Grazia Deledda: Raccolta di opere
Grazia Deledda
Ferro e fuoco
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Pane casalingo

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Pane casalingo

 

Fare il pane in casa, come tuttora si usa in moltissime case anche borghesi delle provincie italiane, non è una cosa facile e semplice quale si potrebbe credere. Ma la fatica e la pazienza, oltre alla responsabilità necessaria alla buona riuscita dell’opera, sono alleviate dal senso quasi religioso col quale le nostre buone massaie compiono il rito. Basta osservare gli spontanei, eppur coscienti segni di croce col quale esse lo accompagnano. Mia madre, nella nostra casa di Nuoro, giunto il momento d’iniziare la faccenda, prendeva un aspetto più del solito attento, serio, quasi sacerdotale. Delle fatiche più gravose avrebbe potuto incaricare le serve; ma se ne guardava bene. Era, si direbbe, gelosa della sua prerogativa, della sua antica iniziazione. Si legava un fazzoletto in testa, come un cappuccio monacale, ed entrata nella dispensa attingeva, — è la giusta parola, — il frumento dal sacco. Con la misura di metallo, debitamente bollata e registrata, ne attingeva la quantità. Un quarto, due quarti: venticinque e venticinque litri, metà di un giusto ettolitro. Qualche volta anche tre. Versava il frumento nelle corbule, i flessibili e resistenti cesti di asfodelo, e lo portava sotto la tettoia del cortile: in un lucente e capace paiuolo di rame brillava l’acqua limpida anch’essa appena attinta dal pozzo familiare. Seduta su uno sgabello, mia madre lavava il grano: un po’ per volta lo lavava, dentro un vaglio di giunchi, immergendolo con cautela nell’acqua, mescolandolo con la mano sottile, agile, abituata a finissimi ricami di seta e d’oro come ad ogni sorta di lavoro domestico; indi sollevava il vaglio, lo faceva sgocciolare, lo scuoteva, con un’arte che divideva nettamente il contenuto dalle pietruzze e dalle scorie: e queste faceva saltare da una parte, mentre dall’altra versava l’umido frumento in un largo canestro esso pure d’asfodelo. E così finché tutto il grano era lavato e messo ad asciugare. Una volta asciutto veniva di nuovo mondato, quasi chicco per chicco, sulla grande tavola di cucina accuratamente pulita.

E qui entravamo in ballo noi ragazze: di malavoglia, s'intende, e dopo molti richiami ed anche qualche predicozzo. Più che altro nostra madre intendeva trasmetterci la patriarcale scienza, ma invero la sua fatica a questo riguardo era più grave e molto meno efficace di quella di fare il pane. Uno spirito nuovo, ribelle a tutte le tradizioni,—lo spirito di Lucifero, diceva lei, — era entrato nel corpo irrequieto delle adolescenti, ed esse obbedivano, sì, agli ordini materni, ma nel modo stesso con cui si assoggettavano a pulire il grano, lasciando le ultime pagliuzze per far presto, con un piede a terra e l’altro agitato sotto la tavola, pronte a prendere la fuga verso l’orticello attiguo. Ogni scusa era buona per scappare nell’orticello e di in quelli attigui, — orti di parenti e cordiali vicini di casa, — e cogliere la prima violaciocca, e contemplare il tesoro delle nuvole di rame e di platino dell’orizzonte, che annunziava la primavera; e spingersi fino all’orlo dei ciglioni sopra la valle, ad ascoltare la voce del torrentello che chiamava alle passeggiate lungo il mite, il chiaro stradone di Orosei, che, sotto le dolcezze aspre del monte Orthobene, conduceva alle lontananze marine in fondo alle quali sorgeva il miraggio di una vita meravigliosa.

Ma poi bisognava rientrare nel cerchio della casa e della realtà, che adesso, nello spazio capovolto del tempo, prende la sua brava rivincita e appare a sua volta un miraggio di favola, di leggenda da vecchio Testamento. Il grano era stato mandato al Molino, o magari alla mola, l’antica macina latina tirata dall’asinello, — si credeva che la farina ne risultasse migliore di quella macinata a vapore; — e la massaia ne aspettava preoccupata il ritorno: quando questo avveniva, la mano sottile ed esperta provava, versava, palpava il contenuto delle corbe di asfodelo, preparava il largo canestro, i setacci col fondo di seta, i vagli sottili e lucenti come intessuti di fili d’oro; separava la farina dalla crusca, il fiore bianco della farina da quello bruno, il semolino dalla semola color d’avorio. Ella ne usciva tutta incipriata, pronta come per una festa. Ed ecco le diverse qualità della farina distribuite nelle corbe leggere: per il pane bianco, per quello integrale, per quello bruno, che era riservato alle serve — per i servi si faceva il pane d’orzo; ma allora la faccenda era più lunga e in collaborazione con persone di fatica, — ed era il più saporito e nutriente.

