di terra e dentro Maria ci mise mele cotogne, buccie d'arancia e persino piccole fette di zucche bollite.

Sebastiano diede un'ultima stretta di torchio alle vinacce; le serve spazzarono il cortile; le galline che in tutto quel tempo avevano scorrazzato per l'orto, furono rinchiuse nuovamente, e Maria Fara potè finalmente riposarsi, con un sospiro che le spianò la bella fronte pensierosa.

Pensava a Paolo ed a quel poveretto di Cesario, ch'era ripartito più stanco che mai, con una tosse secca e straziante.

Così passarono molte settimane, la nebbia invase l'orizzonte e Anna lasciò con un lungo sospiro il suo abito bianco pieno di margheritine. Ella non rideva più con quelle pazze risate che strabiliavano Sebastiano. Taceva, ora, ricamando dietro i vetri chiusi, con una triste ombra negli occhi. Talvolta la chiamavano, ma ella non rispondeva, oppure sussultava come spaventata.

Accanto a lei Angela continuava a guarnire nervosamente la sua biancheria: anch'essa taceva e le sembrava che Anna stesse così triste per partecipare alla sua melanconia.

Al suo ritorno Paolo Velèna trovò accesa la prima fiammata nel camino di cucina; eppure sentì come una zaffata di aria gelida percuotergli il viso.

Cos'è questa musoneria? — chiese a sua moglie. — È successo qualche cosa? Cosa c'è? Dimmi, dunque!...

— Non c'è nulla. È Angela che è sempre triste, tranne i giorni in cui riceve lettere di Pietro.

— Sì, capisco. Ma gli altri? Cosa ha Sebastiano? E Anna cosa ha? Non pare più lei. Le avete fatto qualche torto? Forse?

Paolo guardò attorno, irrequieto. Sembrava cercasse qualche cosa che non ricordava bene, che non poteva ritrovare. Ma Maria lo rassicurò. Sì, Anna diventava sempre più seria; non giocava più, non si esaltava, ma nulla era accaduto e nessuno le aveva dato il più piccolo dispiacere. Cessava di essere bambina, ecco tutto!

Parlarono poi di Cesario e la fronte di Paolo si oscurò più che mai.

Era stato di passaggio a Roma, ma non era riuscito a sapere che vita menasse Cesario. Era una esistenza da studente o una esistenza da sfaccendato quella del figliolo? Certo è che qualche altro studente sardo gli aveva detto che Cesario si vedeva pochissimo all'Università.

Paolo sapeva soltanto che il figliolo sprecava molto denaro; ma dove andasse, che facesse, egli, nei pochi giorni passati a Roma, non era riuscito a saperlo. Maria invece quasi s'inorgoglì nel sapere queste vaghe notizie: la figura di Cesario prese forme grandiose nel mistero, campeggiò sullo sfondo di Roma e parve alla madre che la figura del figlio diletto fosse a posto solo su quell'immenso orizzonte! Roma soltanto era degna di ospitare un tale ingegno.

Paolo, che forse prima aveva avuto una simile illusione, ora invece pensava melanconicamente come Cesario era piccolo, come spariva lassù, nell'immensità di cui era un atomo. Gli diminuì la mesata e fece orecchie da mercante ai fulminei dispacci chiedenti denaro.

«Mio caro, gli scriveva, pensa che quest'anno ho avuto dei disastri, e che giusto quest'anno una tua sorella deve uscire decentemente di casa».

In realtà Angela, dopo le prime mille lire, non gli aveva più chiesto un centesimo.

E già quasi tutto il corredo era pronto, già le stoffe dei vestiti erano ordinate ad una Casa di buoni tessuti italiani. Li avrebbe confezionati a Sassari una brava sarta di moda.

I vestiti arrivarono qualche settimana prima di Pasqua, giusto il giorno in cui Angela guarniva l'ultima cuffietta.

Apro io? — domandò Anna posando le mani sulla cassa sottile di legno bianco.

Ma Angela la respinse dolcemente e aprì la cassa con un fremito nelle dita. A poco a poco, e senza che ella se ne accorgesse, tutti quei di casa si trovarono intorno, zitti e curiosi.

