Grazia Deledda: Raccolta di opere
Grazia Deledda
Ferro e fuoco
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Natale

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Natale

 

I cinque fratelli Lobina, tutti pastori, erano tornati dai loro ovili per passare la notte di Natale in famiglia.

Era una festa eccezionale, quell’anno, perché si fidanzava la loro unica sorella, con un giovane ricco. Il fidanzato doveva essere per la prima volta quella sera ammesso in casa, e i fratelli volevano far corona alla sorella che per dimostrare al futuro cognato che se non erano ricchi come lui erano in cambio forti, sani, uniti fra loro come un gruppo di guerrieri.

Fu mandato avanti il fratello più piccolo, Felle, un bel ragazzo svelto di sedici anni, dai grandi occhi dolci e vestito di pelli lanose come un San Giovanni Battista adolescente, portava nella bisaccia un maialetto, per la cena.

Il piccolo paese di montagna era coperto di neve casette nere addossate al monte parevano disegnate su un cartone bianco, e la chiesetta circondata da un terrapieno sostenuto da macigni, tra due fila d’alberi fantasticamente coperti di neve e ghiacciuoli, appariva, sopra il paese, come uno di quegli edifici informi che si profilano nelle nuvole. Tutto era silenzio: gli abitanti sembravano sepolti sotto la neve.

Felle trovò solo, nella strada che conduceva a casa sua, le impronte di un piede di donna, e si divertì a camminarci sopra. Cessavano davanti al cancello che chiudeva il cortile che la sua famiglia possedeva in comune con un’altra famiglia pure di pastori. Le due casette, in fondo al cortile, si rassomigliavano; le porticine erano socchiuse e ne usciva una nuvola di fumo.

Egli guardò la casa dei vicini, e fu contento di vedere il viso rosso di freddo e gli occhi grigi di Lia, la maggiore delle sue vicine, che lo salutava dalla finestruola.

S’udivano le sorelline piccole di Lia cantare, riunite nella cucina, una canzonetta d’occasione, una ninna-nanna in onore di Gesù Bambino:

 

Su Ninnieddu

Non portat manteddu

mancu corittu,

In tempus de frittu

Non narat «tittia»

Dormi, bida e coro,

E reposa anninnia.

 

Felle s’avvicinò alla porta dei vicini: Lia gli venne incontro di corsa, toccò la bisaccia di lui e disse: — La serva del fidanzato di tua sorella ha già portato il regalo; vedi le sue traccie. Farete grande festa, voi, ma anche noi!

Felle tentò di toccarla, ma Lia scappò chiudendogli la porta in faccia, ed egli entrò in casa sua.

La sorella, alta e sottile, con fazzoletto di seta colorato intorno al viso roseo, nascondeva la sua gioia sotto un'aria di grande compostezza: anche la madre, piccola e umile, nel suo costume di vedova, aveva un’espressione insolita, quasi di superbia. Felle ne provò soggezione: trasse dalla bisaccia il porchetto, con la cotenna tinta di sangue, e volle vedere quello mandato dal fidanzato: sì, era più grosso, quello del fidanzato.

Poi arrivarono gli altri fratelli, portando nella cucina prima tutta in ordine e pulita, le impronte dei loro scarponi pieni di neve e il loro alito caldo e il loro odore selvatico. Erano tutti forti, con le barbe nere, il corpetto abbottonato fino al collo. Si trovarono tutti in piedi, come per far davvero quasi una specie di corpo di guardia intorno all’esile figura della sorella, quando arrivò il fidanzato. Era quasi un ragazzo, del resto, con un'aria timida: ma lo accompagnava il nonno, perché neanche lui aveva più il padre; e questo nonno, vecchio di ottantanni, vestito di panno e velluto come un gentiluomo medioevale, con le uose di lana sulle gambe ancora dritte, squadrò coi suoi vividi occhietti neri i cinque fratelli, e parve passarli in rivista, come un generale: poi fece loro il saluto militare. Era ben degno di loro: era un reduce delle patrie battaglie, e oltre a questo un famoso poeta estemporaneo.

Gli fu dato il posto migliore accanto al fuoco, e a sul suo petto, fra i bottoni del suo giubbone, tutti videro scintillare una medaglia. La fidanzata gli versò da bere; poi versò da bere al fidanzato e questo, nel prendere il bicchiere le mise in mano una moneta d’oro. Ella lo ringraziò con gli occhi; poi, come di nascosto, andò a far vedere la moneta alla madre ed a tutti i fratelli, in ordine di età, mentre portava loro il bicchiere colmo. Felle tentò di prenderle per scherzo la moneta: ella la strinse nel pugno minacciosa. Avrebbe meglio ceduto un occhio.

Il vecchio sollevò il bicchiere.

— A cento anni!

— In vita vostra — risposero tutti in coro.

— Se Dio vuole, sì! La vita è bella — egli disse con un gesto quasi di sfida.

Il fratello maggiore, che sebbene contasse appena ventisei anni posava a uomo serio, rispose: — Sì, quando si passa bene.

