Grazia Deledda: Raccolta di opere
Grazia Deledda
Ferro e fuoco
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Il primo volo

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Il primo volo

 

Fra i molti suoi difetti Andrea aveva un pregio: la generosità. Forse una generosità grezza, venata di amor proprio, di vanità e anche di un filo di boria; ma spesso impetuosa e schietta; e quando era tale, egli aveva torrenti di entusiasmo per cose che agli altri sembravano degne di poco aiuto, se non pure di essere contrariate e derise: e allora gli sembrava di fare atto di giustizia mettendosi dalla parte del debole. Così, quando venne a sapere che la sua sorellina Cosima, quella ragazzina di quattordici anni, che per la sua scarsa statura e la timidezza selvatica ne dimostrava meno, si era messa, ribelle a tutte le tradizioni, le abitudini, gli usi delle donne della sua razza, a scrivere versi e racconti, e tutti cominciarono a guardarla con una certa stupita diffidenza, anzi a sbeffeggiarla e prevedere per lei un quasi losco avvenire, Andrea invece prese a proteggerla, e tentò, in modo intelligente ed efficace, di aiutarla. Egli aveva appena fatto gli studi ginnasiali, e adesso, morto il padre, si occupava dell’amministrazione del patrimonio familiare, traendone, è vero, molto profitto per i suoi svaghi. Aveva ventidue anni; era robusto e sensuale, e gli piacevano le donne e il giuoco; ma leggeva, anche, e in certo modo era al corrente della vita intellettuale d’oltre mare. Un’eco di questa era portata nella nostra piccola città da Antonino, studente di belle lettere, fratello del più intimo amico di Andrea. Questo fratello aveva anche lui preferito allo studio la movimentata e quasi avventurosa del piccolo latifondista, sempre a cavallo per aizzare il lavoro dei servi; pronto a divertirsi poi con le belle e ardenti ragazze paesane; e, pure ammirandolo in segreto, si beffava di Antonino, che aveva le mani bianche e affusolate di gentiluomo, e gli occhi grandi di sognatore; e non era buono neppure a montare la giumenta sulla quale balzavano d’un salto le servette di casa per andare a prendere l’acqua alla fontana; come nei suoi eterni studi nelle Università più celebri del Continente, spendendo tutti i risparmi della famiglia, non riusciva, o non voleva riuscire, a prendere la laurea. Ad ogni modo, questo bellissimo, questo elegante e quasi principesco studente (e in quei tempi e in quel luogo la parola studente significava ancora un essere superiore, un uomo al quale potevano sorridere i più alti e potenti destini) portava davvero, nella cerchia primitiva del suo mondo, quasi sottomessa a un esilio dal mondo grande, un soffio di questa grandezza, tanto più luminosa quanto più lontana. Egli parlava di re, regine, di feste di Corte, come nelle canzoni popolari; e di altri personaggi politici, di artisti e letterati come fossero suoi intimi amici. Su una figura allora in tutto il suo più radioso splendore, circonfusa inoltre da un’aureola di cose leggendarie, egli si appoggiava soprattutto, come il fedele alla colonna del tempio, il Graal dal tabernacolo d’oro, dove sfolgorava, più viva del sole, la poesia di Gabriele D’Annunzio.

 

Le cose raccontate dall’alcionico, dall’epico Antonino infiammavano di folli sogni il cuore del rude e pratico Andrea. Egli cominciò a fantasticare sull’avvenire della piccola Cosima. Bisognava però aiutarla. La mandò a prendere lezioni di italiano da un professore del Ginnasio; ma più efficaci di queste furono le lezioni pratiche che il fratello volonteroso le procurò, facendole conoscere i tipi più caratteristici del luogo: vecchi pastori che raccontavano storie e leggende più significative di quelle dei libri; rapsodi rustici che coi loro versi incisivi, le canzoni a ballo, le cantilene e le serenate rievocavano e colorivano le passioni e le tradizioni di tutto un popolo; e sopratutto portandola a visitare i paesi intorno, le chiese campestri, gli ovili sperduti nei pascoli solitari dell’altipiano o nascosti come nidi di falchi nelle conche boscose dei monti.

Una di queste gite fu memorabile, anche perché fatta in buona e allegra compagnia. Oltre al fratello di Antonino, c’erano altri amici di Andrea, quasi tutti sani e gagliardi ragazzi, quasi tutti studenti mancati, che ai tormentosi tasti del vocabolario preferivano quelli della fisarmonica, e l’Odissea la vivevano con le loro imprese, specialmente quando si riunivano a banchetto, come quella volta, e le ossa degli agnelli arrostiti alla viva fiamma si ammucchiavano ai loro piedi come sotto le mense degli eroi di Omero.

Era di luglio. Ai pastori porcari, che avevano finito la loro stagione, erano seguiti quelli di pecore e di capre. Il gregge brado brucava l’asfodelo secco, i cui lunghi steli dorati scrocchiano fra i denti delle bestie; e le capre nere dalle teste diaboliche si arrampicavano sulle querce per massacrarne i germogli nuovi.