Angela sollevò il coperchio quasi religiosamente, poi mandò in aria una nuvola di carta bianca, trasparente e profumata. Venne fuori l'abito da sposa; era intero, forma principessa, di raso color paglia, tutto merletti di una vaporosa delicatezza. Il grido acuto di Caterina fece sussultare Angela nella sua estasi di ammirazione.

— Ha la coda.... la coda, non vedi che ha la coda, Angela? Anna mia, Dio mio come è bello!...

Dio mio, come è.... è.... bel.... lo! — ripetè Nennele giungendo le mani.

Bello, ah, bello, bellissimo! — esclamarono in coro i presenti.

Misuralo! — disse Lucia, affaccendata e contenta.

Dalla gioia Angela sentiva un nodo alla gola; tuttavia si dominava e rispondeva freddamente:

— Sì, è bellino. Lo metterò poi; aspetta, chè non muori. Lasciami veder gli altri.

Caterina, impaziente, mandò in frantumi il coperchio. Angela si adirò, ma si calmò tosto, pallida per l'emozione. Il secondo vestito, l'indispensabile vestito nero, di grande etichetta, che usano farsi tutte le spose sarde, era davvero meraviglioso. Di seta damascata, a disegni giapponesi, su fondo rasato, guarnito di falpalà color di rosa che parevano ghirlande di fiori vellutati, poteva benissimo essere indossato da una fata.

Di meraviglia in meraviglia. Il terzo vestito di seta cangiante, grigio-roseo, a sbuffi di mussolina d'una tinta indefinibile, con la cintura svizzera ricamata a rose e a fogliami di argento, — fece dimenticare gli altri due. E poi la mantellina di velluto, l'abito di lana biancastra, per viaggio, i cappelli, l'adorabile cappottina da sposa, di fiori d'arancio, le velette, gli spilloni, e tutto e tutto, Dio mio che bellezza! Fu una giornata indimenticabile.

Uno per uno Angela misurò i vestiti, che le stavano come dipinti; e appariva ognor più bella e Caterina le saltava attorno, gridando, facendo la ruota, trascinando nel suo entusiasmo i fratellini.

— Ma cosa ti importa? — le disse Sebastiano. — Son forse tuoi i vestiti? Sta un po' seria, fammi il piacere. Non vedi Anna come sta seria?

— Sì, perchè è invidiosa lei!...

Invidiosa? E perchè? — domandò Anna.

Lasciala dire! — esclamò Sebastiano.

Sicuro che la lascio dire. I miei vestiti da sposa, altro che questi saranno!...

Sebastiano la guardò affettuosamente, e pensò che i vestiti da sposa Anna li avrebbe indossati per lui.

 

*

 

Perchè Sebastiano era certo di poter un giorno sposare la cugina.

Come egli se ne era innamorato, da quando e perchè? Egli non lo ricordava e non se lo chiedeva. Gli sembrava di averla amata sempre, dal primo giorno in cui Anna era giunta, col suo brutto vestito nero e il fazzolettino stretto sotto il mento, — di averla amata sempre, anche prima, quando egli andava a scuola e arrossiva nell’incontrare qualche signorina. Eppure questo non era il suo primo amore; ma sentiva che era l'ultimo perchè mai egli aveva amato così, perchè sentiva di aver amato Anna attraverso le altre donne amate. Gli altri amori, pur corrisposti, l'avevano fatto soffrire sempre. Questo lo esaltava, pur non corrisposto ancora, così indistinto e ignoto a tutti. Egli trovava in Anna, anche senza conoscerla spiritualmente, l’ideale vagheggiato dal suo cuore sano e dalla sua fantasia vigorosa; cioè una fanciulla buona e saggia e purissima.

Certe volte lo spaventava l'idea che Anna era quasi una signora e che questa delicatezza che lo attirava verso la fanciulla, per la legge dei contrasti, — poteva col tempo essere un ostacolo alla sua completa felicità. Ma si rasserenava tosto. Che importava? Anna accennava a diventare un'ottima massaia, e ad ogni modo egli avrebbe sempre potuto offrirle un avvenire sicuro. Aspettava ch'ella diventasse donna per spiegarsi e renderla arbitra.

