Grazia Deledda: Raccolta di opere
Grazia Deledda
Il flauto nel bosco
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Domani.

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Domani.

 

Abitavamo, quest'autunno scorso, in una casa di ricchi contadini, fra la landa e il bel mare di Romagna.

Fuori, la casa aveva pretese di villa, con scalinata davanti alla porta, loggia e veranda, viale di carpini che andava dritto al cancello vigilato da due pioppi sempre ridenti, come bambini, di tutte le cose che vedevano: ma dentro conservava il suo antico stato, nella semplicità complicata di cattivo gusto dei mobili, dei quadri, delle tende, e persino degli usci e della balaustrata della scala.

La padrona, che abitava il piano terreno, le rassomigliava: vestiva da signora e lavorava col contadino: coi capelli troppo neri e i denti troppo bianchi per essere autentici, e gli occhi - su questi non si poteva malignare - nerissimi, grandi e freschi, sembrava giovane e intelligente.

- Intelligente sì, ma giovane poi no - disse un giorno, sorridendo in modo da far vedere fino alle gengive i denti che avevano qualche cosa di animalesco; poi sollevò una mano e spiegò le dita ad una ad una; e fino a cinquant'anni non c'era da protestare: sollevò l'altra e drizzò il pollice; - Come, già sessant'anni, signora Palmina? - drizzò l'indice, drizzò il medio. - Ottant'anni? No, settantasette e qualche mese.

- Lei scherza, signora Palmina.

- Dio volesse. È che proprio gli anni ci sono: il segreto è che ho vissuto sempre qui, nella mia casa e nel mio podere, come le donne della Bibbia, secondo la legge di Dio, sempre lavorando oggi per domani e prevedendo ogni cosa. Ho preveduto sempre quello che doveva succedere, facendo di tutto per scongiurare i malanni; e se questi venivano lo stesso, li accolsi come ospiti, sgraditi ma sempre ospiti. Così non ho sofferto troppo: o se ho sofferto, poiché non sono di pietra, ho sempre detto a me stessa: Palmina, qui si tratta di credere che sei una donna di fegato, e di superare te stessa: e mi sono superata. Così, a sedici anni mi hanno fatto sposare un uomo anziano, che non mi piaceva ma era ricco. Io dico a me stessa: Palmina, hai sedici anni e lui quarantotto: morrà bene trent'anni prima di te, e tu potrai riprendere marito; uno che ti piaccia e abbia la tua età o magari qualche annetto di meno... Mio marito è morto vecchio, però, grazie a Dio, vecchio come Matusalemme: aveva novantasei anni. Capirà, mia signora, io non ero più in età di maritarmi: ma chi ci pensava più, del resto? Ed ho pianto mio marito, perché mi ero abituata, sfido, dopo tanti anni, a volergli bene.

- E figli?

- Ne ho avuti due: due maschi, perché, le femmine non mi vanno: troppo incerto è il loro avvenire; possono venir sedotte, o abbandonate dal fidanzato o maltrattate dal marito. Due maschi, che ho allattato io, perché i figli non si affezionano se non succhiano il latte materno; e li ho tirati su bene, sempre con loro addosso come la mia stessa carne: tutti i pensieri a loro, tutte le previdenze per loro. Uno ha studiato, l'altro, com'era nostro desiderio, accudiva in casa e al podere. Era un bel ragazzo, forte, docile. E non trova la serva che lo ammalia, che si fa fare un figlio da lui e pretende poi di essere sposata e far lei da padrona? La caccio via a bastonate, e mai più piede sudicio di serva è entrato in casa mia; ma il ragazzo non l'abbandona, e un brutto giorno parte con lei per l'estero. Dopo, l'ha sposata. Da tempo non so più nulla di loro, e lui non s'è fatto vivo neppure per reclamare l'eredità del padre: so però che ha fatto fortuna, e questo mi consola.

- E l'altro?

Un'ombra appannò la lucida serenità del suo viso di lacca: un'ombra di sdegno più che di dolore, come se dentro ella protestasse contro quest'altro non preveduto inganno del destino.

- È morto in guerra.

E forse per far tacere le voci interne e le parole di inutile conforto che le si potevano porgere, riprese subito:

- È morto da valoroso, e il Duca stesso lo afferma in una lettera che mi scrisse personalmente. Lei, dice, può sentirsi orgogliosa di essergli madre. E orgogliosa mi sento; ma oramai non mi resta che di andarmene anch'io: ci rivedremo tutti nell'altro mondo, e questo è un calcolo che non falla. Solo, voglio morire tranquilla, in casa mia, nel mio letto. Non mi verrà certo un accidente per strada perché non esco mai. Mi dispiacerebbe solo se avessi una lunga infermità perché non voglio nessuno intorno a me: eppoi il mio letto è troppo grande e sarebbe difficile, a chi mi assisterebbe, di voltarmi e rivoltarmi. Ma ho pensato di dividerlo, il letto, che è fatto di due gemelli: mi dispiace, perché ci dormo da sessant'anni, ma in un altro non voglio morire: mi metterò dalla parte dov'è morto mio marito. Anzi, adesso che ci penso, voglio farla presto, questa faccenda.

E infatti lo stesso giorno si sentì nelle camere abitate da lei un andirivieni rumoroso, un cigolìo di mobili smossi e di rotelle sul pavimento: ella faceva tutto da sé, e sul tardi fu veduta anche a lavorare col contadino fra le piante cariche di frutti del suo bel podere: ed era serena e rossa come se nulla più oramai la preoccupasse per l'avvenire.

Eppure nei giorni seguenti si turbò vivamente nel sentirsi male: anche perché era un male strano, uno sconvolgimento di viscere, una voglia continua di vomitare come nelle donne al principio della gravidanza.

Fece chiamare il dottore: e il dottore dichiarò che si trattava di un'ernia buscata nello sforzo di smuovere il letto. Era una cosa da nulla, ma bisognava fare l'operazione per evitare gravi conseguenze.

- Facciamo l'operazione - ella disse rassicurata: ma di nuovo si turbò quando il dottore rispose che bisognava farla in una clinica.

- Non morrà, stia tranquilla; se vuol campare a lungo e morire nel suo letto si decida subito: è cosa da nulla, creda a me.

A chi credere se non a lui? Era un medico di sua fiducia e si offrì di accompagnarla e raccomandarla al celebre chirurgo che doveva operarla.

Ella si decise subito: consegnò a noi le chiavi della casa, il podere al contadino.

- Vado tranquilla perché ho preveduto tutto. Arrivederci.

Morì il giorno dopo in una clinica di Bologna, in seguito all'operazione.

 

 

 


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