— Da noi, dipende, passarla bene, ragazzo! I giorni nostri sono come il nostro gregge: bisogna guardarli, mungerli, non lasciarli sbandare. Te la vuoi cantare un’ottava, su quest’argomento?

Allora cominciarono a cantare, ciascuno sostenendo la sua tesi. Il poeta giovane era un po’ fatalista; diceva, nei suoi versi, che tutto è destino; il vecchio gli diceva «tu non conosci ancora la vita» e raccontava la sua, fin da quando era stato bersagliere in Crimea.

— L’anno venturo forse anche tu e i tuoi fratelli e nipote mio passerete il Natale in guerra; solo allora conoscerete il valore della vita che il nemico tenterà di strapparvi come quel ragazzo voleva strappare la moneta dal pugno della fidanzata. Che avete conosciuto voi, finora? La lotta col vento, o coi ladri vili o con l’astore e la volpe.

— Se noi andremo in guerra saremo i primi: distruggeremo il nemico come l’astore e la volpe. Prenderemo non una ma cento medaglie.

E tutti i giovani si misero a urlare di gioia, mentre il vecchio guardava umiliato la sua piccola medaglia.

Fuori le campane suonarono annunziando la messa. E nella casa del vicino i bambini continuavano la loro cantilena in onore di Gesù Bambino.

Era tempo di cominciare a preparare la cena, e la madre aiutata da Felle e dai fidanzati toglieva le coscie del porchetto e le infilava nello spiedo fermo a terra.

— Tu ne porterai un pezzo in regalo al vicino, disse a Felle: ed egli scelse la coscia più grassa, la prese per la zampa e uscì nel cortile. Era una notte gelida ma calma e d’un tratto pareva che il paese si fosse destato, in quel chiarore fantastico di neve, perché, oltre il suono delle campane, si udivano canti e grida. Anche nella casetta del vicino, Felle sentì un grido, ma diverso dal solito; un grido di dolore che lo fece star , sulla porta, col suo dono in mano. Poi entrò. I bambini, accovacciati intorno al focolare, tacevano, d’un tratto, spauriti. Erano soli; ma Lia scese di corsa dalla cameretta di sopra e prese il regalo, spingendo poi subito Felle ad andarsene.

— Non capisci, idiota? Aspettiamo anche noi il Messia.

Egli tornò pensieroso a casa sua. tutto era vita, movimento, gioia. Mai un Natale era stato così bello, neppure quando viveva suo padre, sebbene il vecchio reduce si lamentasse che tutto cadesse in disuso, che non ci fossero più i balli, i riti, le cerimonie che un tempo rendevano indimenticabile la notte di Natale.

Anche la vedova raccontava che quando era ragazza lei anche le donne prendevano parte ai canti estemporanei, e si danzava fino all’alba intorno ai focolari accesi. Felle era contento lo stesso. Girava lo spiedo, accanto alla fiamma, e pensava alla casa del vicino. E gli pareva che la nascita d’un uomo sia grande e misteriosa come quella d'un Dio.

Al terzo tocco della messa il vecchio reduce batté il suo bastone sulla pietra del focolare.

E tutti si alzarono per andare alla messa. In casa rimase solo la vedova, per badare ai suoi spiedi.

Gli altri andarono, come in corteo di nozze, intorno ai due fidanzati. Il vecchio li guidava come tanti suoi nipoti. La neve attutiva i loro passi. Figure imbacuccate salivano, su per la strada che conduce alla chiesa, con lanterne in mano, descrivendo ombre e chiarori fantastici. Si scambiavano saluti e si batteva alle porte chiuse,  per chiamare tutti alla messa. Felle andava come in sogno, ubbriacato dal vino bevuto, ma sopratutto dalla sua giovinezza. E non aveva freddo; gli alberi bianchi, intorno alla chiesa, staccati sul bianco opaco della montagna, gli sembravano mandorli fioriti. Era più allegro dei fidanzati: si sentiva, sotto le sue vesti di pelle, caldo e felice, d'una felicità sensuale, come un agnello al sole di maggio: i capelli sulle orecchie e sulla nuca, freschi di quell’aria di neve, gli sembravano fatti d’erba. Pensava alla carne grassa che avrebbe mangiato, e nello stesso tempo pregava; e pensava anche al bambino Gesù come a un vero bambino nudo che nascesse nel freddo d’una stalla e sentiva voglia di piangere, di coprirlo con la sua pelle.

Si confortò all’entrare in chiesa: l’illusione della primavera continuava, dentro: l’altare era tutto coperto di fronde d’arancio coi frutti maturi e i fiori. L’odore di questi vinceva la puzza di selvatico che emanava dal popolo di pastori riunito nella chiesetta. I ceri brillavano tra le fronde e i rami e l’ombra di questi si spandeva sulle pareti nude come sui muri di un giardino. Gli uomini più anziani e dalla voce sonora, intorno all’altare, intonavano gli uffici. Il vecchio reduce prese posto fra loro. Di lontano Felle vedeva scintillare la sua medaglia.