Intanto ella era il suo sogno più caro; il sogno che lo accompagnava da per tutto, e specialmente nella solitudine, durante le sue lunghe cavalcate attraverso i paesaggi deserti.

Per lei sentiva più acuta la nostalgia della casa. Gli pareva che lui lontano mancasse qualche cosa alla fanciulla, mentre in realtà era a lui che mancava la presenza di lei.

Più di una volta, da un anno in qua, aveva pensato di spiegarsi, di dichiararsi, o almeno di confidarsi con la madre, e di lasciar capire ad Anna un po' dei suoi sentimenti. Egli aveva un progetto magnifico: ammogliarsi e ritirarsi in campagna, in un immenso latifondo incolto che egli sognava di coltivare con sistemi moderni.

Ma in presenza di Anna egli sentiva uno stupido timore, una strana sensazione; qualcosa come il contorno del sogno svaniva nella realtà. L'Anna vicina non era più l'Anna lontana, quell'Anna che lo baciava col vento, che da lontano si faceva desiderare e sognare con tutte le gioie e gli spasimi di una vera passione.

Da vicino un invisibile e imbarazzante ostacolo lo divideva da lei.

Talvolta provava un sentimento di gelo che lo rattristava; gli pareva che il suo sogno dileguasse, per non tornare mai più. Invece appena ella spariva, il sogno tornava, tanto più tormentoso e giocondo quanto più lo spazio si allargava. Sebastiano pensava che tutto ciò era effetto della estrema giovinezza di lei; che fosse l'incoscienza o l'innocenza di lei a turbarlo. E attendeva che ella crescesse, senza intanto curarsi di farle indovinare il suo amore.

 

*

 

Subito dopo l'arrivo dei vestiti da sposa, giunsero le carte di Pietro, e Paolo Velèna sudò sette camicie per compiere tutte le formalità necessarie per il matrimonio di Angela.

Dopo la partenza di Pietro, si sa, molte lingue maligne avevano susurrato che il matrimonio non si faceva più. Viste le pubblicazioni, ciascuno continuò a dire la sua, specialmente le donne. Le serve di casa Velèna avevano già svelato i misteri del corredo e dei vestiti; roba mai più vista in questo nell'altro mondo. Tutto fu esagerato. I vestiti di seta diventarono sette od otto, i cappelli, le scarpine, la biancheria, tutto si moltiplicò; si disse che Paolo Velèna manteneva a stecchetto la famiglia per fornire sfarzosamente Angela e si parlò delle grosse polacche e del vecchio paltò di albagio di Sebastiano. — Qualcuno aggiunse che i Velèna avevano preso a prestito cinque mila lire, cresciute subito a otto, a dieci mila, — poi infine che Paolo Velèna avrebbe fallito!

Tutte queste cose, riferite in casa Velèna dalle serve e dalle altre donne di servizio, facevano soffrire Angela, che avrebbe voluto stampare sui muri come con mille lire s'era provveduta di ogni cosa. Un giorno Sebastiano la trovò che piangeva.

— Cosa diavolo hai? — le chiese.

Ella raccontò le dicerie, e Sebastiano salì su tutte le furie.

— Ma cosa te ne importa? Non vedi che parlano per invidia? Io vorrei sapere chi ti riferisce queste cose. Bada bene, se io me ne accorgo, pesto il muso alle pettegole....

Angela non ne parlò più. E quando Pietro scrisse di aver ottenuto il permesso, la casa fu messa sotto sopra; fu tutta imbiancata, tutta rimessa a nuovo. Angela, Lucia ed Anna, però, per poco non morirono dalla stanchezza.

 

*

 

Lo stesso giorno in cui fu annunziato in chiesa il matrimonio di Angela, arrivò il fidanzato. Si era agli ultimi di quaresima, e le nozze erano stabilite per il giorno di Pasqua, o meglio per la sera di Pasqua. Il vescovo di Orolà, lontano parente di Pietro Demeda, si sarebbe degnato egli stesso di benedire gli sposi.