Certo, in quel giorno Cosima imparò più cose che in dieci lezioni del professore di belle lettere. Imparò a distinguere la gazza dalla ghiandaia, la foglia dentellata della quercia da quella a punta di lancia dell’elce, e il fiore filigranato del tasso barbasso da quello piumoso del vilucchio. E da un castello di macigni di granito, sopra il quale volteggiavano alti i falchi che parevano attirati dal sole come le farfalle notturne dai lumi, vide una grande spada d’acciaio, messa ai piedi di una scogliera verde, quasi in segno che l’isola era stata tagliata dal Continente. Era il mare, che Cosima vedeva per la prima volta.

Sì, certo, fu una giornata straordinaria, come quella della cresima, quando un fanciullo che crede in Dio si sente quasi spuntare le ali per volare fino a Lui. Tutto pareva sacro, a Cosima, quel giorno: aveva la sensazione di essere diventata più alta, leggera, snodata da ogni impaccio infantile; vedeva le cose in una luce precisa, non più di sogno, eppure più bella di quella del sogno: e quando ridiscese nel bosco, dove l’ombra era fitta, una piccola nuvola affacciata in uno squarcio azzurro fra due lecci le parve il suo viso, come quando ella si protendeva sopra il pozzo di casa per spiarne il fondo dove sapeva che c’era solo un velo d’acqua, eppure ci si immaginava un meraviglioso mondo sottomarino.

Il banchetto fu servito in una radura erbosa circondata di un colonnato di tronchi come una sala regale. Per sedile a Cosima, il fratello preparò una sella coperta da una bisaccia; e i migliori bocconi furono per lei: per lei il rognone dell’agnello, tenero e dolce come una sorba matura; per lei il cocuzzolo del formaggello arrostito allo spiedo; per lei l’uva primaticcia portata appositamente dal fratello premuroso. Si accorsero, i convitati, di queste premure quasi galanti, e cominciarono a urtarsi coi gomiti: e, come se una parola d’ordine si trasmettesse fra loro con questo gesto, un bel momento tutti sporsero verso Cosima le loro strambe forchette, fatte con stecchi di legno, ad esse infilati pezzetti di arrosto, di pane, di cacio, di tutte le vivande che si trovavano sulla mensa. Ella arrossì, ma non pronunziò parola: del resto non aveva mai parlato, durante tutto il tempo del banchetto: pareva una estranea, sulla sua a sella ricoperta dal drappo arcaico della bisaccia, coi grandi occhi silenziosi, verdi del verde scuro dell’ombra del bosco; una delle piccole fate ambigue, non sai se buone o perfide, che popolano le grotte del monte, e da millenni vi tessono, dentro, nei loro telai d’oro, reti per imprigionare i falchi, i venti, i sogni degli uomini. Era un po’ stizzita, però, come una di queste fate quando le offende, per la beffa, sebbene rispettosa, dei compagni; e, appena poté farlo senza attirare oltre la loro attenzione, si volse di fianco e balzò dalla sella come da un cavallo in corsa. Si allontanò rapida, sfiorando con le braccia aperte le felci della radura, come una rondine che vola bassa all’avvicinarsi del temporale, e tornò poi in cima al dirupo donde si vedeva il mare. Il mare, il grande mistero, la landa di felci azzurre che la rondine solca a volo per arrivare in terre lontane. Così avrebbe voluto trasmigrare lei, verso i paesi di meraviglia dei racconti di Antonino; e nel ricordarsi di lui arrossì di nuovo, pensando al principe vestito nel colore delle lontananze che tutte le fanciulle aspettano. Ma i gridi aspri dei giovani rusticani, uno dei quali forse le era destinato per sposo, la richiamavano alla realtà. Si sentivano anche i fischi dei pastori, che radunavano il gregge: ogni voce, ogni suono vibrava nel grande silenzio, con un’eco scintillante, come in una casa di cristallo. Il sole calava dalla parte opposta, sopra le montagne di della pianura, e già le capre, ancora arrampicate sulle vette, avevano gli occhi sanguigni come quelli dei falchi. Era tempo di ritornare a casa; e ricordando le sue giornate ancora fanciullesche, e le piccole storie che ella raccontava a se stessa come il grillo canta per sé la canzone, ella si sentiva, al cospetto del mare e sopra i vasti precipizi ingranditi dalle ombre rosse del tramonto, quasi simile alla capretta sulla cima merlata della roccia, che vorrebbe imitare lo slanciarsi del falco e invece, al fischio del pastore, deve ritornare nello stabbio.

E invero un fischio acuto e diverso da quello cadenzato dei pastori le arrivò come una freccia, seguito da altri ed altri, che lo imitavano con un coro beffardo. Andrea la chiamava, avvertendola che non bisognava abusare della sua indulgenza di guardiano, mentre l’irrisione dei compagni le ricordava meglio ancora che le sue scorribande non potevano essere sopportate che una volta sola dalle convenienze della comunità dov’ella era destinata a vivere. Allora ella si alzò dal suo trono di rocce, ma scosse di nuovo le braccia verso il mare, sembrandole di sfiorare le onde come prima le felci della radura; come la rondine che migra, dopo l’inverno tiepido ma sterile degli altipiani desertici, verso le terre feconde dove troverà la sua stagione felice. E sentì che questo doveva essere, poiché questa era la sua volontà.


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