In una cappella accanto, sorgeva il presepio: una montagna di sughero con boschetti di corbezzoli coi frutti rossi; e una cometa d’oro che guidava i Re magi. E questi scendevano cauti dal sentiero della montagna, coi loro doni. E tutto era bello, nel mondo, tutto luce e amore. I re potenti andavano a portare doni ai figli dei poveri, le stelle camminavano sul firmamento per accompagnare con la loro luce il viaggio degli uomini: nessuno più si smarriva, il sangue di Cristo pioveva sui cespugli e faceva sbocciare le rose e sugli alberi i frutti, e il Regno di Dio veniva sulla terra.

Gloria. Gloria.

Gloria a Dio nel più alto dei cieli.

E pace in terra agli uomini di buona volontà.

Poi il sogno cessò: i lumi furono spenti e la gente se andò. Il gruppo dei suoi s’era di nuovo formato, davanti alla porta della chiesa: egli andò fra loro. Sentiva un po' freddo, adesso, perché era stato sempre inginocchiato sul pavimento umido, ma la sua gioia non diminuiva. Anzi aumentava. Apriva le narici come un cane, fiutando d'odore di carne cotta che usciva dalle case, e si mise a correre per arrivare in tempo ad aiutare la madre ad apparecchiare per la cena. Era già tutto pronto. La vedova aveva steso una tovaglia di lino, per terra, su una stuoia, e altre stuoie attorno. E aveva portato un piatto di carne e un pane e un vaso di vino cotto ove galleggiavano delle fette di scorza d’arancio, sotto la tettoia a fianco della casa, perché il marito defunto, se mai la sua anima tornava quella notte a visitare la sua casa, trovasse da sfamarsi. Felle andò a vedere: collocò il piatto e il vaso più in alto, su un’asse attaccata al muro, perché i cani non ci arrivassero, poi tornò dentro, dopo aver guardato la casa dei vicini.

Si vedeva sempre luce alla finestra, ma tutto era silenzio, nella casa dei vicini. Una piccola stella era apparsa in uno squarcio di cielo, sopra i monti nevosi, come quella del presepio. Dentro, cominciò il banchetto; nel mezzo della mensa s’alzava come una piccola torre d’avorio un mucchio di focacce tonde, lucide; e ciascuno dei commensali si sporgeva e se ne tirava una a sé, a misura che gli bisognava. Anche la carne, tagliata a grosse fette, stava entro larghi vassoi di creta, e ognuno si serviva senza essere troppo sollecitato.

Felle, seduto accanto alla madre come quando era ancora bambino, aveva tirato davanti a sé un vassoio, e mangiava senza badare più a nulla. Solo, attraverso scricchiolio della cotenna abbrustolita del porchetto, sentiva i discorsi dei fratelli e del vecchio. Questo raccontava una leggenda.

— Aveva appena cinque giorni di età, Gesù, quando volle recarsi in giro per il mondo a chieder la focaccia che si fa per Capodanno. Batté a una porta, cantando:

 

Dademi su canneu

chi m’hat mandadu Deu

e i sa Trinidade,

su canneu mi dade.

 

La padrona di casa, una ricca avara, mise in forno una focaccia piccola, ma questa crebbe tanto che invase tutto il forno. La donna avara disse al bambino: aspetta, — e mise al forno una focaccia ancora più piccola. Ma anche questa crebbe, crebbe; e lei a metter sempre focacce piccole, fino a ridurle come una moneta: e più eran piccole più crescevano; finché Gesù si stancò e se ne andò: ma quando la donna avara mangiò le focacce le trovò tutte acide.

Poi ricominciarono a cantare. Felle, sazio, beato, si sdraiò in un angolo della cucina: aveva sonno ma non voleva addormentarsi per non perdere nulla della festa, e perché doveva ripartire prima dell’alba. La sua bisaccia era già , pronta, con un po’ di focacce e di noci da rendere meno melanconico il pasto del domani su nella solitudine dell’ovile.

D’un tratto gli venne un’idea. Uscì fuori e andò a vedere se c’era ancora il tagliere con la carne, sull’asse sotto la tettoia. C’era ancora: no, i morti non erano passati, o forse erano passati, senza toccare il cibo: e gli venne una grande melanconia pensando che i morti non mangiano più. Ma egli non ebbe il coraggio di toccare nulla. Tornò ancora una volta ad attraversare il cortile. La porta dei vicini era socchiusa e di nuovo usciva il fumo. Egli si avvicinò e guardò. Vide Lia, davanti a un canestro. E dentro il canestro, fra pannolini caldi, stava un neonato; un grosso bambino col viso rosso, due riccioli sulle tempia e gli occhi già aperti.

Felle entrò, curioso e turbato, e si piegò anche lui a guardare.

— È nato a mezzanotte precisadisse Lia — mentre le campane suonavano il Gloria. Le sue ossa, quindi, non si disgiungeranno mai ed egli le troverà intatte, il giorno del Giudizio.

Sembra Gesùdisse Felle — e non osò toccare la fanciulla, sebbene ne avesse un gran desiderio, perché gli parve che il neonato li guardasse. E parve li guardasse, infatti, così giovani e belli, così piegati sul mistero della sua nascita: e tutti e tre assieme, sullo sfondo di quella cucina povera come una stalla, parevano una Sacra Famiglia.


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