Paolo Velèna, Anna, Lucia ed Antonino andarono ad incontrare Pietro alla più vicina stazione. Angela si mise alla finestra ad aspettare, vestita di gala, e Caterina cominciò a vociare per sollecitare le serve a preparare il caffè e poi la cena.

Quando Angela, pallidissima, vide Pietro nella via, lo salutò dalla finestra, poi corse ad incontrarlo. Anch'egli era pallido: e si abbracciarono senza dir parola.

Anche Caterina, per l'allegria, volle abbracciare e baciare il fidanzato di Angela. Egli trovò Caterina straordinariamente sviluppata: era già più alta di Anna e molto più bella, con una splendida bocca rossa, il profilo puro, scultorio, e gli occhi grandissimi, nerissimi, luminosi. Le ciglia lunghe, le sopracciglia folte, congiunte, i capelli svolazzanti, neri come la notte, davano una bizzarra fisonomia alla irrequieta fanciulla. Ella si accorgeva sin troppo di esser bella, e i suoi movimenti bruschi, le giravolte, le risate che faceva per nulla, e persino le sciocchezze continue che diceva, invece di diminuire accrescevano il suo fascino.

A cena Pietro, osservando lo splendore fosforescente degli occhi di Caterina, pensò che ella doveva diventare più bella di Lucia. Ad Anna non badò punto: fra Lucia e Caterina, Anna spariva completamente.

Sparecchiata la mensa, Pietro salì un momento nella camera assegnatagli, e ridiscese con un involto che lentamente, con le sue belle mani bianche, svolse. Erano i doni per Angela. Tutti li aspettavano e si riunirono attorno per vedere; Pietro aprì gli astucci di pelle, e sul velluto interno luccicarono i gioielli. Erano due grossi braccialetti, due fermagli, orecchini ed anello in brillanti, poi altri anelli, orologio, catena d'oro, ornamenti per i capelli e gioielli d'argento.

Gli occhi di Caterina luccicarono più dei brillanti; e al solito ella cominciò a toccare e disordinare tutto, finchè la voce di Sebastiano, come sempre, non la fece ritornare in .

Possibile? Io non capisco come sia mal educata questa ragazza! — disse Sebastiano alla madre, in modo che tutti udirono. Caterina diventò bianca, ritirò le mani e più tardi si lamentò acerbamente con Anna.

Nessuno, nessuno la poteva vedere, e lei era tanto infelice!

— Eppure — disse Anna, — tuo fratello ti accarezza continuamente; se ti qualche lezione, delle volte, è perchè ti vuol troppo bene.

— Ed io ti dico che vuol più bene a te, più bene a Maometto, più bene al cavallo....

Invano Anna cercò di persuaderla.

— Certe cose puoi dirle alle galline, non a me, — concluse Caterina, addormentandosi con le lagrime agli occhi, stizzita, decisa di guastare col suo broncio le feste nuziali.

Ma l'indomani non ricordava più nulla. Angela comparve con la catena d'oro al collo, e Anna provò una vaga melanconia.

Ella aveva vagamente sperato il ritorno di Gonario per Pasqua; invece Gonario non ritornava, non sarebbe ritornato.

Otto giorni passarono come un turbine vorticoso e luminoso. Nell'aria d'aprile, d'una dolcezza tiepida e lattiginosa, erravano i soavi profumi della primavera; e nella casa dalle finestre spalancate, piena di voci e di dolci, la letizia della rinascenza della natura si mescolava al gaudio delle nozze. Veramente, fra tanta gioia v'erano anche delle persone tristi, perchè lo scompiglio delle consuete tranquille abitudini, sia anche per ragioni di festa, lascia un gran turbamento negli spiriti metodici. — Il pensiero della partenza d'Angela turbava il cuore della madre e delle sorelle. Anche la sposa, a momenti, vinta da una misteriosa angoscia, desiderava che il giorno non venisse mai. Sempre in toeletta di gala, Angela non faceva nulla, non doveva occuparsi di nulla; restava in lunghi colloqui col fidanzato, procurando di smorzare così il dolore che sentiva e che diventava di giorno in giorno più angoscioso.