Veniva poi fuori il lievito, dal ripostiglio dove, entro una scodella dorata che sembrava un vaso sacro, lo si conservava dall’una all’altra cottura del pane; e sopra il mucchio che lo accoglieva e seppelliva, sciolto come una linfa vitale, la mano bianca di farina segnava una croce: croce che veniva ripetuta sul viso prono come a specchiarsi nel cerchio della corba preziosa.

Passa la notte: la massaia dorme e vigila nello stesso tempo: al primo canto del gallo balza in piedi, chiama sommessa la serva, fa chiamare le ragazze.

Ahi, dolore del pane conquistato non col sudore della fronte, specialmente se l’ora antelucana è fredda e magari i tetti sono guarniti del pesante monile delle stalattiti; bensì dolore del soave sonno lacerato con violenza, della rabbia dell’impotente rivolta contro la “barbarie” delle abitudini primordiali, accompagnata da sbadigli e da silenziosi anatemi. Ma poi, a poco a poco, la sofferenza si scioglie quasi in allegria. Il caffè sveglia ed eccita le giovanissime lavoratrici; e meglio ancora la serva anziana, che ricomincia a tirar fuori dal sacco della sua memoria tutte le leggende, alcune veramente tipiche e divertenti, del pane e delle focacce. San Pietro, e fate e stregoni, vi agiscono qualche volta con irriverenza (San Pietro è facile allo sdegno e alla vendetta, e fa andare a male il pane della massaia avara, e fa bruciare le focacce pasquali della ricca padrona che scaccia in malo modo i mendicanti), tanto che nostra madre, dopo aver intriso con grandi segni di croce la farina e distribuito la pasta grezza alle ragazze pronte, dichiara che non vuol più sentire queste storie. La serva è incaricata di accendere il forno; lo accende, con frasche di ginepro e di lentischio, e il fumo che ne scaturisce ricorda, col suo vapore odoroso, le sere d’autunno, i dissodatori che preparano la terra per la seminagione, tutta la fatica, la fede, la speranza dell’uomo che lavora per tener vivo il mistero della sua esistenza nel mondo. Le ragazze si scaldano, si dimenticano, snodate dal movimento delle loro esili persone; il sangue riprende il corso accelerato delle ore di ginnastica, e quasi con istinto atavico esse riescono a gramolare abilmente la pasta, a renderla carnosa e calda, viva e come palpitante del loro contatto, — qualche vescica alla palma delle mani dimostra la loro volontà di sacrifizio, — a tirarla col matterello in tante grandi lune dorate o in cerchi ritagliati come diademi pesanti, e, plasmato così il pane, a collocarlo per un nuovo fermento tra una piega e l’altra dei lunghi panni di spiga, cioè di lino grezzo, che da generazioni si conservano in casa per questo uso esclusivo.

Al momento opportuno mia madre sollevava il panno e vi scrutava dentro, come se fra le pieghe riposasse un bambino dormente: dall’odore, direi dall’alito del pane ne sentiva la giusta fermentazione, e allora, senza parlare, senza darsi importanza, sedeva lei davanti al forno, come alla prua di una barca, con le pale per remi, e, dopo averne bene spazzato il fondo, infornava il pane: uno per uno quello stirato sottile rotondo, che si gonfiava e poi veniva spaccato in due fogli e biscottato, e formava la carta di musica, come lo chiamavano i forestieri, forse per il suo colore e la sua delicata eppur resistente friabilità, e durava intere settimane, croccante, dolce come una galletta, gioia dei forti denti giovanili e sani, (i vecchi lo ammollano, ed è buono lo stesso); tutto in una infornata il pane a cerchio o a micche, che per lo più, però, si usava solo per le grandi occasioni. E mentre questo veniva deposto in un largo canestro, la carta di musica si elevava, un foglio su l’altro, in colonna; e tutta la provvista conservata all’asciutto, nella dispensa che sembrava, per le sue svariate riserve, il deposito dell’arca di Noé.

Del pane fresco, intanto, ne veniva mandato uno o due in regalo a parenti e vicini di casa, che a loro volta lo restituivano nei giorni della loro cottura: se capitava un amico, od anche un occulto nemico, e soprattutto un povero o un mendicante, si ripeteva l’offerta; e se il mendicante arrivava per caso di lontano ed era sconosciuto, mia madre e le donne, e forse anche qualcuna delle spregiudicate signorine, pensavano, con un segreto brivido, che potesse nascondere la persona di Lui. Lui! Il solo che può prendere migliaia e migliaia di forme per provare il cuore del prossimo: Lui, che scelse appunto il pane per la sua comunione d’amore con l’uomo.


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