Nella casa era un via vai rumoroso e incessante. Fu messo in bucato tutto il corredo, poi chiuso nelle casse, e infine spedito insieme coi vestiti e con tutti gl'indumenti della sposa. Fu lasciato solo il vestito da sposa e l'abito biancastro che Angela indossava e che le avrebbe servito per viaggio. Il suo turbamento crebbe nel veder trasportare le casse; qualcosa di lei partiva verso l'ignoto, già; e già ella sentì la nostalgia, immemore, ricordando come in sogno i luoghi ove ancora si trovava.

Pietro si accorgeva di tutto e faceva del suo meglio, aiutato da Paolo e da Sebastiano, per divagare la sposa. Erano serenate, mandolinate, ricevimenti, piccole feste da ballo, voci, risate, complimenti, dolci e fiumi di caffè, di vini e di liquori.

Angela sorrideva a tutti, ma vedeva sfilare tutti come in una allucinazione. Vedeva arrivare i doni e le visite attraverso una nebbia: e Caterina, Lucia, Anna, la madre, il padre, i fratelli, tutti affaccendati e sorridenti, le parevano diversi dai cari ch'ella aveva fino a quel giorno amato.

Eppure le piccole noie a cui dovevano sottomettersi la richiamavano alla realtà: e sentiva per riflesso tutta la fatica e la stanchezza delle sorelle e della madre, e desiderava di toglier loro, presto, il disturbo.

Così con queste disposizioni d'animo fece la confessione, si comunicò e fece le visite che servivano nello stesso tempo per congedo e per invito alle nozze. Ma da per tutto si mostrò fredda, quasi automatica, onde la si accusò di alterigia, e non tutti gli invitati parteciparono alle nozze.

Il sabato santo e tutto il giorno di Pasqua una strana processione di donne sfilò nella via dei Velèna, fermandosi alla loro porta. Erano donne che recavano alla sposa i presenti delle famiglie amiche e dei parenti: cestini pieni di grano; bottiglie di vino turate con fiori; dolci paesani, torte, vassoi di frutta candite, arancie, liquori, galline bianche adorne di nastri, e poi di nuovo grano e vino, vino e grano.

Come nei paesi orientali, e specialmente nell'India, il riso rappresenta nelle cerimonie nuziali il simbolo e l'augurio dell'abbondanza, così in Sardegna il grano.

I presenti appartengono esclusivamente agli sposi. Così Angela ricevette moltissimo grano, almeno per tre o quattrocento lire, — ma siccome non poteva portarselo dietro, Maria Fara si impegnò di farlo vendere e di mandarle il denaro.

Non si era più parlato dell'arredamento della camera nuziale, che spettava alla sposa, e pareva che tutti se ne fossero dimenticati, — ma la sera del sabato, tra l'enorme confusione che a Caterina non aveva neppur permesso di santificare, al solito, l'acqua del pozzo con l'acqua santa presa dal secchiello del sacerdote benedicente le case, — confusione causata specialmente dal ricevimento dei presenti, alle cui portatrici dovevasi fare lieta accoglienza con relativo servizio di dolci e di caffè, — Paolo Velèna chiamò Angela nell'ufficio e le diede altre mille lire.

— Starai pur sicura, — disse Paolo, — che qualche goccia non mancherà di cadere....

Ma essa arrossì e non lo lasciò proseguire. Paolo con quelle parole significava che non avrebbe mancato di sovvenirla, in avvenire.

Speriamo non ci sia bisogno, — rispose Angela rapidamente. — Sapete bene che Pietro non vuole alcuna dote.

— Sta bene, va! — disse Paolo che non voleva commuoversi.

E come per incanto Angela, la sera di Pasqua, — un nitido e quasi freddo imbrunire, imbalsamato di lontani odori portati dal vento, — si trovò maritata. Nella sala rossa del vescovo fu molto ammirato il vestito della sposa, ed ella parve più bella di Caterina e di Lucia che l'accompagnavano vestite di verde. Si sa: chi di verde si veste di sua beltà si spoglia.

L'oro dei gioielli splendeva sul pallore dorato del vestito di Angela, e la coda, stesa così sul tappeto con abbandono serpentino, dava alla sposa un'aria di regina, sebbene ella non portasse il velo. Quasi tutte le spose sarde, specialmente nelle piccole città e nei villaggi, non si adornano del velo rituale.

Finita la cerimonia, il vescovo fece un lungo sermone agli sposi. Ma Angela non ne capì un'acca; le pareva di essere tra cielo e terra.

Le sfuggiva persino la visione di lui, di una bellezza fine e aristocratica, nell'abito nero che faceva meglio risaltare la sua dolce fisonomia di biondo. Ella si chiedeva chi l'aveva condotta , chi l'aveva vestita così: e che volevano tutti quei signori a capo scoperto, e quelle signore dagli occhi lucenti che la circondavano?

Dalla sala tiepida di Monsignore si passò a quella, gelidissima, del Municipio.

Una grande tenerezza invase la sposa quando mise la sua dopo la firma suo marito. Sollevando la testa lo guardò. Quanta fede, quanta dolcezza, quanta speranza e quale misterioso turbamento in quel supremo sguardo! Pietro sentì ogni cosa, e nel ritornare a casa, tra la folla che si accalcava per vedere il corteggio, e gettava fiori, confetti e grano, le disse teneramente:

— Non temere.

 

*

 

Anna fece gli onori di casa.

Siccome gli sposi dovevano partire l'indomani mattina, si diede una cena agli invitati che regalarono alla sposa monete d'oro e di argento.

Molte donne lavoravano in cucina, sotto l'occhio vigile di Lucia, che s'era spogliata e rivestita in un attimo. Anche Caterina, che del resto preferiva la conversazione degli invitati, scese ed ajutò ad apparecchiare le tavole. Ella pretendeva che quello offerto dai Velèna, fosse un lunch, e ne andava fiera pensando già alla corrispondenza nella Nuova Sardegna.

— Ma che lunch d'Egitto, — disse Antonino che se ne stava tranquillamente in un angolo della stanza, con le gambe accavalcate. — È una cena: ti dico che è una cena.

Cena o pranzo o lunch io invece ti dico che verrà stampato: si diede un lunch....

— Già, già! Abbiamo capito....

— Tu non capisci nulla. Ma va, — non ho voglia di....

Caterina? — chiamò Nennele dall'alto della scala. Essa piantò ogni cosa e accorse.

— Cosa vuoi?

Nennele era triste perchè nessuno, nella confusione, si ricordava di lui.

— Voglio Angela, sì, ho da dirle una cosa, — disse quasi piangendo.

— Vieni con me.

— Non vengo. Chiamala qui!

Caterina sparve dicendo a Nennele che avrebbe chiamato Angela, ma Nennele non vide più Caterina e tanto meno Angela, fino all'ora della cena, che seguì senza inconvenienti, tra brindisi e lieti conversari. Alle due partì l'ultimo invitato. Verso le tre la casa cadde nel silenzio. Ma all'alba erano già tutti nuovamente in moto.

Maria Fara, pallida, con la febbre, rinchiuse in una cassa tutto ciò che restava di Angela.

Un'ora dopo, alla stazione, la letizia febbrile della sera e dei giorni passati, si cambiò in angoscia. Anna guardò pensierosa il treno che si dileguava nella limpida e azzurra mattina, e provò un terribile, ignoto sgomento, che restò poi sempre impresso nella sua memoria. I Velèna trascorsero in tristezza i giorni seguenti, — ma come sempre, col tempo, ogni cosa tornò al suo posto, tutto rientrò nel silenzio e nell'orbita antica.

Maria Fara però sentì bene il vuoto lasciato da Angela, sentì che i tempi cambiavano, presentì l'esodo forse non lontano di tutta la sua famiglia, e come sfiorata da un soffio di aria autunnale, percepì le malinconie della vecchiaia, e poi della fine di ogni cosa.

 

 


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